Può un disco di Conte essere diverso dagli altri? Può essere considerato “non classificabile” né nel tempo, né negli arrangiamenti, né nella struttura compositiva, sia musicale che letteraria, né infine nel fondamentale quanto indeterminabile elemento dell’atmosfera…? Se questo disco esiste, certamente è “Parole d’amore scritte a macchina”, opera anomala in tutto e per tutto, che apre gli anni ’90 del cantautore e avvocato astigiano. Esaminiamone gli elementi con quel minimo necessario d’analisi, cercando di non sembrare né noiosi né pedanti.

La copertina. Nell’era degli mp3 questo sta (purtroppo) diventando un elemento assolutamente secondario dell’opera intesa nel suo insieme. Ma basta scorgere anche distrattamente la storia delle copertine della musica cosiddetta leggera per capire che elemento trascurabile certamente non è. Qui Conte ha scelto un suo ritratto del sempre ottimo Hugo Pratt, che lo vede, in schizzo nero su sfondo arancione, perso in mezzo alle donne della sua fantasia e della sua musica. Una copertina assolutamente eterea per un disco che lo è in maniera assoluta.

La composizione. Paolo Conte era allora reduce da quello che è comunemente considerato da tutti (e anche dal sottoscritto) come il suo vero e irripetibile periodo d’oro, ovvero quello che va da “Un gelato al limon” a “Aguaplano”. Momento aureo soprattutto per la genialità dei testi, per quella capacità di scrivere melodie apparentemente semplicissime su strutture armoniche spesso difficili. Qui tutto cambia in nome del più puro minimalismo. I testi possono apparire (e allora apparsero senza dubbio) scarni e meno ispirati. Nella realtà è solo un approccio diverso, teso completamente all’emozione e all’atmosfera, e in questo scopo l’Artista riesce come forse mai. Si va da canzoni dal piglio tipicamente contiano (“Colleghi trascurati”) ad altre assolutamente anomale nel panorama compositivo del cantautore (“Dragon”, pseudoblues su base elettronica piacevolmente ossessiva), da trovate geniali che scavano nel profondo (“Il Maestro”… e qualunque spiegazione sarebbe retorica e soprattutto inutile…) a scherzi divertenti meravigliosamente fini a se stessi (“Happy Feet”). Disco dunque compositivamente dall’apparenza povera e dalla profondità indiscutibile, che può esser frutto solo di ascolto attento e maturo.

Gli arrangiamenti. Anche in questo caso Conte era reduce dal periodo d’oro, quello delle collaborazioni con (più o meno) lo stesso gruppo di Musici di Guccini (e ovviamente della scuderia Fantini), ovvero quelli, in sintesi, dove le migliori pennellate d’Autore erano date dalla fluidità batteristica d’un Bandini o dalle improvvisazioni temperatamente hard bop del sax di Marangolo. Qui, pur rimanendo invariata la produzione, il gruppo cambia in tutti i suoi membri. Musicisti senz’altro più scolastici e meno bravi, ma che nell’eterea atmosfera dello studio monferrino rendono benissimo le idee – ora e per sempre non più filtrate- dell’Autore. Nell’ultimo brano si affaccia, con lievi percussioni e senza per fortuna far danni, quel Daniele Di Gregorio, batterista dalla rara legnosità e della limitatissima libidine musicale, che invece tanti danni (almeno a opinione di chi scrive…) farà negli anni a venire, soprattutto nei dischi dal vivo (confrontare la parte di Bandini e la sua in “Alle prese con una verde milanga” nel live degli ’80 e nell’ultimo “Arena”…). Ma parlando di arrangiamenti si deve notare per forza il vero dato che rende questo disco assolutamente unico nel suo genere, ovvero l’assenza totale della batteria. Per sentire gli stessi brani con la batteria bisognerà aspettare i numerosi live (tre doppi, da allora…), e il risultato sarà sicuramente inferiore al modello in studio. Qui Conte pare omaggiare il jazz/blues degli albori, quello ove la parte ritmica era lasciata alle chitarre, che anche in questo disco si assumono ogni onere ritmico, quasi a far perdere la sensazione, spesso, dell’accordo che stanno suonando. Quasi che l’importante fosse più la “grattata” che l’accordo. Scelta anche qui apparentemente discutibile, ma nel risultato caratterizzata invece da una forza indiscutibile. I brani di “Parole d’ amore…” sono assolutamente eterei, come se fossero appesi in un punto indefinibile nello spazio e nel tempo.

Un disco che valutato posteriormente si farebbe certamente fatica a definire e datare, ed anche per questo bellissimo. Poi Paolo Conte sarebbe tornato sulla terra, con dischi molto belli (“900”, “Elegia”), altri semplicemente più che buoni (“Una faccia in prestito”) altri assolutamente trascurabili (il sogno mancato di “Razmataz” ) e, come dicevo, troppi live e raccolte. Comunque tutti prodotti piacevolmente usuali, normali, pur in un’ottica contiana. “Parole d’amore scritte a macchina” invece è là, ad abbellire la limitata ma splendida schiera dei dischi “strani” .

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