editoriale di splinter

Ormai sappiamo un po’ tutti cosa vuol dire salvare il pianeta, ce lo ripetono su televisioni e giornali fino allo sfinimento e forse (ripeto, FORSE) stiamo entrando nell’epoca dell’azione concreta dopo anni di chiacchiere e sottovalutazione del problema, quella in cui le autorità stanno mettendo sul tavolo soluzioni concrete.

Però… c’è un però: l’azione delle autorità non è sufficiente, serve il contributo di ogni singolo cittadino del mondo, se dall’alto si cercano soluzioni per ridurre le emissioni di gas serra e il consumo di acqua il cittadino deve cercare quanto più possibile di rivedere le proprie abitudini e limitare i consumi. Ma siamo davvero sicuri che i cittadini siano in grado di fare questi piccoli sacrifici? Siamo davvero sicuri?

Salvare il pianeta vuol dire ad esempio viaggiare di meno. Gli studi attribuiscono al traffico aereo e ai viaggi un impatto all’incirca dell’8% sul riscaldamento globale. Molti intervistati (meno del 50% comunque) sarebbero disposti a rinunciare ai viaggi aerei o a parte di essi, ma la mentalità generale che imperversa sui social è decisamente viaggiatrice: post che ci fanno credere che chi non viaggia è perduto, che chi non viaggia muore, non scopre altre culture e diventa perfino razzista o robe simili, a cui va ad aggiungersi la gente che intasa i profili altrui con spiagge tropicali, foto con cocktail, chiappe al vento, grattacieli e città sterminate… e non solo stagionalmente ma più volte all’anno. Tutto questo quando invece in Italia abbiamo bellissime spiagge e luoghi di cultura invidiati in tutto il mondo. Tutto il mondo ha creato una società e un’economia basata sul turismo di massa, il turismo è per molti paesi una primaria fonte di guadagno, sarebbero questi in grado di rinunciarvi sapendo che vorrebbe dire perdere entrate sicure? E la popolazione sarebbe veramente in grado di contenere questi istinti da esploratori folli? La storia recente ci suggerisce che l’uomo non è capace di evitare i disastri, lo ha dimostrato durante l’estate 2020: reduci dalla terribile prima ondata di Covid-19, con il virus che in alcune aree non aveva frenato del tutto la propria circolazione, ci era stato fortemente consigliato di rimanere nel nostro paese, e invece… tutti hanno spinnato per andare in Croazia, Spagna, Malta, ecc. riportando le forme gravi e facendo ripartire alla grande l’epidemia. E si trattava di comportamenti in grado di ucciderci in breve tempo, figuriamoci in questo caso dove le ripercussioni sono nel lungo periodo…

Salvare il pianeta vuol dire anche usare molto meno le automobili. Siamo sicuri che la popolazione voglia veramente fare a meno delle automobili? Quando osservo le strade nelle ore di punta ogni volta penso “mamma mia, quante macchine, quanti veleni nell’aria!”, mentre sui social girano post che mostrano quanto spazio occupano tutte quelle macchine e quanto più libera sarebbe quella strada se quelle stesse persone fossero concentrate in un mezzo pubblico. Io che vivo nell’hinterland milanese so che gran parte di questo è raggiungibile abbastanza agevolmente con il servizio pubblico, che tra l’altro permetterebbe agli utenti di risparmiare notevoli costi relativi al mantenimento dell’automobile e anche ad evitare lo stress mattutino legato alla paura di non arrivare in tempo per via del traffico o del parcheggio che non si trova. Ma non c’è niente da fare, la gente, anche secondo diversi sondaggi, sembra preferire nettamente l’auto, probabilmente per quel senso di autonomia e di controllo della situazione che essa offre, quando parli con certa gente sembra che il passaggio alla bicicletta o al mezzo pubblico sia persino follia, non passa nemmeno per l’anticamera del loro cervello. Posso capire che alcuni grandi spostamenti è meglio farli in piena autonomia e senza grossi sbattimenti, il problema è che l’auto viene utilizzata anche per spostamenti di pochi chilometri, ma ho visto addirittura utilizzarla per brevissimi tragitti effettuabili tranquillamente anche a piedi, quasi ignorando o fingendo di ignorare il beneficio fisico del camminare; magari anche gente che la prende per recarsi alla palestra situata all’altro capo della strada e fare attività fisica leggera quando si faceva prima a correre sui percorsi pedonali o nelle campagne. Anche dai piani alti però non sembra farsi molto per scoraggiare l’uso dell’auto in favore del trasporto pubblico e ciclabile: almeno da noi, le piste ciclabili non sono ancora onnipresenti, sono molteplici le zone non raggiungibili con i mezzi pubblici (come se venisse dato per scontato che ad un certo punto uno si automunisca), a Milano poi il prezzo del biglietto viene addirittura aumentato e le corse tagliate. Ci si mette poi anche la pubblicità: in tutti questi decenni sono passati in TV così tanti spot di automobili che se andiamo a scavare nella nostra mente ce ne vengono in mente a bizzeffe, alcuni particolarmente teatrali e memorabili, pensiamo poi a quante canzoni sono diventate celeberrime grazie agli spot automobilistici; quanti spot di biciclette invece abbiamo visto? Io ne ho contati giusto giusto due sulle TV locali. Come si fa ad incoraggiare la svolta ecologica se nella mente del popolo viene inculcata solo una mentalità automobilistica? Il ciclista viene persino deriso sui social, il ciclista non è quello che ama l’ecologia, è quello che invade la carreggiata, quello indisciplinato, quello che rallenta il traffico (sai com’è, sono tutti di fretta) e altre dicerie simili, e la costruzione di una pista ciclabile viene spesso vista come un fastidioso restringimento della carreggiata anziché un’opportunità.

Salvare il pianeta vuol dire anche ripudiare il fast fashion, responsabile di circa il 18% delle emissioni di CO2, e imparare a comprare meno capi ed utilizzarli il più a lungo possibile. La gente sarebbe disposta a farlo? Non saprei, ogni volta che cominciano i saldi i centri commerciali si intasano di gente che non vede l’ora di accaparrarsi il capo all’ultima moda, continuamente spinta dall’influencer di turno su TikTok o Instagram che autoproclamatasi ministra della moda ha decretato quali sono i capi cool da comprare subito e quali invece sono out e vanno stipati nel fondo dell’armadio, influencer che, specie dalle giovanissime e più incoscienti, viene seguita senza minimo giudizio come fosse una dea, come fosse vangelo; così come anche gli articoli delle riviste online che con toni dittatoriali ti dicono di dire “addio a quei vecchi pantaloni, questi sono gli unici jeans che vorremo indossare la prossima stagione”, in quante inconsciamente abboccano, guai a non essere al passo con i tempi, sarebbe un’eresia… Comprare e comprare vestiti magari di scarsa fattura che non avranno nemmeno una vita così lunga per poi doverne comprare subito di nuovi perché i “vecchi” (fra virgolette, sia chiaro) cadono già a pezzi, costringendo queste aziende ad aumentare la produzione per stare dietro a questa sfrenata voglia di shopping (il fenomeno Primark è lì a dimostrarlo) e di conseguenza le emissioni e il consumo di acqua. Ma dico io, ma davvero non avete niente da mettervi? Ma che ve ne fate di tutti quegli abiti che poi manco mettete? Lo sappiamo bene ormai che avete un sacco di roba nell’armadio e che vi lamentate di non aver nulla da mettere! E poi è davvero così necessario essere all’ultimissima moda? Fate schifo se non lo siete? Ma creare un vostro stile personale no eh? E non vi accorgete che dopo un po’ diventate anche tutte tristemente uguali… e contribuite inconsciamente al disastro.

Ma attenzione! C’è anche un culto, un rito annuale che ha un impatto ambientale più devastante di quanto si possa pensare: il Natale. Una festa in grado di produrre in pochi giorni circa il 6% della CO2 che produciamo in un anno, oltre che una quantità incalcolabile di carta da imballaggio (spesso non riciclabile), un notevole consumo di elettricità e chi più ne ha più ne metta. E anche questa è un’abitudine che si può benissimo rivedere e correggere ma vai a farlo capire alla gente. Anche qui la pandemia fa scuola, con gli ospedali pieni e la gente che moriva, tutti si riversavano comunque a fare regali, Piazza del Duomo a Milano stracolma come se nulla fosse, mentre l’anno successivo (pur con i vaccini e un virus meno aggressivo), nonostante l’ampia circolazione virale, tutti in coda a fare tamponi perché guai a rinunciare al cenone di Natale. Non li ha fermati una minaccia virale immediata, può farlo una minaccia a lungo (anzi, ormai breve) termine? Eh, come fai a levare dalla testa della gente una tradizione consumistica ormai consolidata? Pubblicità e parenti ci hanno fatto fin da piccoli una testa tanta con ‘sta storia del Natale, tant’è che ora è una cosa praticamente automatica quanto dovuta. È normale e dovuto fare l’albero di Natale (e tenerlo acceso consumando un sacco di corrente), e soprattutto è normale e dovuto fare centinaia di regali, guai a non farli, è mancanza di rispetto, è disinteresse, è egoismo. In realtà ve lo dico io cos’è, falsità ed ipocrisia, oltre che ignoranza e indifferenza. Fate regali forzati a gente che non cagate di striscio per tutto l’anno, magari vi scannate pure… però “Buon Natale!”, esprimete emozioni che non sentite soltanto perché vi hanno detto che bisogna essere più buoni, ignorate il vero significato del Natale e mentre fate ciò che vi è stato detto di fare dalle lobby non sapete che state dando il vostro piccolo ma pesante contributo alla distruzione del pianeta.

E poi c’è una questione che tiene banco ormai da diverso tempo, e anche questa sembra passare sotto gli occhi della gente con un certo senso di indifferenza: la crisi idrica. Salvare il pianeta vuol dire anche salvare le risorse idriche e sprecare meno acqua. Ma la gente sarebbe disposta davvero ad usarne di meno? A leggere i social sembrerebbe di no. Gran parte della popolazione fa un numero spesso eccessivo di docce a settimana, numeri che arrivano perfino alla doppia cifra in alcuni paesi asiatici e sudamericani, tanti la fanno addirittura senza chiudere il rubinetto durante la fase di insaponatura; ma anche senza andare troppo lontano, rimanendo anche solo sui social e nelle chiacchierate amichevoli possiamo farci un’idea di cosa pensa la gente in merito. Quando senti parlare la gente secondo loro la doccia quotidiana è assolutamente sacrosanta e indiscutibile, anche nei mesi autunnali e invernali dove si suda decisamente poco e anche se non lavorano in fabbrica con forni e sostanze chimiche, in estate poi si arriva addirittura alle 3 al giorno, nonostante contro il caldo appiccicoso si possa fare decisamente poco. Come se la doccia avesse poteri magici. Quando spunta l’articolo che mette sul banco l’ipotesi di ridurre il numero di docce settimanali per scongiurare la crisi idrica ecco che arriva l’orda dei sapientoni che dicono di “non dare questi consigli malsani ora che sta arrivando la stagione calda” o che tira in ballo il fatto che sui mezzi pubblici ci sono millemila odori, come se l’igiene personale fosse efficace al 100% contro i cattivi odori; e grazie al cazzo, sono tutti stati abbindolati per anni e anni dalle pubblicità dei deodoranti che ti fanno addirittura credere che “più sudi e più profumi”… Per il genere umano poi l’odore è qualcosa da nascondere, al contrario del restante mondo animale, l’odore di sudore è una cosa normalissima e invece no, la gente deve nasconderlo con ettolitri di deodorante, o meglio deve cercare di nasconderlo, darsi l’illusione di poterlo fare quando invece i miracoli non esistono. Viene ignorato poi anche il fatto che l’odore personale sgradevole può dipendere anche da altri fattori e malattie, per la gente uno che puzza è semplicemente una persona che non si è lavata e basta, una persona da mettere alla gogna, magari non è colpa sua ma fa niente, è da emarginare per le proprie abitudini e basta; e viene ignorato anche il fatto che l’eccessiva igiene può portare la pelle a liberarsi di batteri buoni, a seccarsi, a diventare più sensibile e a sviluppare malattie, e lo dicono i dermatologi, mica io; un’ignoranza diffusa e un senso di intolleranza che ci stanno trascinando in un dissesto idrico senza precedenti. Voglio vedere come questi maniaci della pulizia si laveranno quando per colpe anche loro dai rubinetti uscirà aria…

