Il penultimo album di Vasco Rossi – quello magro – risale al 1982 e si intitola “Vado al massimo”.
In quell’anno Rossi decide di compiere il grande passo e di farsi massacrare dalla giuria meno oggettiva d’ Italia: partecipa infatti al Festival di Sanremo e viene relegato all’ ultimo posto, come negli anni precedenti molti colleghi illustri che avrebbero trovato riscatto e successo ignorando in seguito la vacua manifestazione.

Vasco partecipa proprio con “Vado al massimo”, che trova il suo pubblico fra chi è meglio predisposto ad accettare le novità, una categoria di cui egli stesso fa parte, quella dei giovani e dei ribelli, che vedono in lui un portavoce della loro cultura.
In barba alle critiche negative, Rossi sforna un prodotto che viene molto apprezzato, dai toni irriverenti che riuscirà a mantenere ancora per un paio di album; supportato dalla Steve Rogers Band di Maurizio Solieri e Massimo Riva, Vasco ci regala nove brani molto orecchiabili e carichi, per un disco variegato nella scelta degli stili: l’album si apre infatti con “Sono ancora in coma”, un hard rock nevrotico nei testi e nell’ interpretazione e con la simulazione del decollo di un aereo sostenuto dalle chitarre elettriche per introduzione; una prova di maestria e di ironia è la successiva “Cosa ti fai”, questa volta un mid time rock, con l’interpretazione di un Vasco più divertito che mai, che prende in giro la classica ragazza facile che cerca di apparire come un’ innocente figliola.

Accanto alla prova che Vasco sa ridere (ed è questa la differenza che passa fra il Vasco vecchio e quello nuovo – o meglio: fra Vasco e il Blasco), c’ è una canzone – splendida, per carità – che però prefigura un nuovo modo di comporre, più improntato allo slogan, che più tardi utilizzerà abbondantemente; si tratta di “Ogni volta”, e rappresenta, per stessa ammissione dell’ autore, "il passaggio, per quanto riguarda il modo di scrivere, dalla realtà alla fiction!", e quindi ad un quasi – pop. “Vado al massimo” , invece, è un reggae con ritornello hard rock, in cui il nostro se la prende con "quel tale / che scrive sul giornale", ovverosia con il giornalista Nantas Salvalaggio che l’ aveva in precedenza denigrato, e nel quale – chissà perché – dichiara, contraddicendo quanto affermato in passato (in un altro reggae, “Voglio andare al mare”), di voler passare le vacanze "in Messico, altro che al mare". Tutto ovviamente, con un tono molto ironico.

Se il lato B parte con un’altra contrapposizione brano serio – faceto, vale a dire con il rock duro di “Credi davvero” e il funk di “Amore… aiuto” (quest’ ultimo sottovalutato ma molto bello e, se non altro, divertente), seguono tre canzoni indimenticabili: la triste “Canzone”, risultato della somma di una musica scritta da Maurizio Solieri dopo la fine di un amore, e di un testo scritto da Vasco dopo la morte di suo padre: a dir poco struggente; la famosa “Splendida giornata”, che non ha bisogno di presentazioni, dalle atmosfere anni ’80 e scritta con Tullio Ferro; infine, la perla dell’ album, forse la canzone più bella e contemporaneamente – per fortuna – meno conosciuta, “La noia”, una ballata malinconica cullata dalle chitarre acustiche e dal basso, sulla noia della vita di periferia dalla quale si tenta, invano, di scappare. Un mesto assolo di sax, sfumando, chiude il brano.

Vasco Rossi è un personaggio che spacca in due il pubblico: c’ è chi lo ama e chi lo vorrebbe vedere morto, chi lo considera un mito e chi un personaggio falso e ipocrita; chi riconosce che la prima parte della sua produzione è oro e l’altra è fango (o viceversa), e chi sputa su tutta la sua discografia. Ma la verità è che ad un certo punto Peter Pan è stato costretto a crescere, ha scordato come si fa a volare. Noi siamo tutti qui, sull’ isola che non c’ è, che non vogliamo crescere e aspettiamo sperando di vederlo tornare.

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