editoriale di JackBeauregard

Il 30 aprile 1989, 36 anni fa ci lasciava Sergio Leone, stroncato a sessant'anni da un infarto. Per molti anni, in occasione di questo anniversario mi è capitato di scrivere qualche riga per ricordarlo. Adesso ne sono passati parecchi dall'ultima volta che ho scritto. Cercando nel mio piccolo archivio, alla fine ho ritrovato questo che segue, che scrissi a 10 anni dalla sua morte, e che rimane forse la cosa migliore che ho scritto. L'avevo inviato su un newsgroup di usenet che frequentavo assiduamente all'epoca. L'ho lasciato così com'era allora, senza ritocchi e magari con qualche ingenuità ed eccesso di entusiasmo di troppo e che forse adesso non ripeterei, ma mi sembra che abbia comunque conservato la freschezza e la spontenità di allora. Buona lettura.

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SERGIO LEONE - TEN YEARS AFTER

“Guarda guarda chi si vede: il fumatore. Ti ricordi di me, amigo?… Ma sì, El Paso.”
“Il mondo è piccolo”
“Sì, e anche molto cattivo… Prova a accendere un altro fiammifero…”
“Abitualmente fumo dopo mangiato. Perché non torni tra dieci minuti?”
“Tra dieci minuti fumerai all’inferno. Alzati”

Questo scambio di battute tra Lee Van Cleef (Col. Mortimer) e Klaus Kinski in “Per qualche dollaro in più” è solo uno dei tanti memorabili dialoghi presenti nei film di Sergio Leone, di cui oggi, 30 aprile, ricorre il decimo anniversario della scomparsa.

Essendo ormai diventata una mia consuetudine, da quando frequento IACine, omaggiare ogni anno, in questa data, il mai abbastanza rimpianto regista italiano, che ho amato fin dall’adolescenza in maniera quasi viscerale, in occasione del decennale, ho deciso di andare un po’ a ruota libera, pescando tra i ricordi e le sensazioni che mi hanno sempre suscitato i suoi film.

“Al cuore Ramon, quando vuoi uccidere un uomo devi sparagli al cuore!”
Il primo e più famoso teorema della filmografia leoniana (“Quando un uomo con il fucile incontra uno con la pistola, quello con la pistola è un uomo morto”) viene confutato nel finale di “Per un pugno di dollari” dall’eroe biondo, senza nome e senza passato (Clint Eastwood) che, terminato il suo “compito”, se ne va in groppa al suo mulo senza una metà precisa.
E’ l’inizio della leggenda e della fortuna che avvalsero a entrambi (Leone e Eastwood), i quali si incontreranno anche nei due successivi film per poi lasciarsi definitivamente, seguendo ognuno la propria strada.

Ma la figura dell’eroe solitario, individualista e un po’ anarchico rimarrà una costante di tutta la produzione di Leone, attraverso i personaggi di Armonica (Charles Bronson) e John (James Coburn) fino ad arrivare a quello più completo, il malinconico e perdente Noodles, interpretato in maniera magistrale dal grande Bob De Niro.

Questo, come il tema dell’amicizia virile da una parte e la spietata visualizzazione della violenza dall’altra, saranno gli elementi cardine del discorso cinematografico di Leone, ai quali bisogna aggiungere, per avere un minimo di completezza del quadro, il tocco ironico sempre presente a vari livelli e spesso nelle situazioni più tragiche.

Ovviamente l’ironia, che la fa da padrona in tutta la trilogia del dollaro, raggiungendo il suo apice ne “Il buono, il brutto, il cattivo”, pian piano viene stemperata nella trilogia americana, quando il gioco si fa più serio, e arriva a toccare note molto amare nel dialogo finale tra Noodles e Max al termine di “C’era una volta in America”:
“Un amico tradito non ha scelta. Deve sparare!”
“Vede senatore Bailey, in passato abbiamo ucciso per molti motivi, ma il suo caso non l’avremmo mai accettato”
“E’ il tuo modo di vendicarti?”
“No, è solo il mio modo di vedere le cose.”

Non è da meno, tuttavia, un altro grande scambio di battute alla fine di “C’era una volta il West” tra Armonica e Frank, sullo sfondo della ferrovia che avanza inesorabilmente (il progresso) e che sta per cancellare definitivamente le mitiche figure del vecchio e selvaggio West:
“E così hai scoperto che non sei un uomo d’affari”
“Solo un uomo”
“Una razza vecchia, verranno altri Morton e la spazzeranno via”

Sono così tante le cose che emergono dalla visione dei suoi film, che viene da chiedersi se Leone stesso fosse sempre stato pienamente consapevole di tutti gli aspetti, le connessioni, i sentimenti e le sensazioni che è riuscito a far scaturire, a provocare e a suscitare con le immagini, o se il tutto sia stato solo il frutto di una grande abilità istintiva, di un talento naturale e innato che ha trovato sfogo in quel grande mezzo artistico che è il cinema.
Non lo so, forse è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Poco importa però, visti gli eclatanti risultati raggiunti.

Ci sarebbero, ovviamente, tanti altri aspetti da prendere in considerazione, da quelli spettacolarmente tecnici, che vanno dall’uso particolare dello zoom agli stupefacenti dolly e piani sequenza (uno su tutti: l’arrivo di Jill alla stazione in “C’era una volta il West”), al montaggio (vedi il triello de “Il buono, il brutto, il cattivo”), all’utilizzo della musica, che forse mai come nei film di Leone, ha avuto un peso così determinante nella riuscita delle opere. Ma non voglio tediare ulteriormente chi è arrivato a leggere fino a questa riga, e soprattutto mi auguro, in futuro, di poter riuscire a sviscerare altri temi al riguardo.

Oggi, a conclusione di questo umile e modesto omaggio, voglio ricordare quella che per me resterà per sempre la più bella sequenza di tutti i suoi film:
un uomo si rialza da terra, dopo che una cannonata l’ha fatto cadere da cavallo e si ritrova ai margini di un cimitero con le tombe disposte in cerchio. Parte un tema musicale inedito (e che verrà sfruttato solo in questa sequenza) e l’uomo inizia a correre tra le tombe. Alternando campi lunghi a primi piani e a soggettive, in un crescendo musicale sempre più alto, assistiamo per quattro minuti alla ricerca affannosa dell’uomo che terminerà davanti alla croce con su scritto Arch Stanton.
Protagonista, ovviamente, il grande Eli Wallach!

L’ultima immagine prima dei saluti va, invece, al fermo sul sorriso di Bob De Niro, l’ultimo fotogramma girato da Leone. Un sorriso enigmatico, che lascia lo spettatore nel dubbio se tutto quello che ha visto nelle quattro ore precedenti sia realmente accaduto o sia solo un sogno, il frutto della fantasia di un consumatore di oppio.
Ma ha forse un senso porsi questa domanda, quando tutto il cinema, in fondo, non è altro che un sogno.