Queste sono solo alcune delle abitudini che possiamo modificare. Ma alla gente sembra non fregare nulla di questo riscaldamento globale, anzi, a tratti sembra quasi contenta che il clima diventi più caldo. Ogni anno la gente non vede l’ora che arrivi l’estate, di tuffarsi in mare, di invadere le spiagge e le discoteche all’aperto, e quando l’estate non è lì va a cercarla ai tropici o nell’altro emisfero. Per la gente l’inverno è depressione, buio, freddo. Perché è stata educata così, anche qui pubblicità e media hanno fatto il suo sporco mestiere, tanta pubblicità a gelati (l’Algida e il suo “cuore di panna”), agenzie viaggi, crociere, creme solari. Anche le canzoni non hanno fatto eccezione, le canzoni più ricordate e cantate sono legate all’estate o hanno un’ambientazione estiva, pensiamo a “Sapore di sale”, “Abbronzatissima”, “Stessa spiaggia, stesso mare”, ma anche all’estate che “vorrei potesse non finire mai” dei Negramaro, pensiamo ai cantanti di lingua spagnola che ogni anno sono lì a progettare il successo per l’estate magari allegandoci un balletto da dare in pasto ai villaggi turistici, pensiamo ai videoclip commerciali che sono ambientati più volentieri su spiagge e piscine con ragazze in abiti succinti che non su piste da sci o in Islanda. Per la società devi vivere solo in funzione dell’estate, del sole e del mare, non ci hanno mai educato a trovare del romanticismo nella pioggia, nella nebbia, nei campi bianchi di brina, negli alberi spogli e nelle foglie secche, nel fruscio del vento, forse lo hanno trovato i più intellettuali e colti, quelli più indifferenti alla mondanità, quelli che hanno capito che il monopolio estivo è tutta una trovata pubblicitaria… Quando il clima è precocemente caldo la gente non sembra preoccuparsi minimamente, anzi invade le spiagge e racconta con fierezza di aver fatto il bagno a marzo, questa gente vedrebbe in un ulteriore riscaldamento atmosferico un’opportunità anziché una minaccia… solo però quando le fa comodo, quando non fa più comodo si rintana in casa con il condizionatore sparato a manetta sul 16 già alle 8 del mattino, altra abitudine non proprio amica dell’ambiente né della salute, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, vogliono l’estate ma non vogliono sudare, vogliono il caldo ma si lamentano dell’odore di sudore altrui, vogliono il fuoco in spiaggia e il ghiaccio in casa; in ogni caso voglio proprio vedere se gioiranno ancora quando ci saranno eventi catastrofici, la loro casa sarà sommersa e le temperature saranno veramente da inferno dantesco.

Insomma, dopo tutte queste riflessioni possiamo arrivare al punto e farci la domanda. La gente cambierà davvero le proprie abitudini? È questa la popolazione a cui chiedere di salvare il pianeta? In tutta franchezza… NO!!!

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editoriale di Bubi

È prigioniera di orgoglio e di ignoranza, che limitano il suo sguardo sulla vita. Convinta che la bellezza sia sostanza e che per avere una vita perfetta, si debba vivere nella bellezza e senza sofferenza. Cerca la perfezione nell'apparenza, crede di sfuggire ad ogni affanno, ma non sa che la sofferenza è parte dell'umana essenza. Non sa che la bellezza del mondo è polifonica, composta di piaceri e di dolori, che ogni esperienza è unica e che la lacrima è di molti colori. Ma resterà sempre prigioniera dell'illusione di perfezione che la guida, ignorando che nella vita, la bellezza e la sofferenza si uniscono e si confondono in un'armonia naturale.

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editoriale di iside

QUANDO IL SUCCESSO E' UN FALLIMENTO

Riporto qui quello che mi ha detto la diciottenne L, italo-ivoriana (cioè figlia di immigrati ivoriani ma nata in Italia) durante una lezione che ho tenuto su trap e new economy in un istituto tecnico per ragionieri, e dell'interessante reazione dei suoi compagni e dell'insegnante a quello che la ragazza ha espresso. E' un frammento che ritengo prezioso, perché mostra come il successo dell'integrazione possa risolversi in un rifiuto del life style occidentale.

Avevo appena finito di analizzare il testo di Ninna Nanna di Ghali, il cui il trapper italo-tunisino si chiede se alla fine della fiera, una volta arrivati soldi e successo, fosse effettivamente questo che voleva, fosse questa la (sua) felicità. Chiedo ai ragazzi cosa ne pensano, ed alza la mano L

L: "No, non è quello che voleva. E' quello che credeva di volere, perché qui lo vogliono tutti. Io ad esempio sto 9 mesi qui, poi torno in Costa d'Avorio l'estate e ci passo 3 mesi tutti gli anni. Lì siamo più poveri, ma non siamo soli."
a questo punto interviene F suo compagno, e le chiede cosa vuole dire
L: "Nella pratica ad esempio qui quando uno si ammala nessuno lo va a trovare, nessuno lo chiama, ci si manda un messaggio su whatsapp e quando torna torna. Non solo in Italia, io ho un cugino a Parigi e un altro a Londra, ed è uguale per loro. Poi penso a questo da un po': quando finirò le superiori, se mi va bene andrò a lavorare da ragioniera in ufficio, per uno stipendio che basta per vivere, e dopo che faccio? Mia sorella lo fa da 3 anni, e fuori lavoro passa il tempo in palestra e a mettere foto su Insta. E dopo? E' sempre sola, come le sue amiche, da noi invece una donna a 21 anni ha una famiglia, sta sempre insieme ad altre donne, aiuta gli altri, non è mai sola."
Io: "Scusa se te lo chiedo dato che non ci conosciamo, ma è per capire. Ti senti discriminata? Pensi che questa che dici sarà la tua vita perché sei di origine africana?"
L: "No, non sono discriminata, è uguale per tutti, qui è così per tutti, come dice Ghali. Non cambia se sei nero o bianco. Per voi questa è la vita, per cui se ci riesco preso il diploma me ne torno in Costa d'Avorio, e vedo cosa riesco a fare lì"
vedo i suoi compagni perplessi, uno sembra mormorare una cosa tipo "e allora tornatene a casa tua", ma l'insegnante lo zittisce subito.

finita l'ora, esco dall'aula e l'insegnante d'italiano -la chiameremo M- della classe mi ferma
M: "Mi spiace per quello che ha detto L, in classe non l'aveva mai detto, ma è da un po' che è inquieta"
Io: "Perché va male a scuola?"
M: "No, ma molto bene, meglio dei suoi compagni"
Io: "Comunque non mi sembra abbia detto nulla di strano"
M: "Sì, ma vuole tornare da sola in Africa, c'è qualcosa che non va'"
Io: "No, io credo al contrario, che vada tutto bene. E' piccola, ma ha scelto"
M: "Sì ma non è stata integrata, per questo se ne va"
Io: "No, è proprio perché è integrata che se va. Quando ho parlato di Ghali, lei si è riconosciuta nella sua storia, perché Ghali è un ragazzo della seconda generazione che ce l'ha fatta, si è integrato e ha avuto quello che gli dicevano essere il successo. Ma scopre che alla fine qui c'è solo la solitudine, che i nostri valori sono una maschera per nascondere che siamo abbandonati a noi stessi. Anche lei si sente integrata, quella che immagina e rifiuta è la vita ovvia di un italiano che fa il suo stesso lavoro. Non si sente vittima di nulla."
M: "Sì ma.... si poteva far di più, magari ha sbagliato scuola..."
Io: "E se provassimo a pensarla in altra maniera, cioè che lei sia più libera di noi? Lei ha visto due modelli diversi, quello europeo e quello africano, ha l'intelligenza critica per capire la coerenza fra i valori e la vita concreta a cui questi valori portano. E ha scelto, semplicemente non ha scelto il nostro modello, quello che lei e io crediamo "superiore" perché non riusciamo nemmeno a immaginarne un altro"
M: " Sì, forse... però magari se facesse l'università qui..."

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editoriale di BobAccioReview

Per i non addetti ai lavori, Cristiano Godano è uno sconosciuto, ma non i Måneskin, gruppetto rock nostrale che ama travestirsi in guisa sexy e scimmiottare sui palchi e nei video.

Se Peter Gabriel in vena di schokare l'audience internazionale aveva già giocato la carta in stile acrobatico, live a Sanremo durante gli stupidi anni '80 del benessere yuppie, viene così ancora rimarcato il fatto che le scimmie antropologiche portano fama e soldi. Appurato sto fattarello da niente, ora parliamo di Godano.

Costui è un membro di una rock band o di una post rock band in cui suona canta, non balla e né scimmiotta, scrive i testi e compone musica, e in quella nicchia musicale si è costruito una reputazione che evidentemente comincia a sgretolarsi. E quando questo accade si comincia a cavalcare le onde vestiti da cowboy e si pensa solo a far bottino, per l' avvicinarsi della pensione.

Ed ecco spiegato il movente che ha spinto Godano a scrivere per i webbettari di Rolling Stone.it un articolo, che non leggeremo, perché cavalca un'onda ormai fuori portata massima; assomiglia infatti a quelle onde piccine che approdano a riva d'estate quando non tira vento e risultano funzionali esclusivamente al sounding di relax in un pomeriggio palloso passato al mare a far parole crociate esposti al solleone, perché non ci tira più questo argomento.

Si che lo scopo della testata è di innalzare il numero di lettori con articoletti pseudoscandalistici e provocatori di bassa lega, così tutti possono vedere la pubblicità esposta dal fu glorioso marchio e guadagnare soldi di conseguenza, ma l'ennesimo articolo sul 'piacciono o non piacciono' quei piacioni degli smaneskin mi sembra troppo. Eppure bisogna grattare il fondo della marmitta per sbucciarsi le ginocchia, rovinarsi la manicure e scheggiarsi i denti per aver scavato sino all'impossibile dentro a un materiale ridondante che ha esaurito ogni curiosità.

I maneskilt sono solo una band di indossatori che ora piacciono a Godano e non importa se figli della divinità celeste scesi in terra, e non di una scena subculturale de noantri. Questo cliché già riproposto da Gesù Cristo ora viene a recitarcelo il simpatico - ma non era depressivo e controculturale? - Cristiano, ed ecco scoperto l'arcano, nomen omen.

Che cosa ci serve in sostanza sul piatto d'argento Cristiano Godano sponsorizzando sulla sua pagina un articolo a favore di manesquik? Beh, 'na caterva de vaffa... Non fosse altro perché così facendo accelera la sua decadenza. Almeno per chi gli occhi li usa per guardare. 'Se non puoi combatterli allora unisciti a loro' e sii felice che i soldi fanno la tua felicità. Amen(o)

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editoriale di Stanlio

Ammettere la propria ignoranza in merito è il primo passo verso l’inizio della (seppur parzialissima) conoscenza in merito alla Transnistria da parte mia.

Come mai questo improvviso interesse da parte mia?

Semplice, deriva dall’apertura odierna del quotidiano il manifesto, dove in breve si rende noto che “dal 1992, la striscia di territori che per 405 km marca il confine fra Ucraina e Moldavia (la regione della Transnistria), si è sottratta al controllo di Chișinău (capitale della Moldavia) ed è vissuta come repubblica separatista grazie al supporto della Russia, che vi ha mantenuto le vecchie basi della 14ma Armata sovietica quali «forze di peacekeeping», oggi forti di 1.000 uomini.” per saperne di più.

Ma com’è sta atavica faccenda tra Moldavia, Transnistria, Ucraina e Russia?

In parte:

  • C’era di mezzo un fiume il Dnestr con le sue sponde (occidentale ed orientale)
  • C’era di mezzo la mafia/le mafie dell’Est con tutti i loro traffici nessuno escluso
  • C’è di mezzo la questione irrisolta della recente guerra dove le truppe russe han puntato a prendere il pieno controllo del Donbass e dell'Ucraina meridionale, per ottenere un’apertura per un corridoio terrestre verso la Crimea, la più grande penisola affacciata sul mar Nero.

Va da sé che se Putin continua ad impuntarsi a non riconoscere l’autorità Moldava nei confronti della regione Transnistriana e ad appoggiare quest’ultima nella sua indipendenza non riconosciuta dalla comunità internazionale si arriverà presto ad una nuova escalation che potrebbe sfociare dulcis in fundo in un potenziale conflitto nucleare, #forse…

Ne sapevo meno di niente prima e non ne so molto di più adesso, tranne che la Transnistria è una regione cuscinetto che fa gola alla Russia anche per il suo sbocco sul mare e per questo motivo altro sangue innocente continuerà ad esser versato per la megalomania legata al/i potere/i dei soliti “criminali malati mentali”.

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editoriale di Trofeo

Questo è il mio primo post come editoriale.

Sicuramente verrò insultato per il contenuto ma non è fatto a caso.

Volevo dirvi che vi voglio bene. E vi spiego perché.

Non c'è un sito come questo, dove tra serio e faceto si parla di musica, ci si diverte e ci si misura con la propria passione e capacità di recensire, ci si prende in giro e ci si ama. In totale anonimato, quindi anche i più timidi (più di Ruggero ndr) possono andare in scioltezza.

