In copertina c'è un viso pallido ricoperto da peli e pelliccie, un largo cappello color bianco acidulo, uno sguardo che sembra volare lontano. Non è un marziano, non è nemmeno Toro Seduto: è Bob Dylan in una rarissima, e sorprendente, fotografia di metà anni Settanta. È l'emblema di un artista diverso, rinnovato: non più contestatore, ma solo e semplicemente rocker puro, felice geniaccio sempre sospeso fra il Paradiso e l'Inferno. "Desire" è l'album della definitiva consacrazione autoriale. Rock e folk si mischiano abilmente quasi a voler formare una sorta di indecifrabile mistero dylaniano: è più forte il canto di protesta o la protesta canterina? Dylan, ormai maturo, sfodera una cattiveria e un cinismo reverenziale che poche altre volte si era visto. Non c'è più la rabbia del ventenne che canta "The Times They Are A Changin", c'è la malinconia e la consapevolezza del (quasi) quarantenne, la voglia di cambiare e la paura di sbagliare. È ancora però un Dylan geniale, a tratti persino sconvolgente, l'ultima grande perla prima del definitivo oblio musicale.

Le musiche sono spesso stridule: molti violini (come succede ormai da un pò di tempo), grandi assoli chitarristici e molta voglia di stupire (forse troppa). Il brano principe è naturalmente "Hurricane", sbalestrata storia made in Usa in cui un povero pugile nero incarcerato ingiustamente proprio nel momento in cui, trionfalmente, sta per essere eletto campione del mondo. È una ballata lunghissima, trascinante (quasi nove minuti), eppure non stanca. Dylan ricopia, forse un pò leziosamente, l'uso ritmico delle battute e dei ritornelli prendendo spunto da "Like a Rolling Stones": stessa introduzione diretta e secca, ritornello rapido e più volte cantato, lunga chiusura finale a suon di chitarra e batteria (i lunghi assoli di chitarra e batteria sono, ancor oggi, il marchio di fabbrica di Mr. Zimmermann). "Hurricane" è stupefacente: brillante come una sinfonia mozartiana, semplice come un canto per bambini d'asilo. Niente retorica, niente metafore: solo la forza della parola, e della rabbia, può arrivare al cuore della gente. E il rock, questa volta, non è più quello di "Highway 61 Revisited", ma è assai più vicino a quello di "Born To Run", leggendario album firmato Bruce Springsteen e uscito nel 1975 (per la serie: quando il maestro scopiazza l'allievo). Ma lo scopiazzare, questa volta, a portato frutti di ottima qualità e una stima reciproca che durerà col tempo, con gli anni e con l'arte. Anche se Dylan è una spanna sopra Bruce. "Desire" contiene, oltre ad "Hurricane", altre bellissime composizioni. Toccante e dolcissima è "Sara", soffertissima (e dunque amatissima) canzone dedicata alla moglie, o meglio, al ricordo di una moglie. Dylan sfoglia le pagine di una memoria forse perduta e di un innocenza forse mai toccata: una ballata tesissima, la chitarra si accende quasi magicamente e i violini volano liberi e leggiadri su note, e sensazioni, che toccano il cuore e stracciano lo spirito. "Sara" è finalmente la canzone matura di Bob Dylan, è finalmente quel ritratto pudico e riservato che Bob prova a comporre da almeno una decina d'anni. È la forza della vita, e l'apatia della morte, che rendono "Sara" un brano quasi efebico: nemmeno "Iris", altro brano presente nell'album, toccherà vette e vertici così elevati.

Forse, quel viso pallido con pelliccia e sorriso sfacciato, che sembra volerci prendere un pò in giro in copertina è fatalmente cresciuto. E forse la crescita, ha portato ad una nuova consistenza terrena e a una nuova consistenza materiale. In "Iris" Dylan suona, un pò a sorpresa, il pianoforte (e lo fa molto bene), in "Mozambique" i ritmi caraibici e sudamericani sembrano avvicinarsi a quelli pazzarielli di Battisti in "Anima latina", mentre "Romance in Durango" verrà ripresa, due anni più tardi, da Fabrizio De Andrè col titolo di "Avventura a Durango". Degna di nota anche la jazzistica "Black Diamond Bay" in cui la batteria confonde e mescola suoni e illusioni. Un pezzo di altissima classe, con la voce di Bob a condire, molto squisitamente, un brano articolato e rocambolescamente complesso. Peccato per quel finale, "Joey": più di dieci minuti senza nè entusiasmare nè stupire. Il testo è carino, ma la musica, francamente, è lontana anni luce da quella geniale e corrosiva di "Hurricane".

Dopo "Desire" Dylan si immergerà a capofitto nei vertiginosi anni Ottanta: tanti concerti, tanta voglia di cambiare e mescolare le proprie canzoni (col risultato, a volte, di renderle irriconoscibili), e una felicità creativa ai limiti del decente. Ma d'altronde, Bob è questo ed altro.

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