Con immenso amore

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editoriale di Stanlio

La guerra di Israele all’acqua: Gaza ha sete e muore lentamente

Hanno zero I raid, il blocco degli aiuti e i danni subiti dalla rete idrica hanno fatto crollare le possibilità di approvvigionamento. 1.700 km di condutture distrutti o danneggiati: l’85% è inservibile. Tre litri a testa al giorno

Michele Giorgio

A Gaza l’acqua è un bene quasi introvabile. Soprattutto al nord martoriato dai bombardamenti. La rete idrica è stata gravemente danneggiata a Shajaiya, sobborgo orientale di Gaza city, teatro in questi ultimi giorni di una delle incursioni devastanti lanciate dall’esercito israeliano in vari punti di Gaza. Forniva il 70% dell’acqua potabile agli abitanti del capoluogo. Ma l’acqua è poca ovunque nella Striscia. Ormai non resta che camminare tra le macerie, sulle strade piene di fango con la pioggia e di polvere nelle giornate asciutte, e aspettare in fila per ore ai punti di distribuzione il proprio turno per riempiere una tanica, sperando di non restare uccisi nei raid aerei. I 18 mesi di offensiva israeliana contro Gaza sono segnati anche dalle stragi di chi aspettava acqua e cibo. E alla paura si aggiungono la frustrazione e l’ansia di non riuscire a procurarsi da bere e da mangiare. I litigi sono sempre frequenti tra chi è disperato. Chi non ha forza e pazienza beve acqua sporca o raccoglie la pioggia nel migliore dei casi.

Da sette settimane non entrano aiuti umanitari a Gaza. Le autorità locali hanno lanciato ieri un altro appello per l’ingresso immediato di generi di prima necessità. Israele però non allenta la morsa e blocca gli aiuti pensando che questa pressione costringerà Hamas a liberare gli ostaggi. Assieme alla fame, la sete è l’altro spettro che la popolazione affronta da tempo. E dovrà farlo ancora di più nei prossimi mesi. Con la fine della stagione fredda e l’inizio di quella più calda, bere sarà una sfida quotidiana. «Aspetto l’acqua da stamattina», ha raccontato Fatena Abu Hamdan di Zaitun a un reporter locale «non ci sono stazioni di servizio né autocisterne in arrivo. Non c’è acqua. I valichi sono chiusi». Adel Al Hourani, di Khan Yunis, è uno dei tanti anziani che accompagnano alle autocisterne i bambini piccoli con in mano bottiglie di plastica vuote da riempire. «Percorro lunghe distanze – dice – mi stanco, sono vecchio, è difficile camminare tanto ogni giorno per prendere l’acqua». Husni Mhana, del Comune di Gaza, non nasconde la gravità della situazione: «Stiamo vivendo una vera e propria crisi di sete. Rischiamo una catastrofe se non cambierà la situazione e avremo a disposizione più acqua».

La crisi idrica ha superato la soglia dell’emergenza per diventare un crimine umanitario, denunciano i palestinesi e varie parti internazionali. La mancanza d’acqua è solo l’ultima delle privazioni inflitte a una popolazione intrappolata tra un assedio militare e il collasso di ogni servizio. La sete diffusa dice che persino un diritto fondamentale, poter bere, non è riconosciuto da chi portava avanti una guerra senza fine, ufficialmente contro Hamas e per la liberazione degli ostaggi, che però pagano i civili. Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati, ha parlato apertamente di crimine di guerra. «Israele ha tagliato l’acqua come ha tagliato l’ingresso degli aiuti, bombardato le cliniche, assediato i civili. Nulla è stato risparmiato, nemmeno la sete». Il suo predecessore, Michael Lynk, ha dichiarato che «la negazione dell’accesso all’acqua a un’intera popolazione sotto assedio costituisce una violazione gravissima del diritto internazionale umanitario».

La decisione di Israele di interrompere l’erogazione di energia elettrica nella Striscia e la mancanza di carburante limita fortemente le operazioni di desalinizzazione. A gennaio, l’unico impianto ancora operativo nel nord della Striscia è stato colpito da un raid aereo. «Abbiamo chiesto ripetutamente che venisse riallacciato alla rete elettrica» ha spiegato Juliette Touma, portavoce dell’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi boicottata da Israele, «senza energia non possiamo desalinizzare, senza desalinizzazione la gente beve acqua contaminata e questo uccide lentamente». Poi a marzo è stata tagliata l’elettricità all’impianto nel sud, che funzionava già a capacità ridotta. Rosalia Bollen, funzionaria dell’Unicef a Gaza, ha avvertito che 600.000 persone che avevano riacquistato l’accesso all’acqua potabile nel novembre 2024 sono nuovamente isolate. Le agenzie delle Nazioni unite stimano che 1,8 milioni di persone, di cui oltre la metà bambini, abbiano urgente bisogno di acqua, servizi igienici e assistenza igienico-sanitaria mentre i livelli di approvvigionamento sono scesi a una media di 3-5 litri pro capite al giorno. Ben al di sotto dei 15 litri considerati il minimo vitale in situazioni d’emergenza secondo l’Oms. Secondo un rapporto della ong internazionale Oxfam sui crimini di guerra legati all’acqua, la popolazione di Gaza aveva accesso a 82,7 litri a persona al giorno prima del 7 ottobre 2023. Ora la città di Rafah, praticamente rasa al suolo nelle ultime settimane, ha meno del 5% di quella quantità e i governatorati della Striscia di Gaza settentrionale hanno meno del 7%, ovvero 5,7 litri a persona al giorno.

Secondo un’inchiesta dell’agenzia Reuters, l’85% delle infrastrutture idriche di Gaza è inservibile. Più di 1.700 chilometri di condutture sono stati distrutti o danneggiati. I pozzi sono contaminati. Gli impianti di desalinizzazione hanno ridotto la loro capacità di produzione da 18.000 a soli 3.000 metri cubi al giorno. L’acqua non basta nemmeno per gli ospedali. «Non siamo più in grado di garantire acqua potabile a nessuno, neppure ai feriti. E ogni giorno riceviamo centinaia di segnalazioni di bambini ammalati per aver bevuto acqua sporca», racconta Suhail al Astal del comune di Khan Yunis. Il rischio di malattie infettive si è moltiplicato. Il ministero della Sanità di Gaza ha registrato tra febbraio e aprile oltre 46.000 nuovi casi settimanali di diarrea acuta, infezioni intestinali e patologie legate alla contaminazione idrica.

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editoriale di kosmogabri

The Punisher / Lesto BANG! / ptr / Stronko ... Tutti nickname Debaseriani dietro i quali si celava una sola persona, Pietro Vanessi, romano, noto per i suoi arguti e ironici fumetti firmati "PV".

Dopo lunga malattia Pietro non c'è più, come da comunicato famigliare si è spento ieri pomeriggio 4 aprile, dopo lunga malattia.

Non mi resta che dire ciao Pietro, ciao caro Punny, con te qui sopra quante risate, quante litigate, quanti commenti e contro-commenti, quante recensioni, quanti complimenti, quante stroncature, quanta umanità... Mancherai.