La questione però è un'altra. Mi accorgo solo io che c'è un silenzioso assordante sulla musica? C'è poca voglia di scoprire, di non vedersi propinate le pulsioni tristi dei direttori artistici delle radio, che su emittenti finte rock ci propongono pezzi di sfigatissimi gruppi paraculi anni '90 (mi vengono in mente The Rasmus, tra gli altri) o proposte pop travestite da finto rock? (Mi sembra di vederti, hai davanti agli occhi i Maneskin. Non farlo).

Con chi parlo di musica? Con chi mi confronto su vecchi successi, mode del momento, contaminazione di stile o anche solo di concerti? Nella mia friendlist di Facebook (ormai morto) ho lo stesso riscontro che avrebbe un senzatetto davanti alla vetrina di Gucci in pieno centro? E quindi che si fa?

Per fortuna c'è il Debasio. Per fortuna abbiamo una loggia segreta nel mondo.

E allora vi amo.

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editoriale di Elfo Cattivone

Thomas è una persona comune, uno come molti, lavora col computer, magari scrive su un sito di recensioni musicali come passatempo.

Però non è proprio come tutti gli altri, è inquieto, non riesce ad essere allineato al comune modo di vivere, sfoga questa sua irrequiezza facendo l'hacker, violando le regole, mettendosi al di sopra di esse. Come altri prima di lui è in un momento particolare, un momento in cui, citando parole di personalità molto più sagge di me: “essi sentono vacillare tutte le loro certezze, venir meno tutte le loro luci, tacere le voci delle passioni e degli affetti e di quanto altro animava e muoveva la loro esistenza. Ricondotto al proprio centro, l'individuo avverte allora a nudo il problema di ogni problema: Che sono io? Sorge allora, quasi sempre, anche il senso che tutto ciò che si fa non solo nella vita ordinaria, ma altresì nel campo della cultura, in fondo serve solo per distrarsi, per crearsi la parvenza di uno scopo, per aver qualcosa che permetta di non pensare profondamente, per velare a sé stessi l'oscurità centrale e per sottrarsi all'angoscia esistenziale. In alcuni casi una crisi del genere può avere esito catastrofico. In altri si reagisce. […] Qualcosa di nuovo e di irrevocabile si è determinato nella loro vita. Il circolo chiusosi intorno a loro, intendono spezzarlo. Essi si staccano dalle fedi, si staccano dalle speranze. Vogliono dissipare la nebbia, aprirsi una via. Conoscenza di sé e, in sé, dell'Essere – ciò essi cercano. E un tornare indietro per essi non c'è.” (1)

E così Thomas incontra Morpheus, non capisce più se sogna o se è sveglio, ma Morpheus ha delle risposte, risposte che potrebbero essere come acqua nel deserto, prima però Thomas deve scegliere se andare avanti o tornare indietro alla sua vita precedente, deve scegliere quale pillola ingoiare: rossa per oltrepassare la soglia, blu per non farlo. Thomas prende la rossa e la sua iniziazione è compiuta; Thomas muore, nasce Neo.

E' solo allora che Neo vede per davvero: la realtà non è quella a cui era abituato, gli esseri umani sono intrappolati da entità malvagie, delle macchine, che rubano loro l'energia vitale, si nutrono di loro, li allevano come bestiame da macello; per far tutto ciò hanno imprigionato la coscienza degli uomini dentro una realtà fittizia, un riflesso del mondo vero, che però gli uomini dai sensi catturati scambiano per la realtà e non immaginano minimamente quale sia la terribile verità.

Un potente architetto è il demiurgo di questo mondo, si sa che un demiurgo non è un vero dio, può solo modellare le sue creature e i suoi mondi, ma non può infondere in loro la scintilla divina. Può essere benevolo il demiurgo, come Geppetto, che costruisce con amore il suo burattino, non è lui però ad animarlo, lo assembla e basta e lo aiuta, per quanto può, a diventare un bambino vero. Il demiurgo della matrix invece è malevolo, imprigiona l'uomo, perché sa che se mangiasse il frutto dell'Albero della Vita non potrebbe più soggiogarlo.

Una schiera di macchine e algoritmi, fredde intelligenze artificiali, tengono gli uomini nel recinto dell'allevamento intensivo, creano idee, bisogni, dogmi per soggiogare l'umanità. Chi riesce a liberarsi dovrà lottare contro i suoi stessi simili per cercare di far aprir loro gli occhi, per donar loro la gnosi.

Non tutti i liberati inoltre sono come Neo, egli è il prescelto, il protagonista del film, un superdotato che è riuscito a sapere come aggirare le regole della matrix, volando e facendosi beffe della gravità, ma tutti gli altri lottano comunque per salvare i propri simili, pur sapendo che c'è chi non vuole essere svegliato, c'è a chi la matrix piace, perché deve solamente ubbidire senza prendersi rischi o senza assumersi responsabilità, è molto più facile stare in fila nella mangiatoia della stalla che pensare con la propria testa, purtroppo però le entità “macchine” non fanno beneficienza.

Tocca quindi a questi coraggiosi gettare le perle qua e là, se cadranno vicino ai porci, questi non capiranno e continueranno a grugnire, ma se cadranno vicino a qualcuno che aspetta solo un segno, allora la fiamma continuerà a risplendere anche nell'ora più buia.

(1) Gruppo di Ur – Introduzione alla Magia – Volume primo – Edizioni Mediterranee – p. 7-8

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editoriale di splinter

Ci hanno accompagnato nei momenti peggiori della pandemia, quando in assenza di vaccini erano l’unico strumento in grado in qualche modo di proteggerci da un nemico invisibile e pericoloso, probabilmente meno efficaci del totale isolamento e della rinuncia a qualsiasi relazione sociale. Speravamo che una volta conclusa la florida campagna vaccinale ci saremmo definitivamente liberati di queste odiose mascherine e invece continuano a menarcela per paura che il virus possa di nuovo riservare scenari come quelli del marzo 2020. In sostanza il virus non è più il nemico pubblico di due anni fa ma ci viene a volte chiesto di comportarci come allora, con il risultato che qualcuno di tanto in tanto crede davvero di trovarsi ancora di fronte alla peste bubbonica, continuando ad indossare queste orrende pezze sul muso anche in situazioni con bassissima probabilità di contagio, come incontrando un gruppo di poche persone o in luoghi non particolarmente affollati.

Personalmente considero il fatto di dover proteggere le vie respiratorie nonostante tre dosi di vaccino un’assurdità totale. Pensa che cosa strana, mi sono vaccinato, il virus difficilmente può farmi davvero male (dovrei essere proprio sfigato perché ciò accada) ma devo essere prudente lo stesso, è un controsenso. È un estremo rimedio per un male non estremo (o meglio, non più estremo), un non voler accettare nemmeno le malattie nella loro forma più leggera. Interessante la posizione espressa da Vittorio Sgarbi in uno dei suoi molteplici interventi: è l’unico periodo della storia in cui la malattia, anche quando ormai leggera e curabile, viene considerata un qualcosa da scongiurare totalmente, in passato la malattia è sempre stata considerata un incidente di percorso, da curare per poi tornare alla normalità, questo atteggiamento iperprotezionista che porta ad evitare totalmente la malattia è un fenomeno sostanzialmente nuovo.

Ma arriviamo al succo del discorso. Il bello è che tutti dicono “eh ma cosa vuoi che sia una mascherina…”, come se una mascherina sul volto fosse niente… invece è tanto, è tristemente tanto. Partiamo da un semplice presupposto: le mascherine, perlomeno nella fase post-vaccinale, sono state il principale oggetto dei provvedimenti presi per paura che il contagio potesse ancora far disastri, alle avvisaglie di risalita la prima decisione riguardava il ripristino del loro utilizzo in determinati luoghi e contesti. Riflettiamoci su, se indossare le mascherine fosse normale quanto indossare le scarpe allora il problema non si porrebbe, le indosseremmo ogni volta che usciamo di casa e il discorso sarebbe chiuso; pertanto, se ogni volta che le forze governative si riuniscono con quelle scientifiche la questione sul tavolo riguarda l’uso delle mascherine e l’obiettivo è quello di abolirne l’obbligo in determinati contesti allora vuol dire semplicemente che indossarle non è proprio una cosa normale! Madre Natura non ci ha certo fatto con un mascherina in volto e a lungo andare la mascherina può diventare fastidiosa e soffocante, causare l’appannamento degli occhiali (anche se esistono prodotti appositi) e per chi soffre di alitosi risulta ancora più atroce; inoltre proteggersi troppo può disabituare l’organismo all’esposizione di virus e batteri, si va a creare un debito di immunità di cui gli scienziati hanno spesso parlato in quest’ultimo periodo, il risultato è che le successive esposizioni ai virus possono diventare più pesanti, il ritorno in grande stile dell’influenza stagionale è lì a dimostrarlo.

Ma ci sono altre problematiche. La mascherina può rompersi accidentalmente, si può perdere o a volte non si sa dove mettere. Non dimentichiamo l’impatto sull’ambiente, con rischi legati alla loro dispersione e alla diffusione di microplastiche, oppure l’impatto sull’economia, la produzione di mascherine è senz’altro un costo, specialmente quando si tratta di produrle per tutta la popolazione in molteplici esemplari.

Ciò che rende però assolutamente triste la mascherina è semplicemente il fatto che occulta gran parte del viso, con le mascherine non ci si vede in faccia, e vuol dire tanto! Pensate cosa succederebbe se l’uso delle mascherine divenisse normale come l’uso delle scarpe, immaginate i visi delle persone costantemente e definitivamente coperti, immaginate proprio delle persone senza volto: saremmo semplicemente degli omini stilizzati che camminano, senza identità e senza emozioni, saremmo dei freddi robot. Il viso non è una parte del corpo qualsiasi, coprire un viso non è come coprire un braccio, una gamba o la pancia, il viso è l’elemento che più ci distingue e che più dà informazioni su di noi, è il viso il primo elemento di riconoscimento di una persona (sui documenti di riconoscimento mettiamo la nostra faccia, mica un braccio o una gamba), ma anche di ricordo e di attrazione. In un recente corso sulle competenze trasversali ad un certo punto ci veniva chiesto di associare ad ogni espressione facciale (era la stessa persona con espressioni diverse) un’emozione; ora immaginate di mettere una mascherina a ciascun’immagine… le immagini diventano tristemente tutte uguali e le facce diventano facce senza emozioni, facce che non dicono nulla, la persona praticamente smette di comunicare e diventa una delle tante. Secondo molti esperti il linguaggio non verbale è più importante di quello verbale, rappresenta addirittura il 70% della comunicazione, è chiaro che in questo modo ci perdiamo molte informazioni preziose circa la persona che abbiamo davanti, un lato importante della persona viene proprio a mancare. Riguardo al riconoscimento ricordiamoci quante volte abbiamo fatto fatica durante questi due anni a riconoscere una persona, qualche volta ci siamo dimenticati di salutarla oppure abbiamo fatto tremende figuracce perché la persona da noi importunata per strada non era quella che pensavamo. Per non parlare di quello che succede nelle scuole, forse il primo luogo in cui i bambini imparano a socializzare e confrontarsi con l’altra persona; immaginiamo che l’uso delle mascherine a scuola divenisse normalità... succederebbe che i bambini potrebbero non sviluppare la comprensione proprio di quel linguaggio non verbale, così come la memoria associativa legata ad un volto e ai suoi tratti; immaginate poi che un giorno gli venisse chiesto che ricordo ha della sua maestra (e più avanti professoressa) e dei suoi compagni (perlomeno quelli con cui non ha sviluppato un rapporto extrascolastico) e lui rispondesse “non saprei, erano sempre con la mascherina”, pensate che tristezza assoluta. Il viso è inoltre la cosa che spesso guardiamo per prima nell’altra persona, quella che il più delle volte determina se la persona ci attrarrà fisicamente oppure no; con la mascherina sparisce un importante (o forse il più importante) elemento di attrazione e valutazione, fa proprio da barriera, isola i soggetti e li mette praticamente in condizione di non incontrarsi, di non conoscersi a fondo, il gioco stesso della seduzione verrebbe a morirebbe; quante volte abbiamo visto una persona apparentemente di bell’aspetto fisico e alla rimozione della mascherina risultava avere un viso insignificante, non entusiasmante o addirittura di pessimo aspetto (in parole povere “un cesso”).

Alla luce di tutto questo mi chiedo come mai non si sia fatto un serio lavoro di sviluppo e promozione di mascherine trasparenti, in grado di salvaguardare sia la salute pubblica sia il rapporto umano; si è fatto giusto per le persone con difficoltà comunicative, affette da sordità e simili, allora perché non estenderle a tutta la popolazione? Non nascondo poi che mi piacerebbe, il giorno che finalmente si potrà dichiarare la pandemia conclusa, che queste mascherine venissero addirittura vietate, magari con lo scopo di rieducare la gente ad una socialità priva di psicosi e di riabilitare le coscienze al fatto che siamo umani e in quanto tali siamo vulnerabili e mortali; magari prendendo spunto da quanto fatto da Sgarbi a Sutri, facendo leva su quella famosa legge che vieta di comparire in pubblico con il volto coperto senza giustificato motivo, non sussistendo più questo giustificato motivo.

