A volte non è sufficiente piangere per rimarginare una ferita. Non basta la rabbia, né l'odio, né il tormento. Ci sono casi in cui esiste soltanto il bisogno incontrollabile di andar via, lontano; ma non è facile come sembra. Ci vuole coraggio persino per scappare; dire addio una volta per tutte ad un'esistenza amara ormai andata in frantumi, per poterne costruire una nuova ripartendo da zero, chissà dove...
Queste sono le riflessioni che solcano la mia mente ogni qualvolta mi ritrovo ad osservare l'illustrazione adibita a copertina di questo disco, estremamente suggestiva nella sua semplicità e carica di sensazioni contrastanti, inespresse ma incombenti, simili ad un vortice di tristezza e rimpianto che va a mescolarsi con la speranza e la volontà di non arrendersi nell'estenuante ricerca di una tranquillità ed una pace ormai perdute.
La musica segue le orme dell'immagine, muovendosi, lieve e delicatissima, lungo soffici e mutevoli aspetti di un progressive in stretto ed amabile contatto con il jazz ed il folk, generando un viaggio strumentale dai sapori intimisti ed agrodolci, guidato da flauti sognanti (Heinrik Strindberg, addetto anche al sassofono), romantiche chitarre (Peter Bryngelsson, Peder Nabo, impegnato pure alle tastiere, Stefan Ohlsson) e ritmi meditativi (Staffan Strindberg al basso e Lars Peter Sörensson alla batteria).
L'album si apre subito con un addio, a Copenhagen, al passato, alla vita che è stata.. e lo fa con un abbraccio: le chitarre infatti si sovrappongono, si intrecciano e si avvolgono in una lenta danza ("Farvel Köpenhamn" / Goodbye Copenhagen, in inglese), interrotta dal sopraggiungere del penetrante suono del basso e dei morbidi tocchi della tastiera ("Promenader" / Walks), ma ripresa poi in modo più sostenuto grazie all'aiuto del flauto ("Nybakat Bröd" / Freshbaked Bread).
Le chitarre, veri pilastri dell'intera opera, appaiono immerse in una profonda conversazione nella lunga e crepuscolare "Dagarnas Skum" (Foam of the Days), mentre il flauto si ritaglia uno spazio tutto per sé ("Polska från Kalmar" / Reel from Kalmar) introducendo i toni soffusi di "Fabriksfunky" (Factoryfunk), in cui riappare il reparto ritmico, quel tanto che basta per scomparire di nuovo e lasciare il campo libero agli strumenti a corde ("Tatanga Mani").
Le ultime tracce vedono un maggiore uso delle tastiere, prima affiancate dal vivace ritmo scandito dalla batteria ("Fiottot"), poi eclissate dalle chitarre e dai fiati ("Stiltje-Uppbrott" / Calm-Breaking Up) ed infine bruciate dall'entrata da brividi di un commovente assolo di sax ("Vattenpussar" / Pools of Water), incaricato di chiudere questo esordio omonimo, datato 1976, degli svedesi Ragnarök, i quali, nonostante la pubblicazione di lavori interessanti, come "Fjärilar I Magen" del 1980 e "Fata Morgana" dell'81, non raggiungeranno più i vertici emotivi di quello che rimarrà uno degli strumentali più carezzevoli del prog dell'epoca, insieme all'oca delle nevi dei Camel, che spiccò il volo giusto l'anno precedente.
Mi piace pensare che la fine del viaggio combaci con il proprio inizio: come un serpente che si mangia la coda, il protagonista di questa storia finalmente realizza che fuggire è come rinnovare ogni giorno il dolore di un trauma subìto e mai davvero superato, perciò decide di affrontare i propri demoni tornando al punto di partenza, alzandosi finalmente in piedi con le proprie gambe ed osservando, dall'alto di sé stesso, il protrarsi di una stupenda quiete perpetua, fiorita dopo la più violenta delle tempeste.
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