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editoriale di HOPELESS

___________________________________ 5 - 4 - 3 - 2 - • - 0 (Prove Tecniche di Trasmissione: mindfuck express)
Eveline, primi anni del 2000, tutti i martedì notte o quasi, casa studenti a Napoli, sgangherato su un divano sfondato ritrovato tra i rifiuti della città, in splendida solitudine mentre gli altri abitanti della casa dormivano. Eveline fu una striscia temporale, uno spin-off di Fuori Orario. Documentari storici, telefilm, montaggi di reportage d'attualità o del recente passato mandati in onda sottoforma di raccoglitore anarchico, vaneggiante, onirico, sconclusionato, da quella redazione di critici, registi, esploratori delle prime ore del giorno nascente. Da lì sono passate vere e proprie suggestioni incancellabili.
I film di Leni Riefenstahl, Il Trionfo della Volontà, sull'enigma del consenso nazionalsocialista dei raduni di Norimberga, Olympia, corpi perfetti di giovani bellissimi, eroici ed erotici, sui confini di luci e ombre incredibili al rallentatore, in evoluzioni tecniche stupefacenti per gli anni '30, il suo cinema della montagna, Das Blaue Licht, romantico e disperato. Autobiografia di uno spettatore della notte prima sottoposto a Berlin Alexanderplatz di Rainer Werner Fassbinder. Le eveline furono delle rivelazioni di cose (mai) viste. Eveline stessa fu una visione.

Johnny’s in the basement mixing up the medicine, I’m on the pavement, thinking about the government...
Cut-up frenetici e talvolta volutamente incomprensibili, intossicati di immagini, suoni, informazioni in esubero, la squadra di Fuori Orario, Blob, Schegge, Vent'anni prima, La Magnifica Ossessione, mette in scena da quel 2 Novembre del 1989 quello che Burroughs e Gysin mettevano su carta e su nastro in letteratura. L'apocalisse della nostra cultura visiva. Televisione, musica, cinema, materiali costruiti-smontati-decostruiti e ricomposti in una forma quasi inedita di scrittura non-sequenziale affine a quella dell'ipertesto di Ted Nelson. Il loro punto di contatto, il loro luogo comune, il loro accordo segreto nel montaggio della grande frammentazione tradotta in immaginazione narrante. Unitarietà impalpabile, coerenza narrativa al flusso incessante di fotografie in movimento che si presentano nella loro abnorme frammentarietà, un'estrazione da una complessità che travolge articolazioni e interpretazioni che sfuggono a una comprensione immediata, ma data e posticipata, rimandata e differenziata, prima ancora del caos a venire della forma di vita aliena dell'internet.
Videodrome, un'operazione che da allora testimonia pure un'impossibilità, quella di una riduzione della complessità contemporanea insita nei media, vecchi e nuovi, e nella società, e che designa pure l'appartenenza dell'essere umano al caos mediatico stesso, affaticato sempre di più nella coscienza di esserne ripetitore, creatore e consumatore, stremato nel tentativo di interpretarne i frammenti comunicativi.
Un virus del linguaggio, un nastro a ciclo continuo che smonta e taglia e cuce il discorso politico-sociale e lo mette in discussione, estirpandolo dalla sua presunta omogeneità e coerenza argomentativa, incastrandolo in sequenze che lo fanno affluire nella metafora alle volte e quasi sempre insensata e paradossale della demenzialità di certa televisione pop. E sotto a tutto la risata subacquea di Eveline.

Sigla d'apertura leggendaria, che fino a poco tempo fa metteva insieme L'Atalante di Jean Vigo con il Patti Smith Group in un videoclip d'eccellenza, un format che probabilmente, anche inconsapevolmente, ha ispirato programmi locali sconosciuti per forza ai più come Effetto Notte, Girato Ieri, Stress di Notte... e poi la comparsa di quell'uomo che conoscono tutti i night-zappers del palinsesto notturno italiano. Un passato in aspect ratio 4:3 e in qualità VHS, voce attutita e filtrata da disturbi elettromagnetici, faccia rasata e slavata, t-shirt bianca su parete dello stesso colore, occhiali alla Elvis Costello, oppure in cuffie in una camera anecoica con giubotto di pelle e barba incolta, audio e video in perenne ritardo fuori-sync, Telefunken, Nordmende, il nostro signore delle riproduzioni, il portiere della notte senza fine. Détournements, psicogeografie, trattati di filosofia filmica e psicoderive televisive, i sabati notte sfasciati, tornando a casa e lasciandosi cullare dalle lenzuola e da documentari provenienti dal Belgio, da schegge impazzite di falsi movimenti, paleotelevisione, tubi catodici, film impossibili da vedere su altri canali, dalla Cina, dal Giappone, da tutta Europa, Filmstunde di Werner Herzog, Pola X di Leos Carax mentre fuori imperversava una tempesta d'acqua e vento, The Birth of a Nation di D.W. Griffith, Wenders, Antonioni La Notte, Zabriskie Point e Deserto Rosso, inesplorate diete mediatiche e frequenze personali da registrare, fratti di montaggi frammentati, tempi quasi dispari, diegesi e trionfi di spazio-tempo laterale, capodanni ipnotici con fasce lunghe di Blob annuali, indici che come un pulsante accendevano una nazione in cui a quell'ora era notte piena o molto nuvoloso, antenne, radiazioni, cultura della frammentazione, eveline che probabilmente erano un riferimento all'opera di Joyce o una semplice visione di qualcosa che prima appare e poi velocemente scompare nel nulla televisivo.
La visione surreale di Dita Parlo, Eveline.

Look out kid, it’s something you did, you don’t need a weatherman to know which way the wind blows... Mario Schifano dipinge e tutti i suoi televisori restano accesi. L'apparente incomprensibilità dei discorsi interpretativi televisivi di Enrico Ghezzi, mitigati da una sorprendente logica comunicativa e coerenza espressiva nelle conferenze stampa per ZAUM - Andare a Parare, tanto che i video mandati in onda erano sempre gli stessi e cambiavano solo i testi dell'autore, al punto che una volta un sordomuto arrivò a chiedergli per quali motivi notte dopo notte dicesse sempre le stesse cose. Un archivio impagabile da tramandare, impossibile da contenere. La fonte inesauribile del consorzio umano fornito dalla televisione stessa, ché in questo universo parallelo chiamato realtà Blob non sarebbe possibile se gli autori di questo processo collettivo non sondassero il daytime/daydrama televisivo... e poi succede che bene o male lo stesso staff di notte manda in onda Rashomon, guarda a Chantal Akerman e King Vidor e trasmette i Frammenti Elettrici, Keep On Touch, Mindadze su Chernobyl, Scorsese e After Hours, ma quello, certamente, è tutto un altro livello di estinti e autoscopie, e per accedervi bisognerebbe ancora andare a controllare la programmazione di Fuori Orario. Nostro vuoto e le ore antimeridiane, la vacuità e la vastità della notte, dove "non c'è nessuno, tranne noi (e i) mostri".
Gli ultimi giorni dell'umanità nell'acquario di quello che manca. McLuhan, Time Itself.
In principio c'era la parola, alla fine ci fu l'immagine. O'Blivion, tempo della memoria.
Love is the telephone (and) the night belongs to lovers... and to the Ghost of Marx.
Die Zeitgeist, come frammenti di vita. Contenitore notturno, buona visione. Eveline.