Anche perché a lungo andare la mascherina può essere anche oggetto di conflitti, si sono registrati casi di persone che si sono scontrate fisicamente con i gestori di locali che hanno chiesto di indossarla, ma senza citare i casi estremi immaginate come può sentirsi una persona che vede un’altra persona alzarsi la mascherina al suo arrivo: “ho la peste?”; si crea una sorta di conflitto biologico che riporta alla mente la caccia all’untore della peste manzoniana, una guerra nella guerra, o meglio, la fine di una guerra e l’inizio di un’altra.

C’è chi poi come Pregliasco ha proposto che le mascherine diventassero persino accessori moda… ma hanno davvero le carte in regola per esserlo? No, francamente no! Le mascherine chirurgiche hanno l’aspetto di pannolini spiaccicati in faccia, quelle ffp2 invece hanno l’aspetto di maschere antigas, specie quelle con il filtro, e non mi pare che ci sia mai stato nulla di “cool” in un pannolino o in una maschera antigas. Le mascherine sono semplicemente indumenti kitsch e continueranno ad esserlo, altrimenti le fashion blogger le avrebbero mantenute e probabilmente reinventate con la loro fantasia.

E allora dopo tutto questo lungo discorso la mia domanda è: avrebbe senso ancora rinunciare ad una parte importante del proprio aspetto solo per proteggersi da un virus ormai non più particolarmente problematico e che ora provoca solitamente sintomi lievi che si risolvono in pochi giorni? È ancora un male estremo che richiede un estremo rimedio? Forse la cosa potrebbe essere ancora sensata per le persone più fragili ma si finisce sempre sul solito discorso. Da come le cose vengono raccontate sembra che questi soggetti non possano minimamente sentirsi sicuri con il vaccino, invece li protegge eccome, basterebbe che tutti questi soggetti facciano la dose di richiamo quando indicato dagli organi sanitari di maggior rilievo, ordine che finora è stato ignorato dai più. Dopotutto, se voi foste nonni sareste disposti ad accettare che i vostri nipotini non vi ricorderanno un giorno per il vostro sorriso smagliante? Immaginate il tema “Descrivi tua nonna” e la frase “non ricordo la sua espressione né conosco il suo sorriso, indossava sempre una mascherina per paura di morire”, fa tristezza solo a pensarci.

Non dobbiamo accettare nulla di quello che abbiamo accettato in questi anni pandemici, le mascherine, il saluto col gomito, la distanza, la rinuncia ad abbracci, baci e strette di mano, dobbiamo salvare i rapporti umani pur a costo di un margine di rischio leggermente più alto (si rimanda al mio precedente editoriale). La stragrande maggioranza della popolazione non lo sta accettando e mi sembra un’ottima cosa.

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editoriale di Confaloni

È quindi ufficiale : entro i primi mesi del 2023 a Milano il negozio Dischi Buscemi chiuderà definitivamente.

Confesso che, leggendo pochi giorni fa la notizia riportata anche dal Corriere della Sera, non volevo crederci. Purtroppo non è una fake news e d'altronde, in questi ultimi anni, lo spazio espositivo di quella che è stata la Mecca a Milano di noi amanti della buona musica sia in formato vinile, sia in cd, si era molto ridotto. Era quindi solo questione di tempo perché si arrivasse a tanto.

Lo stesso gestore del negozio (che giunto ai 70 anni anagrafici può pure essere stanco) ammette che il settore della distribuzione musicale è cambiato in questi primi decenni del ventunesimo secolo e ascoltare musica non passa inevitabilmente solo dall'acquisto di un supporto fonografico. È più rapido scaricare brani da Spotify o altre piattaforme, oppure andarsi a vedere filmati di concerti o altro su YouTube (indubbiamente un'inesauribile miniera di chicche musicali).

Cosa resta pertanto qui a Milano a tanti, come il sottoscritto, cultori di un rito particolare quale quello di approcciare la musica in formato fisico tangibile? Al di là di una marea di ricordi legati alle ore passate da Buscemi alla ricerca di novità e rarità discografiche (sono stato fra i clienti fedeli del negozio da più di mezzo secolo a questa parte), direi che il panorama qui in terra meneghina si è fatto ben triste. Certo si trovano ancora negozi di dischi e cd usati in zona Navigli, ma proprio per il fatto che il vinile è un articolo commerciale di nicchia occorre porsi nell'ottica di spendere un bel po'. Tanto per dire, proprio l'altro giorno mi trovavo in uno di questi negozi nella suddetta zona e ho visto che il primo long playing dei Rolling Stones (risalente al 1964) viene venduto alla modica cifra di 60 euro (epperò!) .

Insomma, capisco che il nuovo avanza ma tutto questo non mi consola e mi induce a pensare che i discomani come il sottoscritto saranno sempre più simili ai superstiti delle guerre puniche...

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editoriale di Ilovemusic

Premesso che la lunga discografia dei Tull (che continua ad arricchirsi di deluxe repackages, re-releases varie, B-sides e canzoni inedite mai incluse come bonus tracks nei loro dischi) non è per tutti, se qualcuno ascoltasse i Jethro Tull pensando che i loro album 'entrino' sin dal primo ascolto, il mio consiglio è quello di lasciar perdere e di dedicarsi ad un'altra band. Com'è nata la mia passione per i Tull? Devo dire che è nata per puro caso diversi anni prima della pandemia: stavo finendo la triennale in teologia (branca di studi nella quale sono laureato), e un pomeriggio entro nel mio negozio di dischi di fiducia, e sento il gestore parlare del quinto album dei Jethro Tull: Thick As A Brick (1972). Ne ho sentito parlare anche tante altre volte, tanto che ad un certo punto mi sono detto: Ok, li devo ascoltare assolutamente, anche perché quel sentirne parlare mi aveva davvero incuriosito. Guarda caso, il primo disco dei Tull che ho acquistato, è stato proprio l'album di cui avevo sentito parlare così bene e così a lungo: Thick As A Brick. L'ho ascoltato a lungo, me lo sono 'studiato', e poi, dopo giorni e giorni di ascolto approfondito e di 'studio', quel disco è diventato il mio album preferito in assoluto. È un CD che ho letteralmente rovinato a forza di ascoltarlo; e quando, finalmente, è entrato come si deve, ho iniziato ad acquistare anche gli altri dischi di questa band. Inizialmente, ho acquistato tutta la loro discografia anni Settanta, anche perchè pensavo di accaparrarmi solo i loro dischi più belli, ma dato che mi stavo rendendo conto che ascoltarli mi dava davvero tantissima soddisfazione e, in non poche occasioni, perfino la pelle d'oca, ho deciso di collezionare tutti i loro album, cosa che col tempo si è resa sempre più difficoltosa per lo spazio che richiede, ma questa cosa sta andando meglio di quanto avessi preventivato.

Il disco che mi ha stupito di più è Too Old To Rock'n'Roll: Too Young To Die! (1976) [album in cui debutta il bassista John Glascock a seguito dell'abbandono di Jeffrey Hammond-Hammond, avvenuto dopo la registrazione dell'album Minstrel In The Gallery (1975), l'album più difficile dei Tull dopo Stand Up (1969)]: un concept album che racconta la storia di Ray Lomas, un vecchio rocker che fa una fatica inimmaginabile ad adattarsi alla moda degli anni in cui vive e che rimane fedele al caro, buon vecchio rock'n'roll? Perchè no, purché risulti essere un disco come si deve. Purtroppo, per quanto concerne l'edizione standard si è rivelata davvero debole, se non addirittura un vero e proprio passo falso da parte della band, anche perchè non era assolutamente paragonabile a un capolavoro come Thick As A Brick; infatti, non ho mai capito per quale motivo i Tull abbiano deciso di registrare un album in quel modo. Poi però, quando ho acquistato la deluxe re-release del disco, ovvero la Too Old To Rock'n'Roll: Too Young To Die! (The TV Special Edition), uscita nel 2015, ascoltando (e guardando) tutto il materiale audio e video incluso in quel deluxe repackage (ovvero 2 CD e 2 DVD), mi sono subito reso conto che la versione riregistrata per il London Weekend TV Special è la versione definitiva del disco, mentre la versione standard era una sorta di 'demo' o/e di 'promo'. È stata poi la volta della cosiddetta Trilogia Folk, ovvero: Songs From The Wood (1977), Heavy Horses (1978) [entrambi dischi spettacolari) e Stormwatch (1979), l'album meno folk dei tre, il più vicino a degli stilemi vicini al buon rock progressivo e con molta probabilità il più debole in tutta la loro lunga discografia. Dopodichè, mi sono dedicato all'ascolto degli album anni 80, iniziando dal disco che è considerato l'album più bello degli anni Ottanta, ovvero The Broadsword And The Beast (1982), che è poi diventato il mio terzo album preferito. Tra l'altro, del disco appena citato, che è assolutamente spettacolare (basti citare le canzoni: Fallen On Hard Times, Slow Marching Band, Clasp e Beastie), noi appassionati ascoltatori e 'cultori' dei Tull stiamo aspettando con ansia la deluxe re-release, la cui uscita dovrebbe essere prevista per marzo 2023 e dovrebbe chiamarsi The Broadsword And The Others, vista l'enorme quantità di bonus tracks, di canzoni inedite, di early versions, e così via.

Ed ecco che si rende indispensabile un'aggiunta importante. Poco più di un mese fa, è uscita l'edizione deluxe dell'album The Broadsword And The Beast (1982). Noi appassionati cultori dei Jethro Tull la aspettzvsmo con impazienza: si tratta di The Broadsword And The Beast (The 40th Anniversary 'Monster' Edition). Si tratta di un boxset piuttosto corposo, anche perché include ben 5 (!!) CD e 3 DVD. Già Stormwatch (The 40th Anniversary 'Force 10' Edition) andavq un po' oltre, dato che includeva 4 CD e 2 DVD, ma nel caso di The Broadsword And The Beast, favoloso disco anni Ottanta (il secondo disco più bello degli anni Ottanta subito dopo A), i Tull si sono spinti davvero oltre, regalando a noi appassionati cultori del loro sound unico ed irripetibile, un bel po' di buona musica con cui soddisfare la nostra insaziabile curiosità.

Successivamente, è venuto il momento di A, disco che era nato come album solista di Ian Anderson e che poi, a causa di pressioni della casa discografica, è diventato un altro disco dei Jethro Tull. Poi, ho acquistato (e 'studiato' come si deve) i primi album dei Tull: devo dire che in questo caso mi ha davvero stupito Benefit (1970), album di transizione che cerca di staccarsi definitivamente dalle sonorità blues; si tratta di un disco davvero spettacolare che è reso stellare dalle due deluxe re-releases, compresa la Benefit (A Collector's Edition), uscita nel 2013 (l'altra deluxe re-release, ovvero la Benefit (The 50th Anniversary Enhanced Edition), è uscita nel 2021).

Non ho citato gli altri dischi dei Tull, ovvero Warchild ([la grafia corretta è questa] - 1974), Under Wraps (1983) [uscito insieme a Walk Into Light, primo disco da solista di Ian Anderson [realizzato col tastierista italo scozzese Peter John Vettese, che aveva già suonato nell'album dei Tull The Broadsword And The Beast e che suonerà nell'album Crest Of A Knave (1987), disco assolutamente pessimo, assolutamente sconsigliatissimo) e che si dimostrerà l'album più difficile da eseguire dal vivo, soprattutto perchè, durante quel tour, Ian Anderson inizierà ad avere seri problemi con la sua voce che lo porteranno a perdere definitivamente quella voce straordinaria che lo aveva accompagnato da This Was (1968) in poi; lo stesso Crest Of A Knave, di cui ho già detto cosa ne penso, Rock Island (1989), Roots To Branches (1995) [ultimo disco dei Tull registrato per la Chrysalis Records] e J-Tull Dot Com (1999), pubblicato quando la band era sotto contratto con la Roadrunner Records. Fa eccezione Catfish Rising (1991), disco in cui, nonostante la mancanza della splendida voce dello storico cantante della band, si apprezza un ottimo blues rock.

Un'altra mastodontica eccezione è A Passion Play (1973), esempio della straordinaria maestria artistica di Ian Anderson. In questo disco, che 'entra' dopo tutta una lunga serie di ascolti successivi, si ascolta una lunga serie di brevi suite che vanno a comporre un vero e proprio capolavoro che risulta essere un disco molto controverso; tra l'altro, questo è un album che deve 'entrare', in quanto non è un disco immediato.

