Ci sono gruppi che segnano profondamente un momento, un periodo storico, fotografando attraverso le loro canzoni il "volto" di una generazione, e poi spariscono nel nulla risucchiati dall'inevitabile clichè del "marchio di fabbrica", diventando irrimediabilmente imitatori di se stessi. Ci sono altri che invece costruiscono la loro carriera a piccoli passi, aspettando pazientemente la mietitura della loro maturità artistica, indifferenti della fretta e della pressione dell'industria discografica e dei compromessi modaioli dettati dai media e dalle mode. E' questo il caso dei Gene, band che ha accumulato ormai in 10 anni un interessante seguito di "culto", ma che non ha mai veramente sfondato nemmeno all'interno del suo stesso ambito, quasi per volere mantenere quell'atteggiamento schivo e intimo che paradossalmente ha salvaguardato, alla lunga, la propria identità di base.Quando uscì "Olympian", nel febbraio 1995, la stampa britannica non esitò a definirlo un disco puramente "derivativo" (in questo caso, analogamente a quanto fatto con l'accostamento Oasis/Beatles, il modello di riferimento fu individuato negli Smiths) e a inquadrarlo nell'allora nascente movimento Britpop. Premettendo che questi giudizi non sono in linea assoluta mistificanti, trovo ugualmente che i Gene di Martin Rossiter siano tuttora uno dei complessi più ingiustamente sottovalutati e snobbati del recente passato del pop rock inglese. Questo disco d'esordio giustificherebbe in pieno la mia affermazione, a partire dalla bella copertina (come d'altronde tutte quelle di questa band), un fotogramma oscurato e dipinto penso "a inchiostro" che mi fa venire in mente un bellissimo videoclip dei già citati Smiths, quello per l'esattezza di "There Is A Light That Never Goes Out". I paragoni con la storica band di Manchester non finiscono qui, ma trovo che questo sia solo un punto di partenza per capire che "Olympian" è il capitolo naturale che succede allo scioglimento di Morrissey & Co.

È, per forza di cose, un disco particolarmente "inglese", notturno e malinconico, che evoca atmosfere d'altri tempi. Le liriche di Rossiter affrontano temi come la dipendenza ossessiva dall'amore e dall'alcol, affrontati con il fatalismo di un Ian Curtis ma allo stesso tempo emananti quel sottile fascio di luce che permettono allo spettatore di respirare, e sperare. E' così che l'effetto che ogni brano provoca all'ascoltatore è simile a quello di un antidepressivo, una specie di massaggio ora soffice e suadente, ora vigoroso e deciso: l'anthem "Haunted By You", che gioca su una buona melodia resa benissimo dal contrasto organo/chitarre jingle jangle/voce di Rossiter, fa certamente parte di quest'ultima "categoria". Ma poi i suoni si ricoprono di velluto, le luci si spengono e ci si lascia ammaliare dall'ossessione di "Your Love, It Lies", la dolcezza cantilenante di "Truth, Rest Your Head" spezzata dall'enfatico e drammatico refrain, la coinvolgente nostalgia di "Car That Sped". Sei a questo punto del disco, e ti accendi la prima sigaretta: al resto ci pensano il rock sporcato e inquieto di "Left Handed", la struggente leggiadria di "London, Can You Wait?", la tesa "To The City" (il pezzo che più rimanda agli Smiths), la "nervosa quiete" di "Still Can't Find The Phone", il conforto di "Sleep Well Tonight".
Il dimesso e rassicurante pianoforte della title-track ci conduce ai saluti finali, con il brano conclusivo che ci lascia con la speranza, forse ingenua, che "We'll Find Our Own Way": la chitarra di Steve Mason e la voce di Martin Rossiter ti abbracciano per l'ultima volta, e ti senti meglio, molto meglio. Che i Gene abbiano veramente trovato la loro strada, è un quesito a cui non so rispondere: forse era questo il percorso che volevano intraprendere sin dall'inizio. Io so solo che quando estraggo questo cd dal lettore, posso davvero addormentarmi sereno e fiducioso per la Nostra Vita. Buonanotte.

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