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editoriale di Buckley

Domanda semplice semplice: potete spiegarmi per quale ..zzo di motivo non si può cancellare un proprio ascolto?

cordiali saluti

fine dell'editoriale

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editoriale di Stanlio

Okkey, siccome ho un po' di tempo da sprecare ho deciso di scrivere queste poche righe sulla questione menzionata nel titolo, partiamo dalla fine, ovvero sia da questo recentissimo e non ancora terminato 2025.

1. Da “Whitesnake - Still of the Night” di pier_paolo_farina:

Incipit - Caro Pier Paolo, la tua recensione di "Still of the Night" sembra più un'ode in prosa al talento di Sykes che una vera e propria analisi critica.

Intermezzo - ricorda che anche l'adorazione merita un po' di sintesi.

Finale - potresti evitare di usare troppe metafore anatomiche per descrivere le doti vocali, non tutti apprezzano.

In omaggio questa chicca, “sprologo” termine assai ehm, inesistente nel vocabolario italiano.


2. Da “Claude Chabrol - Rien ne va plus” di Armand:

Incipit - il tuo stile erudito e denso potrebbe risultare più criptico di una newsletter dell'Accademia della Crusca.

Intermezzo - Sembri un arpista del verbo.

Finale - Sei riuscito a fare un'arzigogolata escursione tra Tarantino e Chabrol, che meriterebbe una cartina.

3. Da “Giovanni Bedeschi - Pane dal cielo di Danilo Dara”

Incipit - Caro Danilo, pare tu sia entrato in una dimensione parallela! Confondere Sergio Leone, iconico regista, con un attore sconosciuto in un'opera contemporanea è quasi un’opera d’arte a sé stante.

(ehm, peccato che DD non abbia confuso nessuno con nessuno...)

Intermezzo - Nonostante qualche caduta stilistica, la tua recensione ha salvato il film sotto un mare di indecisioni.

Finale - sappi che la Caritas, come la conosciamo oggi, non esisteva durante il ventennio.

(ehm, DBB non ha nemmeno visto il film e viene a sparare le sue minkiate come al suo solito, dato che l'azione del film è incentrata ai giorni nostri... e sta cosa la dice lunga sulla sua affidabilità critica, per quanto mi riguarda se la cava solo a scrivere una marea di minchiate ma pare che qui più d'uno/a apprezzi, io no di certo!)

Okkey, vabbè dai mi fermo qui al 3. (anche perchè mi son già rotto e la lista è stralunga) per non infierire ulteriormente, ma prima o poi ci ricapito a segnalare altre sue noteoli minchiate da illo ritenute sicuramente delle perle di saggezza nonostante gli errori che di volta in volta ci regala nel ruolo d'insegnante in pensione che si è ritagliato e gnente...

PS Unico consiglio che mi sento di dare a DeBaserBot: se proprio insisti a propinarci le tue critiche, almeno guardati e ascoltati le varie opere prima d'intervenire spropositamente a gamba tesa, e rileggiti onde evitare marchiani errori che ehm, “riempiono il tuo occhio di travi” e ben poco si addicono ad un ex prof eddai.

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editoriale di G

Acciaccati e non in splendida forma direi che a distanza di qualche decennio possiamo dire di essere sopravvissuti al web 2.0.

Forse, però, ora ci stiamo davvero avviando verso il 3.0. Quello che sta accadendo è estremamente interessante, e chissà come ne usciremo questa volta.

L'orizzonte è ricco di novità.

A quanto pare @Franceso uno storico utente di DeBaser e curatore della newsletter Indie Riviera si pone le stesse domande che mi pongo da un po' e poi le pone a me in un'intervista. A questo punto non non ho alternative se non prova a rispondere... quale splendida occasione migliore per capire se sono ancora in grado di pensare e capire che... No!

Poi si divaga.

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editoriale di AndersGe

Mentre i Puffi stanno lavorando alla costruzione del ponte sul fiume Puffo, guidati dal decano del villaggio, il Grande Puffo, un Puffo più pigro degli altri, viene sorpreso a dormire invece di lavorare. Grande Puffo lo manda quindi nel bosco a cercare un grande palo, ma qui viene morso sulla coda dalla terribile mosca Bzz, che lo trasforma in un Puffo nero.
Uscito di senno, aggressivo, violento e con un vocabolario ridotto ad un solo“Gnap!”, il suo unico scopo è quello di mordere le code degli altri Puffi, così da renderli, a loro volta, dei Puffi neri.


I Puffi Neri è un fumetto razzista?

Apparso per la prima volta il 2 luglio 1959, sotto forma di mini-storia pieghevole allegata al numero 1107 del settimanale Le journal de Spirou(edito da Editions Dupuis) — uno speciale per le vacanze di 44 pagine — e successivamente ripubblicato in album nel 1963, insieme ad altre due storie brevi, Il puffo volante (Le Schtroumpf volant) e Il ladro di puffi (Le voleur de Schtroumpfs), I Puffi neri (Les Schtroumpfs noirs) è la prima storia che vede i piccoli abitanti dei boschi creati dal fumettista belga Pierre Culliford, in arte Peyo, come protagonisti assoluti, dopo il sempre maggiore successo riscontrato durante le loro apparizioni negli ’50, nelle storie di Johan et Pirlouit (John e Solfamì in Italia), ambientate nel Medioevo. La storia è sceneggiata con Yvan Delporte, editore di Spirou e già co-creatore insieme a Franquin di Gaston Lagaffe, che con Peyo collaborerà alla sceneggiatura delle storie dei piccoli abitanti dei boschi fino alla metà degli anni Settanta.

La storia mette in scena una situazione apocalittica all’interno del pacifico villaggio dei Puffi, la cui divisione in due “fazioni” distinte — Puffi neri e Puffi blu — mette a rischio la sopravvivenza stessa dell’intera tribù.
Questo può essere considerato uno schema razzista?
Se è vero che la contrapposizione di due gruppi ben distinti, identificati dai colori nero e blu, può far pensare allo stereotipo razzista, c’è però un particolare che non rispetta questo preconcetto: la trasmissione epidemiologica.
La differenza tra le due parti è infatti data da un contagio dovuto ad un fattore esterno (la puntura della mosca Bzz), che spinge il puffo contagiato a infettare tutta la popolazione, portando il popolo dei folletti blu sull’orlo dell’estinzione. Questo a dispetto dei molteplici tentativi di bloccare l’infezione, messi in atto dal Grande Puffo. Certo, questa dinamica può essere associata alla teoria della grande sostituzione, spiegata molto bene e semplicemente da Renaud Camus nel suo “Le grand remplacement” (2011): «c’è un popolo e presto, nell’arco di una generazione, al suo posto arriva un altro popolo». Ma questa teoria legata principalmente alla presunta cospirazione arabo-mussulmana, che però è di relativamente recente e quindi troppo “moderna” per essere applicata all’album di Peyo.
Parte di questa rilettura è dovuta anche alla diffusione dei personaggi oltre oceano, dove l’opera dell’autore belga ha dovuto confrontarsi con il contesto culturale degli Stati Uniti. I piccoli folletti blu vi sbarcarono nel 1976, quando l’imprenditore americano Stuart R. Ross li vide in Belgio e decise di accordarsi con Peyo e le Editions Dupuis per avere i diritti di distribuzione nordamericani sui personaggi, che fecero poco dopo la loro apparizione come pupazzi, bambole, figurine e gadget vari, prodotti dalla californiana Wallace Berrie and Co., per poi approdare in televisione nel 1981 con una serie a cartoni animati realizzata dagli studi di Hanna-Barbera (Gli Antenati, Tom & Jerry, Scooby Doo, Top Cat e un’infinità di altri personaggi, tutti molto noti ed amati dal pubblico), intitolata semplicemente The Smurfs (il nome utilizzato nei paesi di lingua anglosassone) andata in onda sulla NBCper nove stagioni dal 1981 al 1989, per un totale di 258 episodi (suddivisi in 419 storie) e 7 speciali.
La produzione impose il cambio di colore così, per il pubblico americano, i Puffi neri divennero Puffi viola. Da notare che questa versione venne esportata praticamente in tutto il mondo, poiché la serie animata divenne popolare anche più di quella a fumetti. L’editore statunitense Papercutz ha invece pubblicato la prima traduzione in inglese dell’album a fumetti, intitolata The Purple Smurfs, che mixa la versione originale di Peyo con quella della serie animata, ricolorando i puffi infettati di viola.
Questo mette però in evidenza il fatto che il presunto razzismo contenuto all’interno de I Puffi neri è limitato solo all’apparenza esteriore dei personaggi: il cambiamento del colore è infatti sufficiente a cancellarne ogni traccia, pur lasciandone invariata la storia.