Una volta collezionata tutta la discografia, ho iniziato a collezionare i deluxe repackages di quegli album. Ho iniziato con Thick As A Brick (CD And Audio DVD Special Collector's Edition), re-release del mio album preferito in assoluto uscita in occasione del quarantesimo anniversario dell'uscita del disco; per poi proseguire con A Passion Play (An Extended Performance), per poi dedicarmi a re-releases più corpose: Stand Up (The Elevated Edition), Benefit (The 50th Anniversary Enhanced Edition), Benefit (A Collector's Edition), Too Old To Rock'n'Roll: Too Young To Die! (The TV Special Edition), Songs From The Wood (40th Anniversary Edition 'The Country Set'), Heavy Horses (New Shoes Edition), Stormwatch (The 40th Anniversary 'Force 10' Edition), A ('A La Mode' - The 40th Anniversary Edition), e la già citata The Broadsword And The Beast (The 40th Anniversary 'Monster' Edition).

Va detto che nel 1995, in occasione del venticinquesimo anniversario dell'album Thick As A Brick, è uscito Thick As A Brick (Late Extra), ovvero una versione expanded and remastered del disco, in quanto, oltre all'album, contiene anche una versione live (registrata al Madison Square Garden, nel contesto del concerto tenutosi nel 1978) e un'intervista a Martin Barre e Jeffrey Hammond.

Per quanto concerne la formazione di questa band, va detto che, nel corso della loro storia, i Tull hanno spesso cambiato formazione. Nel primo disco, la formazione è: Ian Anderson (voce, flauto, chitarra acustica), Mick Abrahams (chitarra elettrica), Glenn Cornick ([R.I.P.!] - basso), Clive Bunker (batteria). Invece, da Stand Up a Benefit (1970), la formazione è quella che vedete nella foto che accompagna questo editoriale; da sinistra, in senso orario: Ian Anderson, Martin Barre (chitarra elettrica), Clive Bunker, Glenn Cornick. Nell'album Aqualung (1971), invece, La formazione cambia e vede: al basso Jeffrey Hammond (che rimarrà nella band fino all'album Minstrel In The Gallery (1975), per poi abbandonare il gruppo per dedicarsi alla pittura, la sua passione più grande), alle tastiere, John Evans (accreditato come John Evan). Dal disco successivo, ovvero Thick As A Brick (1972), la formazione si stabilizza e vede l'entrata in pianta stabile di un secondo tastierista: David (ora Dee) Palmer e del batterista Barriemore Barlow.

Successivamente, da Too Old To Rock'n'Roll: Too Young To Die! (1976) fino a Stormwatch (1979) la formazione vede, al basso, John Glascock.(R.I.P.!). Con l'album A (1980), la formazione cambia radicalmente, in quanto, accanto a Ian Anderson e a Martin Barre - gli unici due membri fissi della formazione - ci sono Mark Craney (R.I.P.! - batteria), Dave Pegg (basso) e, come guest musician,, Eddie Jobson (tastiere e violino elettrico). Dopodiché la formazione cambierà ancora e affronterà quello che, almeno per me, è l'ultimo grande album dei Tull, ovvero The Broadsword And The Beast (1982): qui le new entry sono due: il già citato tastierista italo scozzese Peter-John Vettese e il batterista Gerry Conway.

Nei dischi successivi, poi, ci saranno diversi cambiamenti di formazione, senza però intaccare gli unici due membri fissi, fino a culminare nell'album The Zealot Gene (2022), buon disco acustico: si tratta del disco che i Jethro Tull registrano senza Martin Barre, e questo è un po' come un ritorno alle origini, in quanto, nel disco di debutto dei Tull il chitarrista era Mick Abrahams (Martin Barre, infatti, ha suonato nei Tull da Stand Up fino al Xmas Album).

C'è un ultimo capitolo da trattare a proposito dei Jethro Tull: le canzoni. ne hanno incise davvero tantissime, tutte di qualità altissima; la maggior parte sono incluse nei 21 album della band, altre, purtroppo!, sono solo bonus tracks, e altre ancora sono rimaste inedite. La mia canzone preferita in assoluto è Inside, brano davvero fantastica, con accenti folk; ma me ne piacciono anche tantissime altre: Alive And Well And Living In (pezzone incredibile, tra l'altro), Sossity: You're A Woman, Nothing To Say, Witch's Promise, e tantissime altre.

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editoriale di Ilovemusic

Perché si parla sempre meno della vera cultura musicale (e non)? Perché ci troviamo a vivere in un mondo che ne ha schifo e terrore; e dunque ci troviamo ad avere a che fare con la stragrande maggioranza della gente che quando dici che ti piace un genere, mentre un altro non è di tuo gusto si sentono offesi e ti chiedono di spiegare il perchè di tutto questo, dimenticando che i gusti musicali (e non) sono assolutamente personali e non vanno assolutamente messi in discussione. E quindi vediamo rifiutare con terrore tutte le espressioni culturali facendole passare come qualcosa di cui ridere e prendersi gioco, parlandone in modo molto superficiale e con troppo pressapochismo, rendendo molto difficile il rendersi conto che l'industria discografica ci vive su questo 'bug', per prendere in prestito un termine informatico, sfornando artisti che danno una falsa immagine di sé, facendosi vedere falsamente fighi, ma se si va ad analizzare i testi, si ha a che fare con una persona che cerca di sdoganare i testi che parlano di femminicidio, di violenza sulle donne, delle donne che vengono viste come dei meri oggetti sessuali per soddisfare il desiderio sessuale dell'uomo e non - come invece dovrebbe essere - come delle persone e degli esseri umani come tutti quanti noi e che, in molti casi esaltano la mafia e le Brigate Rosse.

Il terrore e lo schifo per la cultura lo si nota anche nella scomparsa progressiva ma inesorabile del gusto di prendersi la briga non solo di ascoltare un buon disco del buon rock progressivo (quali, ad esempio, Heavy Horses dei Jethro Tull e Mirage dei Camel, in cui spicca la spettacolare suite Lady Fantasy e la canzone Freefall, brano assolutamente spettacolare), ma anche di fermarsi a leggere il libretto che accompagna il CD (o il vinile), o il libretto di una delle re-release di uno qualsiasi degli album dei Jethro Tull (o di qualsiasi altra band), per cui non si potrà mai capire perchè Steven Wilson perchè ha fatto quelle scelte nel rimissaggio dei brani e non altre, perché Ian Anderson ha scritto ad es., quella canzone assolutamente spettacolare che è Taxi Grab, o per quale motivo Ian Anderson ha scritto Big Riff And Mando. Per questo la televisione, in questi anni, ci parla solo dei 'cantanti' moderni o/e di meteore. Inoltre - ed è questa la cosa più grave- si è perso il gusto di approfondire le cose, e ci si ferma al 'si è sempre fatto così': questo denota una grande paura di arricchirsi e di farsi una cultura a proposito di una qualsiasi disciplina dello scibile umano. Ad esempio - basandomi sulla mia lunga esperienza di pianista classico - posso dire che invece di approfondire e portare a maturità un'esecuzione, ci si accontenta delle esecuzioni scolastiche; per cui. non mi stupisce il fatto che chi inizia a suonare dopo un anno o due smette, dando magari la colpa alla mancanza del fantomatico 'talento', cosa che non esiste, perchè il cosiddetto 'talento' va costruito e indirizzato dagli insegnanti di strumento e non sventolato da tutti come un concetto assoluto su cui basarsi per lanciare uno strumentista, per poi rendersi conto che poi, quello stesso strumentista si è limitato ad uno studio molto superficiale, fatto non prestando attenzione a tutte le sezioni di quei brani. Inoltre, ça va sans dire, pochi sanno vedere i dischii delle grandi band per quello che realmente sono: basti ad es. citare due album: Tales From Topographic Oceans degli Yes e Songs From The Wood dei mitici Jethro Tull. In entrambi i casi, se si ha la pazienza di mettersi lì ed ascoltare con attenzione, si tratta di due concept albums che portano l'ascoltatore a viaggiare da seduti: quello degli Yes è un gigantesco viaggio nella spiritualità e nel misticismo, mentre l'album dei Tull è un viaggio straordinario nei miti e nelle leggende inglesi; basti pensare a Jack-In-The-Green, canzone acustica davvero spettacolare che parla di un personaggio della mitologia inglese che, durante l'inverno, si prende cura di tutto ciò che cresce: alberi, erba, mele, piante, e quant'altro. Posso citare anche Pibroch (Cap In Hand), canzone davvero stellare che parla di un uomo che torna a casa e scopre che sua moglie l'ha tradito (o si è risposata).

Questo grande schifo e terrore per la cultura, si nota nel fatto che pochissime persone leggono e approfondiscono i grandi super classici del teatro: Racine, Corneille, Garcia Lorca, e così via, ma soprattutto Molière, Ibsen e Čechov

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editoriale di  Jimmie Dimmick

Ciao amici e amiche, che fate? Parliamo un po’ dei fascisti al governo?
Se mo fascisti!

Vabbè quelli che c’hanno la fiamma nel simbolo e pensano che il 25 aprile sia divisivo. Ok.

Anzi, meglio, parliamo proprio della Meloni. Il nostro nuovo presidente. Anche tuo. Ma non solo tuo, anche suo, suo e suo. Ma non era una donna? Si ma vuole che la si chiami il presidente. O lo si chiami? Boh.

Che già questa se ci pensi è una cosa piuttosto progressista, lei si identifica con un pronome maschile, mo che glie vuoi dì? Se io domani mi sveglio e dico che dovete darmi del loro va bene, facciamoci un corteo, se questa ci piace farsi chiamare il presidente no? Eh ma sei poco inclusivo così.

‘Sta donna a me inquieta. Non sono tanto le cose che dice, è come le dice. Pare proprio che ci creda.

Quando hanno filmato gli appunti di Berlusconi contenenti un elenco di difetti che rendevano la Meloni (o il Meloni?) un soggetto con cui è impossibile trattare, lei ha risposto “se n’è dimenticato uno: sono incorruttibile”.

BOOOM!

L’avesse detto uno del PD una settimana di elogi su Repubblica, gente che si masturba in diretta a Linea Notte, editoriale su Domani “da qui riparta la sinistra”.

Invece l’ha detto la Meloni (o i Meloni?). A me fa paura proprio questo, il fatto che lei ci creda davvero nelle idee che propone.

Cioè Salvini, basta sentirlo parlare trenta secondi, ma di più, basta guardarlo in faccia, con quella faccia da impiegato statale stanco, per capire che non glie ne frega un cazzo, lui non vuole lavorare, gli piace andare in giro a mangiare gratis, gli piace farsi i selfie e bon, fa quello che serve per campare. Ci sta. Berlusconi, inutile parlarne. Conte…vabbè dai, Conte! Uno che ha fatto un governo populista di destra, poi un governo populista di sinistra, poi Draghi. Si commenta da sè. Letta poveretto, magari ci crede pure ma non sa bene in cosa. Come (quasi) tutti quelli del PD non ha idee proprie, cerca di limitare i danni, di accontentare un po’ tutti, pauroso di sbilanciarsi, di perdere uno 0,5 al centro, uno 0,7 a sinistra, ha più o meno una generica scala di valori e cerca di attenersi ad essa. Renzi, vabbè Renzi è come Berlusconi, non serve commentare. Calenda, ecco magari Calenda ci crede pure ma ha questo grande handicap di essere Calenda, quindi è fuori categoria in quanto non professionista.

Questa no cazzo, questa pare proprio ci creda. A me 'sta roba terrorizza.

Perché può funzionare.

E’ una cosa nuova, non ci siamo abituati, è da troppo tempo che siamo belli tranquilli, comodi, coi i nostri rappresentanti politici che sono come noi, tutti amici, tutti immanicati, tutti colleghi, tutti impegnati a darci lo show che ci appassiona, quando non c’è la partita. E’ lo show business baby, ognuno ha il suo ruolo e se lo interpreta bene lo premieremo, ma in fin dei conti deve campare, tiene famiglia, come tutti noi, lo fa perché così si fa, esattamente come io faccio il mio lavoro. A ognuno il suo.

Poi è bello potersi sentire migliori di loro, è così bello, sì d’accordo anch’io faccio un po’ di nero ma signora mia 200 euro, cosa sono 200 euro in confronto ai milioni che quei bastardi si intascano?

Funziona così, è l’Italia, cambiare tutto per non cambiare nulla.

Poi arriva una che dice no mo basta, mo famo le cose sul serio. Bello no? Sì ma porca puttana tra tanti e tante che ci sono proprio una fascista? Va che la vita è strana e non finisce mai di meravigliarci.

Che poi il vero maschilismo forse s’annida nel chiamarla la Meloni, con l’articolo.

Renzi, Draghi, Calenda, Berlusconi, la Meloni.

La Boldrin. La Carfagna. La Gelmini.

Però anche La Russa.

E tipo Rosi Bindi non è quasi mai la Bindi, è Rosi Bindi.

