Esperimento. Immaginate New York in una tarda notte d'estate, leggermente ventilata. Non riuscite a dormire, uscite per una passeggiata, fissate sui marciapiedi la vostra ombra riflessa dalle luci delle banche. La città è semideserta. Siete vagamente angosciati, ma tutto sommato mantenete la calma. Aspirate a una serenità chimerica. Bene, siete l'alter ego di Matt Berninger, il cantante dalla voce baritonale dei brooklyniani The National, al quarto disco.

"Boxer" è quello che voi provate girando per la città: gli amori che sognate dentro appartamenti che intravedete appena, le illusioni che vi portano a passeggiare verso il curato parco metropolitano, le inquietudini che si proiettano sui palazzi che vi incombono addosso. L'aria ha il sapore di un cocktail fuori moda. Il sound è scuro ed elegante, una new wave molto soffusa, con poche tinte oltre al nero. La voce di Berninger sta a metà tra quelle di Paul Banks e Nick Cave: è profonda, calda, ma controllata. Le chitarre sono poco invasive. Il basso raramente va in primo piano. Tutto è affidato al piano, a tastiere ariose e a una batteria meccanica (a tratti, sembra, semi-elettronica), che fa tenere un ritmo preciso ai vostri passi, secco. È la batteria dei Joy Division in "Passover", cruda.

Passate attraverso la NYC degli Interpol. Ma la metro non è un porno, e i marciapiedi non sono un caos. È tutto più vellutato, quasi romantico, ovattato. Eppure un pezzo come "Mistaken For Strangers" gli Interpol lo ruberebbero volentieri ai conterranei: per quei vuoti, quelle interruzioni che lasciano nuda la voce, riprese poi con uno svogliato e sporco spleen. Solo qui e in "Apartment Story" potete trovare uno stile davvero interpoliano, con chitarre sfocate e richiami post-rock, che giocano nei muri ma anche negli intarsi, più in direzione I Love You But I've Chosen Darkness. Sempre nel buio si resta.

I pezzi migliori li scandisce il piano (suonato da Sufjan Stevens in "Ada"). "Fake Empire", piano, batteria e voce in crescendo, è semplicemente una gran canzone. A livello altissimo "Brainy", trasognata e aerea, "Squalor Victoria", che ha l'aria di eleganti locali svuotati. L'intensità sfiora il dramma senza sprofondarci: potete fumare una sigaretta con stile, mascherando la nevrosi, tenendo la disperazione sotto controllo. Le paranoie le dissimulate. Difficile cadere negli abissi di Curtis & co: state sull'orlo. La batteria martellante e dura fa a pugni con una voce romanticamente demodé.

I testi di Berninger sono slegati, sconnessi, come l'asfalto che calpestate. Ammassano immagini surreali e scene prosaiche. C'è anche qui lo stile visionario di Banks, fatto più cinico, houellebecquiano. Così in "Slow Show", più vicina a un rock americano, con gli archi rinforzati da una fisarmonica e da corni: "Can I get a minute of not being nervous and not thinking of my dick?". Poi una nota sentimentale: "You know I dreamed about you for twenty-nine years before I saw you". Altalene da sbronzi. Vedete lei nei visi dei pochi passanti.

"Green Gloves" e "Guest Room" sono gli altri gioielli, costruiti sugli intrecci vertiginosi tra tastiere e chitarre. Ma nessuna delle dodici tracce stecca. A tratti sembra di sentire il Nick Cave di "The Boatman's Call", quello di "(Are You) The One That I've Been Waiting For?", in punta di piedi, straziato ma presente a se stesso. Così nella finale "Gospel".

Smettete di camminare. La città è indie e romantica. Il suo caos ha una sordina. Vi guardate meglio attorno: non vi siete mossi di un metro. Ma avete il cuore che vi pulsa nelle orecchie.

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