Arjen Anthony Lucassen ha già benedetto il mondo con almeno un capolavoro assoluto (The Human Equation) e un paio di album ottimi (Into The Electric Castle e 01011001), per non parlare del fatto che comunque di lavori veramente scialbi nella sua discografia non se ne sono mai visti, nemmeno al di là del progetto Ayreon.

La tensione riguardante questo nuovo The Theory of Everything era quindi al massimo quando è stato annunciato per uscire un anno dopo, con perfetta puntualità: un cast di strumentisti di tutto rispetto (con prevalenza di tastieristi) e un gruppo di vocalist limitato nella quantità rispetto agli standard degli ultimi album ma non certo nella qualità. Il concept si distacca dal plot degli album precedenti e prende le distanze da tutte le figure ricorrenti finora vigenti, andando a trattare di un giovane prodigio (The Prodigy, interpretato da Tommy Karevik, fenomenale vocalist dei Seventh Wonder e poi dei Kamelot) e dei complessi intrecci narrativi che lo legano al padre (The Father, interpretato dall'ottimo quanto misconosciuto Michael Mills, più grande rivelazione dell'album) al rivale (The Rival, Marco Hietala), all'insegnante (The Teacher, JB), allo psichiatra (The Psychiatrist, interpretato da nientemeno di John Wetton), ad una ragazza (The Girl, la cui voce data dalla nostrana Sara Squadrani) ed alla madre (The Mother, un'altra grande italiana come Cristina Scabbia). Notevole ovviamente, già che si citano i vari artisti, anche la performance del polistrumentista Lucassen (stavolta particolarmente concentrato sulle tastiere) e del sempre stupefacente Ed Warby alla batteria, coppia ormai consolidata alla base di questo scintillante progetto. Neanche da citare sono i soliti arrangiamenti fantastici!

La tematica passa dall'essere fantascientifica dei precedenti album all'essere più incentrata sulla psicologia dei personaggi, avvicinando questo album in quanto a concept perlopiù a The Human Equation. Ed è questo il titolo che più volte sembra essere quasi citato direttamente in alcune scelte sonore e liriche, ma mai in modo ridondante, tant'è che questo è un album che sa indiscutibilmente di Ayreon ma che offre anche qualcosa di nuovo, soprattutto dal punto di vista della struttura. Infatti, tale aspetto dell'album è alquanto inusuale: quattro suite della lunghezza superiore ai venti minuti strutturati in una media di dieci movimenti l'uno, coincidenti con la divisione in tracce del doppio disco, per un totale di quarantadue tracce (numero che peraltro rimanda alla Guida Galattica per Autostoppisti, di certo non per caso). La durata dei singoli "brani" è quindi assai limitata, con svariati pezzi inferiori al minuto e raramente più lunghi dei tre. Considerata la tutto sommato esigua partecipazione di vocalist, è comprensibile il fatto che Arjen abbia pensato di inserire più sezioni strumentali di quanto fosse abituato a fare, con svariati movimenti unicamente strumentali e comunque sezioni dialettiche tra i vari protagonisti piuttosto compresse. Questo anche a causa della continua mutevolezza sonora, atmosfera e tematica delle suites, che si presentano come un collage ecletticissimo di molta musica eterogenea al massimo. Questo crea un effetto mosaico che dà vita al lavoro più variegato e probabilmente ricco da un punto di vista sonoro di Lucassen, ma genera anche un certo senso di frettolosità in certi momenti particolarmente, con molte idee appena abbozzate e comunque mai troppo approfondite. Il ché può essere un bene poiché, appunto, l'offerta diventa vastissima, ma forse a tratti troppo frenetica e in alcuni casi non abbastanza fluida e naturale. Dal punto di vista sonoro regna appunto l'ecletticismo più totale, con atmosfere sì prevalentemente pesanti ma anche spesso elettroniche (in alcuni casi vengono raggiunti i picchi della carriera degli Ayreon in questo campo), fino a melodie piratesche e strumentazione etnica, sequenze folkeggianti come non mai, sezioni orchestrali fiabesche e musica degna di una colonna sonora hollywoodiana.

Tra i momenti salienti si potrebbero citare Progressive Waves dalla prima suite, che offre quella che è forse la sezione strumentale più memorabile della carriera di Arjen con ben due miti della tastiera ad arricchirla, Keith Emerson e Jordan Rudess (anche se per la verità a mio parere l'assolo di Emerson è uno dei rari e più grossi scivoloni dell'album che sa pure di autoplagio di The Old Castle dall'album Pictures at an Exhibition e non è stato tagliato da Arjen solo per rispetto verso lo storico tastierista, ormai giunto alla fine dei suoi giorni di decenza mi pare). Poi indimenticabile la brevissima Surface Tension dalla seconda suite, complice un Rick Wakeman che afferma nuovamente la sua superiorità. Poi, dalla terza fase del disco (che prediligo), va senz'altro ricordata come minimo la perfetta Side Effects, con una delle interpretazioni vocali più toccanti degli ultimi anni ad opera di Wetton, Mills e Karevik. Infine, l'ultima suite contiene una perla come The Parting, con cellule ritmiche geniali, una performance della Scabbia e di Mills degna di nota (specialmente di quest'ultimo, che raggiunge la stratosfera con degli acuti clamorosi) e un sensazionale assolo di chitarra di Steve Hackett. Ma sarebbe criminale non citare anche pezzi come le tre titletracks, oppure Love & Envy, con le sue atmosfere da Day Seventeen: Accident, The Consultation, The Rival's Dilemma, Fluctuations, Transformation, Collision, con le più evidenti influenze elettroniche della carriera degli Ayreon, oppure il paradiso sintetico di Frequency Modulation, le orchestrazioni filmografiche String Theory, gli intrecci vocali femminili su tessitura acustica di Mirror of Dreams, gli emozionanti dialoghi di The Visitation, la frenesia di The Breaktrhough, o il pathos di The Uncertainty Principle, giusto per citare solo i pezzi ampiamente sopra alla media. I rimanenti altri, eccetto un paio di brevissimi intermezzi come The Argument 1, A Reason to Live e The Argument 2 (inseriti presumibilmente per raggiungere la quota numerologicamente significativa di 42), soffrono dell'unica pecca di non essere totalmente perfetti, per una ragione o quell'altra… ma rimangono mediamente degli ottimi brani.

Ascoltando The Theory of Everything potrete assicurarvi un'immersione di cinematografica memoria nell'arte di un uomo che sembra non smettere mai di avere qualcosa da offrire, tra musiche di grande spessore evocativo e ricche di freschezza ed energia, inserite in una struttura inaspettata e arricchita dalle performance vocali di eccezionale livello ottenute grazie a pochi ma ottimi vocalist reclutati questa volta da Arjen, nonché dal contributo di storici strumentisti che meritano tanto di cappello anche solo per la leggenda racchiusa nel loro nome. Ci troviamo di fronte ad uno dei concept album più interessanti di sempre e uno degli album più riusciti degli ultimi anni. Arjen Anthony Lucassen, ancora una volta, non delude, con una musica curatissima, un plot coinvolgente e un gusto eccezionale!

92/100

Album da Top 20

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