Non so dirvi se per fruire di un disco del genere il background mnemonico debba obbligatoriamente contemplare un immaginario trasversale che vada dalle multi-cromate acconciature del quartier generale della SHADO, il “Ciclo dei Robot” Asimoviano, 6-7 mila partite a Space Invaders, la discografia completa di Kraftwerk e Rockets, e almeno la prima serie di Spazio 1999, sta di fatto chè questi due giovani androidi provenienti dalla costellazione di Orione e segregati in algidi laboratori tra le ghiacciate lande Finlandesi, nel loro recente ologramma di debutto partoriscono un visionario moloch elettro-sintetico come non se ne sentiva (e apprezzava) da tempo.  

Otto pulsanti, corpulenti, frenetici, danzabili mantra spazio-siderali ricolmi di bordoni sintetici e robotiche percussività al cui interno fluttuano asettiche melodie grottescamente vocoderizzate delle quali i primigeni Men Machine di Dusseldorf andrebbero (moderatamente) fieri.

Muzak dall’altro mondo.

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