Mah, non lo so, sarebbe da ragionarci. Io ho l’attenuante che sono di Milano e da noi l’articolo davanti al nome o al cognome a volte si mette. Ma è un po’ una scusa del cazzo, perché è una roba che facevano i miei nonni tra noi giovani non si usa più mica tanto.

Insomma mo proprio non saprei come chiudere se non con un sincero e appassionato invito a Meloni: si renda corruttibile. Si corrompa, s’immischi, faccia come i Cinque Stelle, faccia come Di Maio. Si omologhi. La vita diventa nettamente più semplice, si fidi.

Magari poi sbaglio e la tipa alla sera mette su l’Internazionale, piange, sospira “che me tocca fa pe’ campà” e si guarda Caro Diario.

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editoriale di iside

"Ci sono uomini che toccano il denaro come fosse energia" ( cit. Fausto Rossi Blues)

A nord di Brescia c'é un paesino che si chiama Nave. Dopo la seconda guerra mondiale, a Nave si inizia a produrre tondino, il cavo di acciaio che si mette nel cemento armato. Siamo nel periodo della ricostruzione, e il 70% del tondino nazionale viene prodotto qui, nelle ferriere di Nave e dintorni. Il margine di profitto è spaventoso, e i padroni di queste zone sono abituati a trattare gli operai come garzoni di bottega: li pagano una miseria, trattengono gli stipendi in caso di fluttuazioni economiche, chiedono straordinari che portano gli operai a lavorare anche 11 ore di seguito senza cambi turno. Si registrano i più alti tassi di incidenti sul lavoro della provincia, soprattutto in trafileria: il tondino viene piegato a mano e infilato con la forza delle braccia nel laminatoio, talvolta scappa dalle mani, e l'operaio ne viene tranciato.

I padroni riescono a mantenere per 15 anni questo stato di cose grazie ad una relazione diretta, individuale e paternalista coi propri operai: li invitano a bere a turno finito e gli forniscono prestiti per comprarsi l'automobile, così anche loro possono godere del miracolo economico.

Poi sono finite le braccia e c'é domanda di forza lavoro, allora arrivano i meridionali: a loro il padrone la macchina non gliela compra, li paga la metà, così poco che sono costretti a dormire a turni in baracche. Troppo poco, e allora succede che si incrina, per la prima volta, lo strapotere padronale: i terroni hanno l'ardire di chiedere un aumento, e per favore se gli straordinari ce li puoi mettere in busta paga. Il primo operaio che lo chiede, viene spedito a scavare una buca nel cortile della fabbrica. Quando ha scavato così tanto che non lo si vede più, il padrone gli urla di ri-riempirla. Non somiglia più tanto al babbo bonario di prima. È il 1970. Si organizza il primo sciopero, la FIOM entra, in ritardo di anni rispetto al resto della provincia, per la prima volta nelle fabbriche di Nave. Comini, il padrone, risponde con la serrata. Si contratta, la FIOM riesce a farsi riconoscere tutte le sue richieste (praticamente solo salariali, mentre nel resto delle fabbriche della provincia si avanzavano richieste sulla qualità e sul tempo di lavoro), ma il padrone non le rispetta. Secondo sciopero, seconda serrata di una lunga serie di scioperi e serrate. Si resta di nuovo tutti per mesi senza stipendio, e si campa con le raccolte fondi delle industrie della città, da cui arrivano anche i rinforzi per i picchetti. Anche Confindustria Brescia inizia a guardare a Nave, alla sua gestione del "problema rosso" a suon di serrate e violazioni di accordi sindacali. Tosto sto Comini! Gli iniziano a dare ruoli sempre più prestigiosi per la borghesia industriale: ad un certo punto lo fanno presidente del Brescia calcio.

Ma ad un certo punto nemmeno le serrate funzionano più, e dopo le serrate, si iniziano a chiamare i fascisti.

Comini e altri industriali della zona organizzano una cena con Almirante e gli pagano la campagna elettorale nelle circoscrizioni bresciane, si circonda di mazzieri della Cisnal, le aggressioni si moltiplicano. Alcune figure politiche cittadine chiedono esplicitamente a Confindustria nazionale di dissociarsi dalla gestione sanguinaria di Comini. Confindustria nazionale non risponde, anche loro guardano con interesse a questo modello di gestione dell'ordine in fabbrica.

È il 1973, ormai è chiaro che le battaglie di Nave non sono più scaramucce sindacali di una periferia di provincia arretrata e dimenticata da dio: hanno una rilevanza simbolica nazionale. Quando si sciopera a Nave, si sciopera anche in città.

Per i fascisti non basta più solo pestare: iniziano a mettere bombe, prima alla sede del PSI, poi davanti alla CISL, poi salta per aria Silvio Ferrari, diciannovenne militante in Ordine Nuovo, mentre trasporta esplosivo con la sua vespa.

Quando viene lanciata una manifestazione antifascista a Piazza Loggia per la mattina del 28 maggio 1974, è tutto questo che i compagni e le compagne vanno a denunciare con la loro presenza fisica in piazza: non una generica denuncia contro il fascismo, non una protesta contro la violenza e per la libertà di parola. Vanno in piazza specificatamente contro il fascismo come strumento della violenza padronale, che vuole ridurre a braccia obbedienti degli esseri umani e massacra chi chiede una vita degna, la solidarietà di Confindustria, il silenzio complice dello stato.

Tutto questo è stato ridotto nelle narrazioni sulla strage a formule come: apparati dello stato collusi, servizi segreti deviati, terrorismo nero, anni di piombo, quando va bene. Quando va male, tipo quest'anno, sale sul palco (telematico) a parlare il figlio di Bachelet, perché quegli anni sono stati proprio brutti brutti e fortuna che son finiti.

No. Non si spiega una bomba a Brescia così. Brescia non è Bologna, non è Milano, sarebbe un buco di culo se non fosse per le sue industrie. La storia della Strage di Piazza Loggia inizia lì dentro, ed è una storia di lotta di classe.

Clara Zecchini

28 maggio 2020

PS qua una notiziola per farvi capire come sono bravi certi imprenditori italiani... correva l'anno 1985. https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1985/10/19/contatori-truccati-brescia-per-rubare-energia-elettrica.html

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editoriale di Dislocation

Ci hanno prosciugato i dotti lacrimali, disseccati.
Ci hanno promesso una giustizia, non una qualsiasi.
Ci hanno abbeverati alla fonte della pietà.
Ci hanno fatto inorridire di noi stessi, quando abbiamo desiderato la pena di morte per i miliardari dei tessuti e del pedaggio e per i loro disgustosi scagnozzi alla ricerca della soddisfazione dei pescecani del surplus.
Ci hanno costretto, in quattro anni, a cambiare strada od a girarci dall'altra parte quando passavamo davanti ai monconi del ponte crollato od anche al nuovo ponte rifatto.
Ci hanno portato ad alzare a manetta il volume dell'autoradio quando passavamo sul nuovo ponte, lucido come uno specchio, freddo come un cancro.
Ci hanno persino fatto guardare con disprezzo gli operai al lavoro nei cantieri autostradali, sotto la pioggia o sotto il sole a 35 gradi di temperatura.

Ieri, un vecchio compagno, cancelliere in tribunale, prossimo alla pensione, davanti a fugassa e vin giancu, mi ha detto che i magistrati che hanno iniziato il processo "Morandi" hanno gli occhi spiritati, che raramente, in quarant'anni a Palazzo di Giustizia, ha visto dei giudici con lo sguardo fermo e deciso come il loro. "Darebbero tutte e due le braccia per non finire negli stralci, nelle derubricazioni o, peggio che mai, ad una scadenza di termini.... Mi accendono una debolissima speranza nella giustizia, e tu sai dove e da quanto lavoro io..."

Oggi tanta gente si accalca sotto al nuovo ponte, in quello spazio informe ed anonimo, risicato e rosicchiato, all'incrocio della Certosa, ad ascoltare gli infami senza dignità che sul crollo di quel tumore malcurato ci hanno costruito fortune politiche, il Gatto e la Volpe dell'agone politico genovese, cementatori presenzialisti e rotti a qualunque compromesso in nome di carriere tanto anonime quanto qualunquisticamente indegne, a sentire il vescovo e l'imam, due brave persone, due uomini buoni, ma due preti, insomma.
Tutti gli astanti si proteggono dal sole con ombrellini bianchi, tutti uguali, forniti dagli organizzatori, sembra una sfilata di moda di quart'ordine.


E poi i parenti, i parenti di quarantatré nessuno qualunque, colpevoli solo di aver preso un'autostrada per andare in vacanza od a lavorare, i parenti delle vittime, capitanati da una smunta signora consumata dal dolore, che ha sempre dignitosamente resistito all'usura del pianto e dell'Assenza, delle promesse e delle garanzie, orgogliosa e severa, col sorriso triste di un Don Chisciotte che ripensa a quant'erano grossi i Mulini A Vento, ed intanto parla ai convenuti senza guardare in faccia né politici né preti, parla di contratti di concessione che non avrebbe firmato un bambino dell'asilo, di disillusione, di speranza nel rispetto per le vittime e per il dolore dei congiunti.

E poi, tra le lacrime, cita una frase sentita da un parente di una vittima della strage di Bologna: "A forza di osservare minuti di silenzio sono passati anni di vergogna"

E poi musica ed applausi, la violoncellista che non strazia nessun animo, col cameraman della tivù locale di Cavalier Serventi che, per un attimo, nella noia che lo pervade, inquadra meglio i presenti, seduti, con gli ombrellini bianchi aperti, che occupano si e no due terzi dei posti a sedere disponibili.

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editoriale di Stanlio

Questo vuol esser solo un vano sfogo poiché oggi m'han bloccato nuovamente l'account, i miei due gruppi e altre due pagine, grazie ad uno o più intelligenti i censori feisbukiani che solo con l'ausilio di una lente d'ingrandimento devono esser riusciti a scovare un capezzolo femminile in ombra che nemmeno un'aquila vedrebbe ad occhio nudo, tra l'altro l'immagine era stata già pubblicata su fb in giugno e nello stesso giorno l'avevo riproposta e niente, anzi no siccome non voglio bestemmiare a ripetizione aggiungo solamente un bel No Commenti.

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editoriale di rallocj

In questo breve inserto vorrei omaggiare uno degli utenti nei quali prima o poi tutti noi ci siamo imbattuti leggendo recensioni, leggendo commenti, sia che noi siamo storici depersonaggi, sia tutto sommato novizi di questo splendido sito.

VIVA Lì, POLETTI... ecco alcuni dei nomi di questo pittoresco personaggio grande fruitore culturale di musica e soprattutto di cinema, sedicente professorone con una spocchia così grande da far dimenticare gente come Carmelo Bene. Poletti, tu con tutti i tuoi 64546 profili, leggenda di questo sito, hai il record incredibile di menzioni e di attriti simpatici e dilettevoli tra gli scritti di queste pagine. Sei il sale di questa piattaforma, una sorta di collante a cui immagino tutti gli storici si sentano in qualche maniera affezionati. E pure io, che sono qui relativamente da pochissimo, a forza di leggere le tue recensioni e i tuoi commenti saccenti mi sono affezionato alla maschera che hai portato dai primi anni di fondazione del sito.

Ti voglio bene anche perché hai recensito più volte il mio artista italiano preferito, ennesima causa di disapprovazione della degente nei tuoi confronti. Quando da non iscritto passavo qualche momento della giornata a leggere voi tutti trovavo i tuoi interventi, Polo, piccanti, a volte davvero divertenti per il loro abominevole tentativo di dire la verità assoluta. Qualche volta mi trovavano d'accordo, altre volte meno, in certe occasioni erano davvero fastidiosi. Ma questo stesso fastidio mi ha spinto ad iscrivermi a questo unico universo di mattatori.

Quindi, POLO, non so ora dove tu sia, da quanto tempo non bazzichi più qua tra noi, ma sappi se leggerai questo scritto che ti voglio bene tanto da avere dedicato un editoriale solo ed esclusivamente per te. E come direbbe IlConte, SAVASANDIR!

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editoriale di splinter

Premessa: so che questo articolo potrebbe apparire estremamente cinico e agghiacciante, che potrebbe anche urtare la sensibilità di qualcuno, in realtà non lo è affatto perché non fa altro che delineare una nuda e cruda verità sull’essere umano; è un invito a riflettere e a rivedere alcuni aspetti della nostra psicologia.

La pandemia di Covid-19 ha infatti messo in luce più che mai una verità assolutamente scomoda, non nuova ma mai troppo sbandierata fino ad ora: l’uomo non sa accettare la morte e la malattia, non sa convivere pacificamente con la loro natura.

