D'estate stavo sempre con la zia e con Big mama.

E sull'argine del fiume facevamo tanti giochi.

Il più bello di tutti ci era stato ispirato dai pomeriggi passati a casa dei nostri soli amici, il mago e suo figlio, due da cui nessuno, ma proprio nessuno, andrebbe a prendere il tè.

Il mago era un tipo grassottello dallo sguardo malinconico e dolce.

Un orsacchiotto assai gentile con i suoi “Signora qui, signora la” e “Visto che c'è il signorino, che ne dite se vi racconto una favola, che poi anche voi la gradite una favola, nevvero?" E le raccontava così bene da restare a bocca aperta. Anche perché scrivere per i bambini era il suo mestiere.

E se non era una favola era un "Care signore, che ne dite se vi leggo i tarocchi? Dovete però promettermi di non prendere troppo sul serio quello che vi dirò, che facciam così, tanto per passare il tempo." E questo era miele per le orecchie di Big mama e della zia.

E allora direte voi, perché non si dovrebbe andare a prendere il tè da un signore così delizioso?

E' che questo mago aveva una bizzarra abitudine: nel bel mezzo di una lettura di carte, o di una favola, poteva capitare che entrasse in una specie di trance, con gli occhi che gli diventavano spenti e vuoti, come se si scollegasse dal contesto per collegarsi a qualcos'altro; si alzava allora e, come fosse chiamato da qualcosa o tirato da un filo invisibile, cominciava a fare dei movimenti con le braccia e con le gambe, una specie di danza tra il clownesco e il mistico.

Una cosa, credetemi, che lasciava in chi lo osservava un forte senso di pena, la stessa sensazione che si prova osservando quei folli che ripetono lo stesso gesto per ore come se non fosse possibile fare altro.

A quei movimenti alternava un inquietante farfuglìo di parole incomprensibili dette con il tono della supplica o della preghiera e, più raramente, con quello di un ordine. Tutto ciò poteva durare pochi minuti, oppure anche molto di più.

"Dovevo impedire al male di entrare - disse, dopo essere tornato in sé, la prima volta che ci capitò di assistere a quell'assurdo fenomeno- l'ho fatto anche per voi, che avrebbe potuto infilarsi in una delle vostre tasche, che il male cerca sempre un cantuccio dove starsene bello caldo. Sarebbe stravagante, ne converrete, che voi, entrati qui puri come gigli, ne usciste inzaccherati da un demonietto. Che poi, sapete, con voi occorre particolare attenzione, che voi per il male siete come il più splendente fiore per l'ape. Voi siete immacolati, non entrereste in questa casa altrimenti."

Questo strano rituale in certi giorni poteva ripetersi anche diverse volte, in altri eravamo più fortunati e i demonietti ci lasciavano in pace.

Il figlio, un ragazzo sui vent'anni con il viso da bambino, era invece uno che, quando andava a pisciare, prima tirava fuori l'arnese e poi apriva la porta. E che, spesso, incurante delle nostre chiacchiere, si masturbava in un angolo della stanza. Tutte cose non proprio da tè delle cinque, ne converrete.

E non è finita qui. C'era anche la sapienza ritmica. Che, ogni tanto, nessuno sa perché, quel ragazzo cominciava a far uscir dalla bocca,. in un tono esclamativo e rabbioso, dei suoni assurdi e magici, cose tipo "icicco, cicicco, ci, cii, icicco!!! macco, cacco, macco!!!".

Erano parole/suono di straordinaria forza espressiva rivolte forse a quegli stessi fantasmi del male che il padre cercava disperatamente di scacciare.

Ma la sapienza ritmica vera e propria veniva fuori con il "fat de in the cul", che in romagnolo significa fatti dar nel culo.

Ecco come andava: si sedeva per terra, con una espressione enormemente corrucciata, una specie di pippio all'ennesima potenza e se ne stava così per un bel pezzo, immobile, totalmente preso da se stesso, quasi a voler catturare tutta l'energia necessaria ad uno sforzo sovrumano.

Poi, inaspettato, dalle labbra semichiuse usciva, in un sussurro appena, appena percettibile, un “fat de in te cul" assurdamente tenero, incongruo come un vulcano che si limiti a fischiettare o fare uno starnuto.

Passato qualche minuto, un altro “fat de in the cul” più deciso si librava nell'aria.

Iniziava così un crescendo, di frequenza ed intensità, che da una cantilena iniziale portava ad un apice quasi insostenibile di violenza sonora, raggiunto il quale decresceva fino ad arrivare a un silenzio carico di energia e di stelline .

Il tutto poteva durare moltissimo tempo, anche delle ore.

Ho letto da qualche parte del cantante di un gruppo d'avanguardia tedesco che in una esibizione folle, mentre gli altri suonavano la loro robetta super esoterica, salmodiò per tre ore la stessa frase per poi crollare a terra.

Quel tipo dopo qualche anno è quasi impazzito.

Il figlio del mago ha invece sempre goduto di ottima salute, dimostrando che in certi casi la follia (quella dolce perlomeno) è molto meglio dell'avanguardia.

Come l'avanguardia del resto è sempre meglio di niente.

Quel cantante amava definirsi comunicatore linguistico stellare e, unico americano in un gruppo di tedeschi, si chiamava Malcom Mooney.

Ebbene caro Malcom, dovunque tu sia, spero mi permetterai di prendere a prestito la tua bellissima invenzione poetica per il figlio del mago, che anche lui era, credimi, un comunicatore linguistico stellare.

E quindi, anche noi, nel nostro piccolo, comunicatori linguistici stellari, sull'argine del fiume ci dedicavamo al “fat de in te cul”.

Avreste dovuto vederci mentre, seduti nell'erba, eravamo tutti concentrati in quella folle e dolce tiritera.

Ah, "Monster movie" è bellissimo...

Trallallà...

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