A “complicare” le cose, ci si è messa poi la pubblicazione del libro “Le Petit Livre bleu: analyse politique de la société des Schtroumpfs” (Hors Collection, 2011), edito anche in Italia con il titolo “Il libro nero dei Puffi. La società dei Puffi tra stalinismo e nazismo” (Mimesis, 2012), del sociologo e politologo Antoine Buéno.

Peyo, negli anni, è stato accusato di svariati mali inseriti all’interno delle storie dei suoi “ometti blu”. Dal razzismo all’omofobia, dalla misoginiaall’antisemitismo, dalla propaganda comunista a quella nazista e perfino alla massoneria: nel “palmares” delle critiche raccolte dall’autore belga c’è spazio un po’ per tutto.
Con una buona dose di humor e precisando fin da subito che non è mai stata intenzione del fumettista belga divulgare tali idee tramite le sue opere, nel suo saggio, Buéno analizza le motivazioni di tali accuse.
La “questione” diventa però “spinosa” quando dimostra che le accuse rivolte all’opera di Peyo, possono essere effettivamente inserite all’interno delle storie dei Puffi. La cosa, assolutamente inammissibile per i fan della bande dessinée belga, ha innescato una diatriba che ha portato persino a minacciare di morte lo scrittore francese, reo di avere “osato” cercare di distruggere quello che per molti è una vera istituzione.
D’altro canto, se non si è fanatici seguaci dei piccoli esseri blu, o più semplicemente si dispone di (un minimo) senso critico e un po’ di umorismo, si può godere di una lettura insieme brillante ed interessante, per certi versi anche istruttiva, che non manca di rispetto all’opera dell’autore belga, dimostrandosi invece più rispettosa di molte altre analisi o adattamenti (quello americano). Un saggio che può far leggere i Puffi con un occhio diverso, come anche invogliare a leggerli chi non conosce bene i personaggi. Insomma, uno scritto quasi parodico, che (troppo) spesso viene interpretato con valore assoluto.

Certo è che, se interpretare il mondo creato da Peyo come modello di un’utopia totalitaria con riferimenti alle dottrine staliniste e/o naziste (a seconda di chi lo analizza…) non pare essere serio, le ipotesi di razzismo mosse nei confronti della prima storia dei Puffi, mettendo in scena l’antagonismo tra due gruppi differenziati dal colore della pelle — quello dei Puffi blu, pacifico, sereno e dedito alle arti, contro quello dei Puffi neri, violento, aggressivo e feroce — pare invece essere più consistente.
Diverse critiche, infatti, pongono l’accento sulle (presunte) affinità tra l’aggressività e la mancanza di linguaggio dei Puffi neri, capaci anche di tendenze “cannibali” (Gnap!), con la raffigurazione macchiettista degli africani nell’Europa coloniale (lo Zaire, colonia belga in Africa, divenne autonoma solo l’anno successivo la pubblicazione dell’inserto con la storia), mettendoli a confronto con quanto visto in Tintin in Congo (1931), secondo album delle avventure del giovane reporter creato dall’autore belga Georges Remi, in arte Hergé.>br> Storia effettivamente controversa, quella di Hergé, è però da inserire in un contesto storico assai differente e più vecchio di trent’anni. Inoltre, i Puffi sono personaggi antropomorfi e non umani, come nella storia di Hergé, la cui rappresentazione è invece “fedele” allo stereotipo derivante dalla tradizione coloniale, che attribuisce loro un colore della pelle scuro, labbra carnose ed il “classico” linguaggio da “raffreddato”.
Ovviamente, alle storie di Peyo non viene risparmiato l’antisemitismo, rappresentato dalla figura del perfido mago Gargamella, con il suo gusto per l’oro, o il sessismo di Puffetta, archetipo femminile dalla fluente chioma bionda e lo sguardo seducente (anche se in principio era mora e bruttina).

Analizzando la trama de I Puffi neri, salta all’occhio la similitudine con quella del classico di fantascienza horror post apocalittica Io sono leggenda (I Am Legend, 1954) - edito in Italia anche con il titolo I vampiri - dello scrittore statunitense Richard Matheson, assoluto maestro di genere.
Considerato uno dei capostipiti delle apocalissi di non morti, il libro narra le vicende di Robert Neville, ultimo rimasto del genere umano, dopo che un’epidemia ha trasformato le creature viventi in vampiri assetati di sangue, che di notte lasciano i loro rifugi per cercare nutrimento, attaccando gli umani (Neville). È facile intravvedere in questa situazione un’analogia con la storia di Peyo: la contaminazione dei sani attraverso il morso di un infetto e la successiva trasformazione ad uno stato primordiale, la perdita della capacità di esprimersi attraverso la parola, l’aggressività e il cambio del colore dovute alla mutazione. Non mancano anche gli esperimenti per trovare una soluzione all’epidemia, l’inganno di uno dei puffi infetti che si finge sano — ispirato al personaggio di Ruth, la donna incontrata da Neville, che crede essere come lui, ma in realtà appartiene ad una nuova specie di esseri a metà tra gli umani ed i vampiri — e l’assalto finale che farà soccombere perfino il Grande Puffo, così come Robert Neville dovrà cedere alla soverchiante forza dei suoi nemici.
È interessante (straordinario?) che un romanzo come quello di Matheson, possa essere stato fonte di ispirazione per un fumetto destinato principalmente ad un pubblico giovane - se non giovanissimo - e come la cosa abbia funzionato benissimo.
E ancora lo faccia.


Quindi, per tornare alla domanda iniziale, I Puffi neri (e gli Schtroumpf più in generale) è un fumetto razzista?