Siamo tutti d’accordo, morire non è bello, anzi è bruttissimo, quindi ben venga la prudenza, le cure, i vaccini, la vita sana, la limitazione dei rischi e tutto ciò che può ritardarla il più possibile… Però è una cosa naturalissima, una delle cose forse più naturali del mondo, la fine ovvia di un ciclo vitale. Invece viene vissuta come una tragedia, come un fatto gravissimo, tanto grave da arrivare a condizionare le scelte umane, a costituire un freno alle azioni e a prendere decisioni drastiche e spesso esagerate.

Ricordo ancora quando morì Giovanni Paolo II, ma anche i giorni immediatamente precedenti. A parte che da ateo e antireligioso mi verrebbe da dire “ma chi cazzo sarà mai il Papa?”, ricordo comunque come tutto fu fermato, trasmissioni televisive, persino i campionati di calcio, così come ampie porzioni di stampa dedicate all’agonia del Pontefice… che non era ancora morto, solo tremendamente sofferente. Ricordo poi come il funerale paralizzò l’intero palinsesto, tutte le emittenti televisive collegate col Vaticano, persino MTV che di solito si fermava massimo 5 minuti per il notiziario. Mi viene da domandarmi… In un mondo più consapevole della mortalità e della fragilità umana verrebbe mai interrotta la vita e verrebbe mai fermato il calcio e il palinsesto televisivo solo perché il capo di una confessione religiosa che non interessa necessariamente a tutti sta morendo perché ormai vecchio e malato?

Ho visto poi un simile copione ripetersi in occasione dell’agonia di Nelson Mandela. Clima di apprensione generale e manifestazioni disperate, preghiere con invito a restare in vita ancora a lungo, tutte manifestazioni che sembravano delineare il profilo di un’umanità che non voleva proprio accettare che un uomo di 95 anni ormai malato si stesse spegnendo.

Il top della non accettazione della morte però lo raggiungiamo con i casi di finte vite prolungate all’infinito. Da Eluana Englaro a Welby fino a Dj Fabo, persone la cui vita si era ridotta all’impossibilità di fare qualsiasi cosa, una non vita che loro stessi erano volenterosi di interrompere… e invece no, la si voleva portare avanti anche quando non aveva più nulla da dire, quando non era vita; non si vuole accettare la morte nemmeno quando questa è già cosa concreta, si preferisce una non vita sofferta a una dolce morte, la morte è così un tabù che piuttosto che incontrarla meglio triplicare le sofferenze.

Ed è un tabù anche solo parlarne o accennarla. Attingendo dalle esperienze personali ricordo quando da piccolo si giocava al gioco dell’impiccato o degli anagrammi e venivo fortemente stigmatizzato quando facevo indovinare ai parenti parole come “ambulanza” o “ospedale” (“dai, non sempre parole brutte” dicevano); come se ai bambini si volesse nascondere la triste verità, come se ai bambini si dovesse dire che tutto è bello, che le cose brutte non esistono, poco importa se poi cresceranno in un mare di illusioni e non sapranno digerire le sconfitte della vita.

Ma veniamo ad oggi. In definitiva però la pandemia di Covid-19 è un lampante esempio di non accettazione della morte e addirittura semplicemente delle malattie, e a mio avviso è la sola cosa che nel lungo periodo ci impedirà di dichiarare finita l’emergenza. Finché non disponevamo dei vaccini l’emergenza aveva senz’altro senso, avevano senso le mascherine, aveva senso il distanziamento, il non incontrarsi se non necessario, aveva senso il lockdown ferreo. Perché si era tutti in una situazione di grave rischio, di rischio inaccettabile, una situazione in cui facevi un passo sbagliato o di troppo ed eri morto; una marea di gente che stava bene ed improvvisamente si ritrovava con un tubo in gola solo per essere stata a cena con gli amici o a sciare, come se ogni attività sociale fosse improvvisamente diventata uno sport estremo; e succedeva a tante persone in breve tempo, tanti personaggi famosi ricoverati nel giro di pochi mesi non si erano mai visti.

Poi sono arrivati i vaccini che hanno reso la malattia sostanzialmente leggera, col tempo lo stesso virus è diventato più leggero seppur molto più contagioso, non si sente praticamente più notizia di un personaggio famoso che viene ricoverato per Covid, abbiamo visto poi ammalarsi un sacco di amici e parenti ma è stata per tutti un’influenza o poco più, il ricovero o peggio la morte è ora una fatalità che riguarda fondamentalmente le persone più fragili. Eppure nonostante tutto il Covid continua a venirci presentato come se fosse la peste, reclamando prudenza come se ancora si rischiasse la morte sul colpo, menandola ancora con mascherine e distanziamento, mostrando timore nel rimuovere restrizioni draconiane ormai non più commisurate al rischio... anche se siamo vaccinati.

Ancora oggi sentiamo ai telegiornali titoloni allarmanti del tipo “oggi superati 100.000 contagi, aumenta il tasso di positività, aumentano i ricoveri, più di 100 i morti”, “tragediaaaaa” aggiungerei io, arriva poi il virologo di turno che fa la sua solita retorica sulle mascherine, sul distanziamento, sulla presunta pericolosità dei grandi eventi; mai una volta che vengano sottolineati gli aspetti positivi, tipo che una buona fetta di accessi in ospedale non avvengono per Covid ma i pazienti scoprono di averlo dopo il tampone (scorporarli dal computo totale no eh?), che i ricoveri per Covid riguardano in gran parte persone già dotate di fragilità pregressa e/o particolarmente anziane, che una fetta di persone ricoverate non erano vaccinate (e qui direi “chi è causa del suo mal pianga se stesso”), e che in ogni caso i numeri sono molto lontani da quelli delle ondate pre-vaccinali. Come se non bastasse ogni caso di positività di un personaggio della televisione, della politica o dello spettacolo viene spiattellato con un altro titolone ad effetto “Tizio è positivo al Covid”, “Caio è positivo al Covid”, poco importa se questi è vaccinato con tre dosi e pertanto ha i sintomi di un raffreddore o l’ha scoperto per caso in uno screening, per i giornali è un fatto grave e clamoroso come se avesse contratto la peste. In alcuni casi lo stesso contagiato ne approfitta per fare retorica insopportabile, da Lilli Gruber che si mette ad elencare tutti i sintomi e dice di essersi pentita di alcuni comportamenti spavaldi (gli abbracci) manco si fosse buttata da un ponte fino alla concorrente di Amici che raccomanda le mascherine. Poi c’è Selvaggia Lucarelli che attribuisce i morti alla mancanza di buonsenso e viene raggiunta da trafile di commenti di persone che raccontano di essere state malissimo nonostante le tre dosi di vaccino, come se le influenze nelle passate stagioni fossero delle passeggiate di salute…

Una modalità di comunicazione che non può che riflettersi sui comportamenti del popolo. All’abolizione dell’obbligo di mascherine ancora più di metà di chi entrava all’Esselunga dalle mie parti la indossava, ma anche sui social trovi una mega-trafila di persone che dicono “continuerò ad indossarla".

Il messaggio che con questa comunicazione può passare è: “Cosa l’abbiamo fatto a fare il vaccino se poi devo comportarmi ugualmente come un appestato? Io speravo che dopo il vaccino mi sarei sentito sicuro, non più a rischio”, un messaggio che può contribuire a creare una nuova e fitta schiera di ipocondriaci; ma è anche un messaggio che può addirittura diventare un boomerang e risultare potenzialmente pericoloso e in grado di nutrire la già sostenuta schiera no-vax: “Cosa vi siete vaccinati a fare che tanto vi state tutti ammalando e morendo lo stesso?” (senza nemmeno saper interpretare e confrontare i numeri)…

Quello che poi ho notato è che al verificarsi di un aumento significativo dei contagi e dei morti l’apparato politico-sanitario tende a scaricare le colpe in maniera generale e non mirata, così che anche il popolo più civile ed educato - quello che si è regolarmente vaccinato e nelle fase più acute della pandemia (quelle precedenti al vaccino) ha rigorosamente rispettato le regole - finisce alla gogna solo per il fatto di essere tornato meritatamente alla normalità: se muoiono le persone fragili o non vaccinate la colpa è automaticamente di chi è andato a vedere Vasco o il Palio di Siena; anche le varie misure intraprese nella fase post-vaccinale sono sempre state generalizzate quando potevano benissimo essere mirate: anche dove l’ingresso era consentito con green pass rafforzato… ingresso contingentato, mascherine e distanziamento sebbene praticamente nessuno rischiasse davvero la polmonite interstiziale. Inutile dire che questa tendenza a scaricare le colpe sulla popolazione è un modo per nascondere le proprie mancanze nella gestione della pandemia: voi che rompete le balle ai vaccinati solo perché gli ospedali vanno ancora sotto pressione (cosa che tra l’altro avveniva anche durante i picchi influenzali negli anni passati ma la cosa faceva meno notizia) cosa avete fatto per aumentare i posti letto ed il personale? Cosa avete fatto per evitare le eccessive code al pronto soccorso? Cosa avete fatto per somministrare gli antivirali ai più fragili (evitando un sacco di ricoveri) ora che sono disponibili? Cosa avete fatto per proteggere i più fragili ed anziani (dato che attualmente la pandemia vera e propria è la loro)? Cosa avete fatto per alleggerire il lavoro dei medici di base? E perché non avete avuto il coraggio di introdurre a livello generalizzato l’obbligo vaccinale (dato che la quarta ondata è stata fondamentalmente quella dei no-vax)?

Tuttavia la cosa più paradossale è un’altra. Ho appena detto che non si riesce ad accettare la morte… ma in questo strano periodo storico sembra che quella per Covid-19 sia praticamente l’unica a non venire accettata facilmente, l'unica a far notizia. Ogni giorno muoiono chissà quante persone per i più svariati motivi, infarti, tumori, ictus, incidenti, diabete, ecc… ma quelli gravi, quelli da spiattellare su ogni giornale sono solo quelli di Covid. E così solo per evitare i morti di Covid si prendono misure drastiche, e per evitare tutti gli altri? Vittorio Sgarbi durante il primo lockdown evidenziò più volte come non avesse molto senso lasciare aperte le tabaccherie che ogni anno si rendono responsabili di decine di migliaia di decessi per tumore al polmone; sì, ok, l’obiettivo del lockdown era fermare la diffusione del contagio ed evitare la saturazione degli ospedali, ma dato che in ballo c’era anche il salvataggio di numerose vite permetti che è incoerente salvare la gente dal Covid e permettere il fumo di sigaretta. Fatemi capire bene, quindi esistono morti di serie A e morti di serie B? Decessi che devono tassativamente essere evitati e decessi che invece possono continuare a conteggiarsi indisturbati?

Credo comunque che dietro a questa rinata fobia della morte e della malattia ci sia dietro una ragione ben precisa: ci siamo abituati piuttosto bene. Veniamo da un secolo (facciamo meno, 60-70 anni) relativamente e sorprendentemente sano (chiaramente grazie ai progressi della medicina), con la speranza di vita in costante crescita che è arrivata a superare gli 80 anni, ma quest’ultimo periodo storico è a pensarci bene un’anomalia assoluta in centinaia di migliaia di anni di storia dell’umanità. Ci sembra scandaloso che un virus respiratorio provochi un aumento della mortalità ma ci dimentichiamo che fino a non molto tempo fa si moriva di punto in bianco di tubercolosi, di morbillo, di vaiolo, di peste. Ci siamo spaventati per 100.000 morti in più a fine anno nel 2020 ma è niente in confronto alla peste del 1630 che fece fuori circa un quarto della popolazione del Nord Italia o il vaiolo che sterminò letteralmente le popolazioni azteche nel '500. Inoltre, in aggiunta al periodo storico, ci troviamo anche in un’area geografica piuttosto sana; in Africa è quasi normalità ammalarsi o addirittura morire di malaria, HIV, tubercolosi, colera, ebola, e un'aspettativa di vita superiore agli 80 anni se la sognano, in molti paesi appena appena supera i 50 anni.

E quindi cosa dobbiamo fare per considerare conclusa questa pandemia? Chiuderci in casa a fasi alterne? Portare quelle orrende pezze sul muso che non ci permettono di guardarci in faccia e di sorriderci (oltre che di respirare decentemente) e che ci fanno sembrare degli omini stilizzati inespressivi che camminano? Vivere al 30%? No, semplicemente vivere normalmente come prima ed accettare il fatto che si è aggiunta un'altra malattia e un'altra causa di morte, limitarsi a fare i richiami vaccinali quando necessario ma accettare il fatto che qualche persona in più a letto influenzata ci sarà, che qualche persona in più in ospedale ci sarà, che qualche persona fragile o anziana in più morirà e che il conto dei decessi ogni anno sarà un po' più salato. Recuperare quella mentalità un po' più fatalista e darwiniana che abbiamo perso per strada. Anche perché ora non è più possibile sfuggirne, non possiamo più evitare quel numero di malati e di morti in più, l'unica soluzione sarebbe chiudere tutto ogni volta come la Cina, affossando l'economia e causando la morte economica e psicologica delle persone che fa forse più male di quella fisica. E in ogni caso il meccanismo darwiniano del più forte, in questo caso del più debole che non sopravviverà, ci sarà sempre, è sempre esistito in natura e anche con tutti i vaccini e le medicine del mondo non si può in alcun modo annullarlo, dobbiamo solo accettarlo.

