La fine degli anni sessanta coincide con la fine del sogno hyppie di un “possibile mondo migliore” dove vivere… nei trip psichedelici americani ed inglesi stava scemando l’effetto emotivo che mostrava viaggi morbidi e caldi, per cui il risveglio diventava traumatico ed oscuro, e la coscienza collettiva virava sulla scarnificazione del pensiero futuribile, portando il nichilismo fin dentro i meandri più reconditi delle viscere dei singoli.

In Germania tutto ciò non era potuto accadere. Il paese era ancora impegnato a superare l’ingombrante passato recente, cercando di affrancare la propria immagine da quella che solo un paio di decenni prima aveva scosso le fondamenta stesse del pianeta. Anche la musica, nella Repubblica Federale Tedesca era stata quella colonizzatrice dei paesi vincitori del conflitto bellico, per cui intere generazioni di bambini e ragazzi erano cresciuti con il rock’ n’ roll americano prima ed il beat inglese poi. La musica alta, invece, aveva imboccato la strada della destrutturazione e decontestualizzazione… per cui una figura come quella del compositore sperimentale Karl Heinz Stockhausen aveva scosso il paese con la sua composizione del 1966 “Hymmen” (“Inni” ) che aveva preso l’inno nazionale e lo aveva straziato con manipolazioni elettroniche di taglia-e-incolla, provocando lo sdegno collettivo di fronte a questo “scempio”. Ma la sua influenza sulle nuove generazioni di musicisti era pressoché totale e molti dei suoi studenti divennero devoti del pensiero del compositore ed iniziarono un viaggio da cui non avrebbero più potuto tornare indietro. Tentarono (con successo, visto col senno di poi) di creare una forma di rock (popolare) tipicamente tedesco, partendo dalle istanze musicali d’oltreoceano e d’oltremanica, trasfigurandole ed immergendole fino in fondo nell’anima mittel-europea. Due di questi studenti, Irmin Schmidt ed Holger Czukay (a sua volta diventato insegnante di musica) entrarono in contatto con la musica psichedelica grazie ad un giovane alunno di quest’ultimo, Michael Karoli, che li introdusse nel variopinto caleidoscopio di suoni con “I’m The Walrus”, Jimi Hendrix ed i Velvet Underground. I due, istintivamente sentirono l’urgenza di entrare a far parte di questo mondo colorato.

La prima formazione degli Inner Space era composta da Schmidt alle tastiere, Czukay al basso, il giovane Karoli alla chitarra ed al violino ed il batterista free-jazz Jaki Liebezeit alle percussioni. La voce non era contemplata, finchè la moglie di Schmidt non li introdusse allo scultore afro-americano Malcolm Mooney. Mooney non aveva mai cantato fino a quel momento, ma da subito entrò in sintonia col gruppo, lasciandosi ben presto andare a schizofrenici interventi vocali durante le sessions. La sua voce psicotica si lanciava in epici mantra ancestrali, tanto che automaticamente divenne il vocalist dei Can (acronimo scelto proprio da Mooney perché breve, incisivo e dai molteplici significati). Alcuni concerti-evento e forma sonora di mostre di performing art allo Schloss Norvenich di Monaco Di Baviera del loro amico Mani Lobe, li resero molto popolari, tanto che lo stesso Lobe allestì per loro uno studio di registrazione all’interno del suo castello. Nell’estate del 1969 da queste mura esce l’esordio dei Can: “Monster Movie”, vero e proprio capolavoro di quella che presto diventerà l’onda Krautrock tedesca, meglio definita dagli stessi protagonisti come “Musica Cosmica” . L’iniziale “Father Cannot Yell” è l’anima dei Velvet Underground che viene dilatata in un esasperante trasfigurazione sonica, con la voce di Mooney che sembra voler uscire direttamente nell’Universo, da cui poi torna dilaniata nella successiva ipnotica “Mary, Mary So Contrary” con il violino di Karoli a disintegrare l’aria circostante. “Outside My Door” è l’anello di congiunzione tra “Interstellar Overdrive” dei primi Floyd e lo space-rock degli Hawkwind o il rock ’n’ roll deviato dei primi Roxy Music. Fine del lato A. La seconda facciata del disco si apre e chiude con i venti minuti di “Yoo Doo Right” dove l'ipnosi mantrica del basso di Czukay conduce tutto il gruppo in un viaggio purificatore dei più reconditi incubi siti in ognuno di loro. La voce di Mooney dipinge incredibilmente bene le paranoie del suo essere nero in Germania (tanto che di lì a poco, su consiglio del suo psicanalista, tornerà a New York alla ricerca del perduto equilibrio), mentre le tastiere eteree di Schmidt dialogano nell’iperspazio con la tagliente chitarra di Karoli e Liebezeit percuote le sue pelli come uno stregone pellerossa toccato direttamente dalla voce di Manitù. Il viaggio è finito, pur essendo solo all’inizio e forse per poter capire a pieno un’opera d’arte, serve contestualizzarla nel periodo che l’ha partorita (quando non si ha la fortuna di averlo vissuto); anche se poi la vera comprensione credo risieda nelle emozioni che questa sprigiona in noi… è un dubbio dal quale non ho ancora trovato il conforto di uscirne.

Carico i commenti... con calma