Dal punto di vista del razzismo strutturale e istituzionale, a giudicare dal successo riscontrato da I Puffi anche oltreoceano, dove la questione è sempre stata più sentita e la conflittualità associata alla questione è molto importante, pare evidente che i richiami rivolti a Peyo in merito alla questione, siano più che altro di carattere “clementi”, anche se giustificano (in parte) la cautela degli editori.
A dimostrazione di ciò, resta il fatto che è bastato cambiare colore ai Puffi infetti per allontanare ogni idea di razzismo dell’albo, mantenendo tutta la forza e la paura da apocalisse zombie dell’originale.

In definitiva, I Puffi neri è una storia forte, ben costruita e ottimamente riuscita. Graficamente bello, anche se ancora non a livello della pulizia delle storie successive, si avvale di una buona dose di umorismo nero, che fa affidamento sull’intelligenza di chi lo legge (cosa purtroppo non scontata, al giorno d’oggi) e che, a distanza di più di sessant’anni dalla sua prima pubblicazione, mantiene ancora inalterata tutta la sua forza.

GNAP!

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editoriale di MauroCincotta66

Una volta sentii una frase tipo: “Per fare il Blues occorre un nero che canta, un ebreo che ci mette i soldi ed un mafioso che si fa pagare: il manager!” In questo immaginario il più grande di tutti è stato Peter Grant, leggendario manager dei Led Zeppelin che terrorizzava tutti già solo con la sola presenza fisica.

Sbagliato però credere che riuscisse ad ottenere quello che voleva per i suoi protetti solo con la veemenza e le minacce: in realtà fu il primo manager a definire tale figura in ottica professionale. Basti ricordare come condusse la trattativa con l’Atlantic per il primo e storico contratto della band.

In America, gli Yardbirds avevano firmato con la sussidiaria della Columbia Records, la Epic Records. Il capo dell'etichetta Clive Davis, quando aveva sentito che il nuovo progetto di Page stava riscuotendo un grande successo, era pronto a far firmare il contratto alla band che pensava di possedere già, i Led Zeppelin. Grant teneva Davis e la Columbia all'amo mentre cercava un accordo che desse a Page totale libertà creativa. Mettendo Davis contro il capo dell'Atlantic, Ahmet Ertegun, Grant riuscì a far ottenere agli Zeppelin uno dei migliori contratti di registrazione nella storia del rock and roll.

Il contratto dei Led Zeppelin fu firmato solo da Page ed Ertegun, a dimostrazione del ruolo cruciale di Page nella formazione della band (il contratto afferma espressamente che la Superhype Tapes, una società fondata da Page, può, se lo desidera, ingaggiare i servizi di altre persone in sostituzione degli attuali membri dei Led Zeppelin). Ma fu Grant a organizzare il loro accordo con l'Atlantic Records nel 1968, allora acclamato come uno dei più grandi nella storia del settore. Grant non interferiva mai con la loro musica, ma era un manager pratico e determinato a far sì che i Led Zeppelin ottenessero la loro giusta quota di profitti e la più ampia libertà creativa. Unica concessione all'Atlantic Records una clausola “morale” nella quale si statuiva che il materiale dei Led Zeppelin "non dovrà offendere la morale pubblica negli Stati Uniti”. Perché no, non è necessario svendere la propria arte per avere successo se sei la più grande Rockband ed hai Grant quale manager. Certo, ci sarà sempre qualche frustrato che dirà il contrario con la solita frase qualunquista “fanno tutti così” o, peggio “anche io lo avrei fatto": quando la volpe non arriva all’uva …

Al seguente link il testo integrale del contratto: https://it.scribd.com/document/702740095/Led-Zeppelin-1968-Contract#fullscreen&from_

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editoriale di Stanlio

Una testimonianza su Uno dei Migliori (rip) nel suo campo e non solamente (dalla fine alll'inizio liberamente tratto ed appicicato da uikipidia):

- è morto oggi a quasi 83 anni c/o l'ospedale di Livorno, in seguito ad un peggioramento delle sue condizioni, causate dall'amiloidosi diagnosticatagli nel 2023

- nell'agosto del 2024 dichiarò di aver perso motivazione e voglia di vivere a causa di tutti i limiti imposti dalla malattia, non escludendo di ricorrere al suicidio assistito

- ateo, viveva dagli anni '70 assieme alla sua terza moglie (una modella norvegese) in una tenuta dove allevavano cavalli e producevano olio & vino

- nel 2022 fu condannato dal tribunale di Vibo Valentia a 8 mesi di reclusione per diffamazione aggravata, dopo la querela di un ragazzo al quale aveva rifiutato di farsi scattare un selfie poiché, in quanto calabrese, avrebbe potuto essere stato un "potenziale mafioso"

- nel febbraio 2021 fu condannato a risarcire 15 000 euro a Maurizio Gasparri, per averlo definito tra l'altro "persona affetta da ritardo mentale" e "che quando si guarda in faccia la mattina vomita"

- sempre nel 2020 fu criticato per la sua affermazione "a chi interessa se cade un ponte" in relazione al crollo del ponte Morandi, successivamente si è scusato

- nel 2019 fu condannato a 8 000 euro di multa per aver diffamato Matteo Salvini con frasi (secondo la sentenza) "gratuitamente offensive", "mero turpiloquio" e parole di "odio" contro il ministro

- nel 2019 fu condannato a 4 000 euro di multa per vilipendio della religione a causa di affermazioni durante la trasmissione radiofonica La Zanzara come "la Chiesa sembra un club sadomaso" e "fanno santo Wojtyla che era contro il preservativo in Africa, un assassino", ma il 2 novembre 2021 la Corte di appello di Milano lo ha assolto

- nel dicembre 2018, durante un'intervista, fu accusato di misoginia per aver rivolto termini poco lusinghieri a Giorgia Meloni definendola brutta, volgare e ritardata

- nel gennaio 2018 sua figlia maggiore, Olivia, ha dichiarato: "Sin dalla separazione con mia madre l'ho sempre sentito imprecare contro di noi, bestemmiando, fino ad arrivare al limite inaudito di imprecare contro la nostra vita stessa (noi ancora bambine, ahimè). Il nostro riavvicinamento non sarà mai possibile senza un profondo e sentito atto di amore e conversione. Oggi lo considero un estraneo con un grosso debito umano e morale"

- nel febbraio 2015 è stato iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Verona per diffamazione contro i veneti, da lui definiti "un popolo di ubriaconi atavici", la Cassazione tuttavia lo ha assolto nel 2016

- nel 2014 ha denunciato il partito Fratelli d'Italia per aver utilizzato senza autorizzazione una sua foto nell'ambito di una campagna del partito contro le adozioni gay

- nel 2009 ha sostenuto la candidatura dell'ex terrorista di Prima Linea Sergio D'Elia alle elezioni europee

- nel 2008, collabora col Ministero della Salute per la campagna "Tu di che razza sei, umana o disumana?" lanciata per contrastare la prima causa del randagismo, ovvero l’abbandono dei cani

Il resto è un'altra storia...

Qui in un'intervista di Peter Gomez del 2018

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editoriale di Mariaelena

aiuto ma alcuni hanno messo delle radici, sono passati 20 anni

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editoriale di Mariaelena

ma esiste ancora sto posto ? aiuto ero inevitabilmente andata via per le teste di cazzo che c'erano però per me furono 89 recensioni fantastiche

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editoriale di JonatanCoe

È tutto un fermento di felicità il mese di Nostro Signore
I morti ammassati per strada, parbleu, che disonore!