L'unica persona che l'ha capito ha un nome e cognome: Boris Johnson. Assolutamente sciagurata l'idea di puntare sul'immunità di gregge a marzo 2020, siamo tutti d'accordo, idea perversa, irraggiungibile ed ingestibile, per fortuna subito abbandonata. Ma poi, conscio del fatto che il problema di fondo era la mancanza di un vaccino, una volta reso il vaccino disponibile ha avviato una rapida ed efficiente campagna vaccinale. Però una volta vaccinata una grossa fetta della popolazione ha saputo dire basta, non c'era più necessità di limitazioni alle abitudini della popolazione, una popolazione vaccinata è da considerarsi sicura e non deve subire più limitazioni, via così tutte le restrizioni, si punta tutto sui richiami vaccinali, partendo ovviamente dai più fragili, per il resto se c'è qualche ricovero o morto in più è normale e non si può fare molto. Col risultato che il Regno Unito non si è più trovato nella condizione di dover richiudere, quasi a dimostrazione che le restrizioni successivamente adottate dal resto d'Europa sono state dettate più dalla paura che da altro (gli stessi britannici hanno ripristinato le mascherine nei negozi nel periodo dicembre-gennaio, ma più che altro perché la paura fa 90).

Morale della favola: se impariamo ad accettare un po' di più il nostro destino la pandemia è già finita da mesi, se non lo facciamo la pandemia dura altri 10-20 anni. Ora e più che mai: MEMENTO MORI!

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editoriale di puntiniCAZpuntini

Sei uno YouTuber famoso (sì lo so che fa ridere detto cosí, ma purtroppo succede).

Fai un video dove doni 15 mila Cervi a qualche evento caritatevole. Ci metti la musichetta di Studio Aperto. La frase che acchiappa.

Su Youtibe Ci guadagni 70 mila cervi sopra, con un netto di 55 mila cervi.

Quindi il punto è

1) Minca llá, troppo buono sei llá, llá che ti stimo llà

2) Tâgâzzu beneficienza, oh Kagallony? Meglio nulla.

Dicci la tua.

La risposta "lo youtuber è una merda però alla fine la beneficenza è ok" non è valida, perché grazie al cazzo.

Choose yo side mo'fuckers.

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editoriale di JimmyFuma

(PICCOLA e RAPIDISSIMA premessa: giuro che ho scoperto solo adesso questa sezione del sito. Frequentandolo da un annetto circa, non avevo mai fatto caso alla sua esistenza: shame on me. Ma ecco, qui trovate un mio pensiero, che so già perfettamente che non troverà il consenso di quasi nessuno. Ma è una mia idea, e ne vado orgoglioso.)

Lo scritto che vi propongo è frutto di un pensiero che ho meditato e sviluppato approfonditamente nel corso degli ultimi drammatici anni, ma forse, per iniziare ad esporlo - quantomeno in parte - trovo che potrebbe essere (per alcuni) più rassicurante e semplice partire da un'esperienza di vita che ha avuto luogo proprio nel periodo recente, essendo ormai nel pieno dell'estate, tipicamente periodo di vacanze (per qualcuno, però).

Nella fattispecie, qualche giorno fa, un mio compagno di classe (ahimé, avendo solo diciotto anni, mi tocca sorbirmi la scuola) mi ha proposto di andare in vacanza al mare con lui e altri suoi amici per tre giorni. Il programma del break è sempre la solita, ripetitiva, monotona e stancante maratona che, ormai, è nota a tutti: riempirsi di alcol ogni sera, tentare di approcciare qualche ragazza, sballarsi, perdere coscienza (e, talvolta, anche conoscenza)... insomma, divertirsi. Divertirsi... divertirsi... "divertirsi". Ed è proprio da qui che sorge il maledetto ed abominevole problema di cui volevo presentarvi qualche riga, nella ristretta ma sincera speranza di riuscire, quantomeno, ad indurre alla riflessione quelle quattro persone che leggeranno ciò che sto diffondendo.

Ciò a cui mi sto riferendo, infatti, è un'idea malsana e distorta secondo cui, nella vita, si debba dedicare un importante spazio al divertimento e allo svago, dedicandosi ad una serie di attività che possano, in tal senso, accontentare questi desideri, prediligendo, in sostanza, l'ozio. Ma la questione di fondo, qui, è la seguente: il divertimento è ciò di cui ha veramente bisogno il genere umano oggi? Insomma, così tante persone sono solite lamentarsi, quasi in maniera seccata, degli innumerevoli problemi che affliggono il meraviglioso pianeta, di cui non abbiamo esitato a farne disgustosamente razzie, distruggendolo e martoriandolo (vedasi riscaldamento globale). Ma poi, all'atto pratico, questi individui, dal canto loro, non muovono minimamente alcun dito per tentare di porre rimedio a tutte le atrocità di cui si macchia ogni giorno il genere umano, limitandosi ad osservare passivamente il Mondo precipitare nell'abisso più profondo. Personalmente, trovo questo atteggiamento criminale e altezzoso, quasi come se non fosse affare nostro ciò che muove i propri passi a poca distanza da dove abbiamo gettato le basi per la nostra vita. Il fatto è che, purtroppo, siamo talmente assuefatti dal male da non renderci più conto di quando ha luogo un'ingiustizia contro qualcuno o qualcosa (vale a dire ogni secondo della nostra insulsa esistenza). Così facendo, però, perdiamo di vista quello che, secondo me, è l'obiettivo fondamentale della vita, ovvero quello di dedicare completamente sé stessi al miglioramento dell'esistenza del prossimo, chiunque esso sia, per puro amore nei suoi confronti. Invece di fare ciò, invece, la massa preferisce rintanarsi e nascondersi dietro a feste, party, serate in discoteca, bravate di ogni genere, e chi più ne ha più ne metta. Il tutto mentre la nostra stessa esistenza è a rischio, mentre povertà e disuguaglianze si estendono sempre di più, e i Paesi si fanno la guerra. Come si fa ad avere il coraggio di ignorare queste tematiche, e non provare neanche un minimo di repulsione per esse? Perché sia chiaro, è ben noto a tutti l'innumerevole quantità di disastri creati dall'uomo quotidianamente, eppure tutti preferiscono non farsene carico, come se la questione non li riguardasse affatto, come se fossero degli estranei a queste situazioni, quando, in realtà, ci siamo tutti disgustosamente dentro.

In sostanza, io gradirei che invece di comportarci da generali che assistono agli eventi in fase di svolgimento senza battere ciglio, ci mettessimo noi in prima linea, per portare finalmente quel cambiamento che desideriamo, e operare in nome della pace tutti assieme. Ogni giorno, di fronte a me, mi ritrovo persone che preferiscono spegnere il loro cervello e dedicarsi alle faccende della loro vita, come se, in un certo vergognoso senso, la ritenessero più importante di quella degli altri. Tanto per cominciare, sarebbe un bene che iniziassimo a vergognarci di come abbiamo trattato e trattiamo questo Mondo e l'esistenza altrui, ripudiando il nostro modo di agire quotidianamente, la nostra vile e orribile società e il nostro solito modo di pensare. Insomma, dovremmo ricominciare a ripudiare che siamo, e a farci tutti un profondo e lungo esame di coscienza, possibilmente condannando tutto ciò che abbiamo fatto fino ad ora. Già questa, sarebbe una prima grande dimostrazione di progresso. E fidatevi, non è poco.

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editoriale di ilfreddo

Lo zaino è fottutamente pesante: la vetta di oggi si chiama Presanella e a 3558 metri sul livello del mare il meteo può cambiare in un amen. Nonostante il clima tropicale ho portato oltre al telo termico e kit di emergenza, picozza, ramponi, scarpe da trekking, casco e scarponi pesanti. Parto da casa alle 3.30 del mattino con il paese che dorme silenzioso. I primi due passi li faccio alle 5 quando la fioca luce che precede l'alba prende pian piano vigore, gli ultimi alle 16 con i piedi che fumano e trovano ristoro nelle fresche acque del Sarca. La Val di Genova è meravigliosamente selvaggia ed intonsa. E' nei pressi delle Cascate del Nardis che parte questa traccia amena che pochissimi percorrono, vuoi per il dislivello impressionante, vuoi per l'assenza di rifugi o malghe. Il solo bivacco Berti posto a 2.200 viene utlizzato per quei pochi che decidono di intraprendere l'escursione in due giornate. Mi piace venire in questo posto una volta l'anno e mentre prendo quota penso che sarebbe emozionante vedere un capriolo, un camoscio o magari, perché no, un orso bruno che passa e non mi degna di uno sguardo mentre, rispettoso, lo ammiro in silenzo percorrere il suo salotto di casa.

Arrivo al Berti alle 7 circa. Il bosco è 400 metri più sotto e lascio al bivacco le scarpette da trekking e le birre che ho cura di mettere in un catino dove c'è la pompa dell'acqua. Qualcuno che è già salito da almeno due ore ha lasciato il fornelletto a gas e così mi concedo un caffé insperato che è una gran goduria. Caldo! Grondo come in sauna: sembra la fine dell'estate non inizio luglio. Il fiume Sarca in questo periodo solitamente è impetuoso e oggi la portata è ridicolmente bassa. Affronto la morena e mi si para davanti uno spettacolo drammatico. Le Lobbie, l'Adamello, il Corno di Cavento, il Caré Alto, Cima Presena tutte praticamente senza coltre bianca. La neve dell'inverno è già quasi sparita su tutte queste cime ampiamente sopra i tremila e i ghiacciai sono completamente aperti e pieni di rughe (crepacci) con un colore grigio scuro che mi lascia senza fiato. La picozza e i ramponi sono praticamente inutili proprio come temevo. Il versante sud della Presanella che sto affrontando è quasi senza nevai e quel sottile manto che trovo si lascia modellare dal mio scarpone senza che debba utilizzare la "picca". Solo immensi cumuli di granito mi separano dalla vetta che raggiungo rapidamente e senza quasi difficoltà tecniche.

Alle 10 sono in cima e l'aria è così calda che il berretto, i guanti, il piumino non servono. E' sufficiente una banale giacca a vento e rimango lì, per una buona mezzora, a guardare questi ghiacciai agonizzanti mentre mordo un panino, mi idrato e mi riempio di crema 50. Dovrei essere felice per la faticata e la buona forma, nostante abbia passato gli anta e smesso di fare gare da dieci anni, ma vedere tutto questo grigiume mi lascia basito, perplesso con un magone che mi serra il fiato e mi si attorciglia addosso. Mio figlio forse non lo vedrà più un ghiacciaio alpino ma solo una stinta e stretta lingua.

Sono lì che bevo due birre immerso tra i miei pensieri quando il mio amico che lavora al soccorso alpino mi manda un messaggio. "Dimmi che non sei sulla Marmolada! ******** è venuto giù un seracco sotto Punta Rocca!!!"

Quel video che ritrae un fiume di pietre e ghiaccio scendere a valle con una potenza devastante portandosi via decine di vite (16 sono le macchine ancora ferme al Passo Fedaia) mi ha destabilizzato e non solo per le famiglie distrutte. Mi sembra che sia una fotografia della nostra situazione attuale: una biglia che inesorabile scorre veloce su un piano inclinato e ci travolge, ci frana addosso. E' come se i problemi irrisolti accumulati per decenni e rimasti in pericolante equilibro fossero caduti trascinandosi a vicenda in un rotolio infernale senza fine. Vedere quel buco nella seraccata della Marmolada, una montagna che ho scalato enne volte, mi ha lasciato "in sospeso" come questi puntini...

Realizzo che in un contesto drammatico di crisi globali come quella ecologica, economica, sociale, geopolitica non ci sono nemmeno le mie adorate montagne locali a cui mi possa aggrappare per avere un minimo di sicurezza. Uno pensa vigliaccamente sempre solo al proprio orticello del cazzo ed in maniera ignobile fa lo struzzo pensando "fortunatamente non mi riguarda direttamente! Non ancora". Quel buco in mezzo alla Regina delle Dolomiti mi riguarda e non posso fare a meno di chiedermi quanti schiaffoni in faccia, quante pedate nel culo e quanti pugni sul grugno dovremo prendere ancora? Ovviamente non parlo solo di clima.

Poi leggo che adesso arrivano i No-Sic, che negano la siccità, e penso che siamo tornati all'oscurantismo del Medioevo. E allora torno adolescente e mi monta addosso un ribollio sì acuto e velenoso che mi fa pensare ad una cosa talmente orrenda e oscena che no, non la scrivo. Ma la penso, Dio se la penso!

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