Quando, sul palco dell'Ariston, salì Roberto Benigni e cominciò a canticchiare "Via con me" molti storsero il naso e asserirono, impietosi, che 'ogni ofelé el sò mesté'. In realtà Benigni (non ancora oscarizzato) aveva interpretato benissimo questa eclettica composizione firmata Paolo Conte (colonna sonora, ricordiamolo, di "Tu mi turbi").

"Paris Milonga", l'album capolavoro di Paolo Conte, conteneva, tra l'altro, questo bellissimo e famosissimo brano, "Via con me". Da Parigi a Milonga (città inesistente, musica dolce) un viaggio, tanto per cambiare, fra donne e sonorità tanto antiche quanto estremamente moderne. Come nel precedente "Paolo Conte" è il ricordo il tema portante di questo album: questa volta però Conte non commette nè errori nè sbavature: una sequela impressionante di brani tutti oscillanti fra l'epico e lo straordinario.

Un album raffinatissimo, di alta scuola e alta classe, un successo di critica e, per una volta tanto, anche di pubblico (quasi un milione le copie vendute). "Via con me" è l'emblema di una carriera, forse di una vita: una donna (una Dea?) s'innamora di un uomo (un mortale?) e con questo compie un inesorabile, distruttivo, forse redento, viaggio verso la speranza e la sontuosità ("Via via vieni via con me, entra in questo amore buio, non perderti per niente al mondo..., via via non perderti per niente al mondo, lo spettacolo d'arte varia di uno innamorato di te") e conclude esplicitamente ("Via via entra e fatti un bagno caldo, c'è un accappatoio azzurro, fuori piove un mondo freddo"). Il pianoforte viaggia superbo su note quasi celesti e i bassi penetrano profondamente in zone musicali oscure e minacciose. Fra Parigi e Milonga s'incontrano tipi buffi, volti allegri, volti tristi. Posti e luoghi dell'anima, incontri e amori spesso platonici o, il più delle volte, asessuali. Ma c'è anche l'azzardo, la sfida. "Alle prese con la verde milonga" è un brano vertiginoso, forse l'esperimento più rischioso mai udito in Italia. Sette minuti di pura follia: Paolo Conte innesta, nei suoni armoniosi di una milonga ottocentesca, i ritmi e i suoni di una moderna ballata jazz. Non importa che il testo sia poco meno che una sciocchezzuola ("E mi avrai verde milonga che sei stata scritta per me, per la mia sensibilità, per le mie scarpe lucidate"), è la musica la vera anima, la vera essenza di un capolavoro troppo frequentemente bollato solamente come un mero esperimento musicale tronfio e barocco. E, ancora una volta, il pianoforte pare compiere miracoli letteralmente regali.

C'è anche "Parigi", altro bellissimo brano che Conte, da maestro consumato, distilla lentamente strofa per strofa, nota per nota, sensazione per sensazione. La romanticheria si tramuta in nostalgia e il finale è mesto quanto geniale ("Io e te, scaraventati dall'amore in una stanza, mentre tutto intorno è pioggia, pioggia, pioggia e Francia"). Questa volta, oltre al pianoforte, il miracolo lo compie il flauto: eccezionale.

Il viaggio che da Parigi porta a Milonga è appena cominciato o forse non è mai nemmeno iniziato. Citiamo il Manzoni: ai posteri l'ardua sentenza.

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