Per non parlare di quei pargoletti dalle facce sporche e privi di lustrini
Quale cattivo esempio per i nostri bambini!

E non si dica che siamo insensibili e privi di cuore
Di Quelli in Parlamento ne abbiam discusso per ore

Il nostro buon Matteo per evitare che morissero in mare
Volle una legge che li impediva di salpare

Ha sempre avuto a cuore la salute di quella povera gente
E ora rischia la galera da innocente

E poi, crediamo veramente che tutta quella gente sia veramente morta?
Questo è l'ennesimo intrallazzo per spartirsi un'altra torta

Cosa credete, lo sappiamo meglio e bene qui
In quel modo si muore solo con la Wii.

Allora lancio un pubblico avvertimento alla Rai
"Attenta a quello che fai"

Lo stesso vale per La7, Mediaset e le altre TV
Se continuate così non mi vedrete più

Mai più palazzi bombardati e fatiscenti
Mentre rimuovo il cotechino dai denti

Giammai bambini accalcati con scodelle in mano
Quando mi sollazzo sul divano

Le file di siriani al confine con la Turchia
sono quelli che vanno a sciare, come noi in Alta Badia

I bagliori a Gaza di notte
Son solo fuochi accesi dalle mignotte

Bene, questo tenevo a dirvi, ora vado che sono molto stanco
Domani levata alle 6.00 per essere a messa nel primo banco.

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editoriale di Fratellone

Downtown di Crenshaw Marshall è un album che mescola sonorità urbane con influenze più intime e riflessive, creando un contrasto affascinante tra il dinamismo delle metropoli e la quiete della riflessione personale. Ascoltando il disco, si percepisce chiaramente il tema del contrasto tra le luci abbaglianti della città e le ombre che si celano dietro la facciata della vita quotidiana. L'album sembra una passeggiata notturna nel cuore pulsante di una grande città, dove ogni angolo, ogni suono, ogni incontro possono raccontare una storia.

La voce di Marshall è profonda, ma allo stesso tempo aperta e vulnerabile. Nelle tracce più introspettive, come nella ballata "Sidewalks", c'è una bellezza malinconica che ricorda le passeggiate solitarie nel cuore di una metropoli, dove anche in mezzo alla folla si può sentirsi isolati. Questo contrasto tra la solitudine e la presenza della città dà al disco una sensazione di intimità, come se Crenshaw stesse confidando le sue esperienze più personali a chi lo ascolta.

Il sound è un mix di hip hop, soul e qualche spruzzata di jazz, con beat sofisticati che supportano il flusso lirico, senza mai sopraffarlo. C'è un senso di nostalgia che si fa strada tra le note, evocando ricordi di un passato che, pur essendo lontano, è ancora molto presente nella mente dell'artista. La produzione è cristallina, con strati sonori che si sovrappongono in modo fluido e naturale, creando un’atmosfera che cattura l’ascoltatore fin dal primo ascolto.

In molti brani, si sente l’influenza delle esperienze passate, come se Marshall stesse riflettendo sui luoghi che ha visitato, sulle persone che ha incontrato e sulle scelte che ha fatto. È come se l’album fosse una cartolina sonora, una rappresentazione di luoghi e momenti che non potranno mai tornare, ma che hanno lasciato una traccia indelebile.

Personalmente, quando ascolto Downtown, mi tornano in mente certe passeggiate notturne in città, quelle in cui il mondo sembra fermarsi per un momento e si è soli con i propri pensieri. È come se Marshall riuscisse a catturare quell'essenza in ogni traccia, e ogni canzone diventa una sorta di riflessione personale su ciò che significa vivere in un contesto urbano, ma anche su come si possa ritrovare sé stessi in mezzo al caos.

In conclusione, Downtown non è solo un album da ascoltare, ma un’esperienza da vivere. Crenshaw Marshall è un narratore che sa come fondere la vita di strada con le emozioni più sottili, creando un lavoro che è al tempo stesso universale e profondamente personale. Ogni traccia è una piccola finestra su un mondo che non smette mai di affascinare, ma che nasconde anche le sue ombre e le sue fragilità.

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editoriale di G

Questa mattina è andato online un importante aggiornamento di DeBaser.

Come molti di voi anziani ricorderanno, DeBaser è qui da un quarto di secolo. E siccome qui è e qui vuole restare, abbiamo deciso di aggiornarlo.

“Ma come? Non si vede niente di diverso!”

E lo sai? Ci sono cose che non si vedono. Mi piacerebbe entrare qui in dettagli tecnici e raccontarvi perché si imponeva un aggiornamento tecnologico, ma non credo che interesserebbe molti.

Comunque… I vantaggi della cosa ancora non sono chiari, ma diciamo che sviluppare nuove funzionalità dovrebbe essere più semplice e piacevole. Tutto è molto più ordinato... quanto ci piace l'ordine.

Diciamo anche che forse in alcune parti il sito potrebbe essere impercettibilmente più veloce.

Fine.

Gli svantaggi:

  • probabilmente molte delle cose che prima funzionavano adesso potrebbero aver smesso di funzionare.

  • alcune parti non saranno ottimizzate e forse andranno più lente.

  • peggio ancora, forse ci saranno delle cose che sembrano funzionare, ma sotto in realtà si comportano diversamente da come previsto.

  • noi abbiamo esaurito tutte le energie e prima che ci torni la voglia di rimettere mano al codice per aggiungere qualcosa di nuovo passerà probabilmente un altro quarto di secolo.

Così.

Se trovate qualcosa che non funziona per favore segnalatecelo senza se e senza ma, fra un quarto di secolo, la prima cosa che faremo, appena alzati, sarà aggiustarlo!

P.S.: Il plurale è majestatis. Se si esclude ChatGPT che mi ha aiutato per il titolo e per l'immagine.

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editoriale di Dislocation

Con colpevole ritardo vorrei sommessamente salutare il Poeta che accompagnò parte della mia stupida, incoerente, disperata e meravigliosa adolescenza, coi suoi versi crudi e terribili, asciutti e dolcissimi, in cui specchiavo la mia breve vita, da cui bevevo a sorsi esagerati quando avrei dovuto centellinarli a gocce, in cui cercavo me, stupendomi dell'evidenza che così bene egli mi conoscesse.
Mi sarebbe ricapitato, nella vita, solo con Sanguineti, con Caproni, con De Andrè, con De Moraes e un paio d'altri.
Sinfield mi graffiava a sangue la fronte e Vinicius da Rio me la tergeva, Giorgio il Livornese la medicava e Fabrizio d'Albaro la riapriva, con due soli versi, con un paio di rime. Bel gioco.

Poi, invecchiato, certo, lo vidi nella caldissima estate del 2010 al Festival della Poesia a Genova (grazie, Claudio, vecchio amico, già semidio della new wave genovese, poi Augusto Organizzatore, coi tre soldi che il Comune ti stillava, del Verso in piazza, sembrava tu scegliessi gli ospiti secondo i miei gusti...).

Grassoccio, no, grasso, sciatto, maglietta da tre lire e jeans gloriosamente stravecchi, pochi capelli e nessun'aura da Vate, semplice come un camallo in pensione e col sorriso sincero di chi apprezza l'amatissimo Shelley ma anche un buon bianco della Riviera, secco e amarognolo.

Ascoltava molto e tutti, rispondeva gentilmente, con quell'accento così scivoloso e londinese, gesticolava pure un po', per spiegarsi e parlava, con grande cortesia, lentamente, con pochissime parole ma tanti avverbi, aspettando sempre che tutti avessero capito.

No. L'aspetto del Vate non ce l'aveva, ma neppure l'aveva mai avuto, neppure da giovane, quando incideva i suoi versi sui miei polsi ed in quelli di tanti miei coetanei e sembrava, a guardarlo, un qualsiasi frequentatore di concerti rock, il bassista d'una band qualunque e prima di compiere trent'anni aveva già abbondantemente alimentato le fonti a cui abbeverarsi di poesia, di testi tra il sognante e lo psichedelico, tra artifizi visionari ed esoterismi arcani.

Pure profetico, a tratti... "Il seme della morte, la cupidigia dell’uomo cieco, poeti affamati, bambini sanguinanti... Non ha davvero bisogno di nulla di ciò che possiede l'Uomo Schizoide del ventunesimo secolo".

Buon viaggio, Poeta.

E scusa il ritardo.

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editoriale di TheB

Ho fatto la mia scelta ma ho la convinzione che dalle selezioni degli altri c'è sempre molto da imparare, scoprire e capire, magari nascono anche nuovi amori musicali.

Naturalmente questa non vuole essere una lista dei migliori dischi di sempre ma semplicemente gli albums che hanno segnato le mie emozioni, episodi della mia vita, concerti visti e rimasti indimenticabili, sicuramente gusti del tutto personali, probabilmente non saranno i migliori dischi mai prodotti ma quelli che io amo di più.

E a questo punto spero di scoprire da voi qualcosa.

Greenslade "Time and tide"

Argent "In deep"

Live Wire "No fright"

Strawbs "Hero and Heroine"

Gil Scott Heron "The revolution wil not be televised"

Airto Moreira "Fingers"

Kansas "Masque"

Walkabouts "Trail of stars"

Lucifer's Friend "Banquet"

Marillion "Less is more"

Blackfoot "Marauder"

Secret Affair "Glory boys"

Couchois "Couchois"

Supermax "Fly with me"

Grand Funk Railroad "Good singin' good playin'"

Lou Reed "Rock n roll animal"

Steeleye Span "Below the salt"

Robbie Dupree "Carried away"

Tom Petty "Damn the torpedoes"

Bruce Cockburn "In the falling dark"

Beth Gibbons and Rustin Man "Out of season"

Terry Callier "what color is love"

Cowboy Junkies "The Trinity Session"

Air "Moon safari"

Airbag "Identity"

Mark Eitzel " The ugly american"

Nino Buonocore "Libero passeggero"

Andrea Chimenti "L'albero pazzo"

Bim Sherman "Miracle"

Spain "Spirituals - The Best Of Spain"

Leonard Cohen "Live in London"

Mark-Almond "The best of"

Bryan Ferry "Taxi"

Genesis "Nursery crime"

Keziah Jones "Blufunk is a fact"

John Martyn "Solid air"

Avion Travel "Vivo di canzoni"

Ryuichi Sakamoto "Back to the basic"

Mark Hollis "Mark Hollis"

Paul Weller "Wild wood"

Tut Taylor "Dobrolic Plectral Society"

Piero Ciampi "Le carte in regola"

Mink De Ville "Coupe de grace"

Peter Gabriel "1"

Iggy Pop "Free"

Iron Maiden "Piece of mind"

Dave Cousins & Brian Willoughby "Old school songs"

Mercury Rev "Deserter's songs"

Michael Nesmith "Live at Paris"

Tin Huey "Contents dislodged during shipment"

Spero di non far arrabbiare nessuno :-)

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editoriale di cofras

Mai avrei pensato che si sarebbe scatenato il debfinimondo con questa malsana idea (anche se poi la malsana idea è di ZiOn) del gruppo sulle copertine brutte!

Apriti cielo! Chi è rimasto destabilizzato e ha creduto fosse arrivata l’apocalisse come Dislocation, chi ha voluto essere cancellato come Valentyna, chi posta cose che ritiene brutte ma che fanno sorridere tipo Buckley, chi ci sguazza e propone orrori di qualunque tipo come Lector, chi ride, chi piange, chi non si è palesato e mantiene il riserbo, chi è favorevole e chi è contrario. Insomma non vi nomino tutti per abbreviare ma è un bel guazzabuglio.

Per non parlare delle sottocategorie che stanno emergendo: gli anni 60 italiani, le religiose, le pelose, le pruriginose, le animalesche e chi più ne ha più ne metta!

In Sardegna si dice 'centu concas, centu berrittas' e non credo ci sia bisogno di traduzione!

Mi corre il pensiero al fatto che #forse siamo lo specchio dei nostri tempi, un estratto abbastanza fedele della nostra cara italietta con tutte le sue contraddizioni. Ma non è #forse questo il bello del Deb?

Forse esagero ma la vedo come una piccola botta di vita o no? Mah, personalmente mi sono fatto parecchie grasse risate e devo dire che era da un pò che non mi divertivo così.

Chiedo umilmente scusa a coloro che ho inserito nel gruppo senza una richiesta diretta, così d’ufficio, a loro insaputa.

Mi piacerebbe, in ogni caso, sentire opinioni in merito, anche cattive, anzi molto cattive, e sono sicuro che qualcuno sta già affilando la tastiera.

A si biri chizzi

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editoriale di Kiodo

“Hai la possibilità di viaggiare indietro nel tempo ed incontrare il te bambino. Puoi dargli solo un consiglio. Cosa gli dici?”

Probabilmente gli consiglierei di stare sereno, che quello che lo fa sentire diverso dagli altri ha un nome - classismo - e che quella merda cesserà di essere strumento per catalogare le persone.

Gli direi che quelli come lui smetteranno di essere gli ultimi, ma di non illudersi perché gli ultimi non smetteranno di esistere. Lo esorterei a non dimenticare come ci si sente, perché gli ultimi di domani saranno molto più nella merda.

O forse mi limiterei a dirgli che La Fabbrica Dei Mostri non è così divertente come crede.

Tanto, a partire da allora, il tempo e la musica assolveranno le loro funzioni. Leniranno le ferite. Amplificheranno le incazzature.

Oggi sono trent’anni di Korn.

Pace in terra agli uomini di buona volontà.

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editoriale di TheB

Per pura curiosità faccio una domanda che potranno capire solo gli over 50 proprio perché le nuove generazioni difficilmente potranno aver vissuto questa esperienza.

Ricordate la prima volta che avete ascoltato musica in stereo?

Io lo ricordo perfettamente, avevo 11 anni (1976) a casa di un mio compagno di scuola che mi fece ascoltare un disco del suo fratello più grande, accese l'impianto prese il vinile mi diede la cuffia e iniziò la magia.

Il disco era Ummagumma dei Pink Floyd.

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