editoriale di pier_paolo_farina

La mia concreta, personale passione per il tennis sembrava circoscritta per sempre ad una fase della mia gioventù: un lustro d’anni, innescato dai trionfi del 1976 di Panatta a Roma, Parigi e Santiago, quest’ultimo colla squadra italiana di Coppa Davis. Mi intrigava soprattutto Bjorn Borg, svedese dall’aspetto e dal carattere molto svedesi, che zitto e quieto correva di qua e di là dal campo come nessun altro, ributtando la palla sempre dall’altra parte e vincendo di fisico, determinazione, umiltà, impegno, grinta.

Poi, all’alba degli anni ottanta, il raffreddamento dell’interesse, con Panatta ridimensionato dalle sue voglie di spassarsela e non sudare troppo, Borg che si ritira a ventisei anni sul più bello e che addirittura, più in là, sposa quella sciroccata della Bertè, perfetto esempio (tuttora) di cialtroneria italica… Basta allora, d’altronde il mio vero amore di sport era da sempre il basket, praticato a lungo e seguito per decenni.

Ovviamente, da maschietto appassionato medio di sport, di un certo numero di sport, avevo continuato a seguire non molto seriamente le vicende del tennis e quindi l’avvento di Lendl, Becker, Agassi, Sampras, fino allo stabilirsi dell’impareggiabile triade pigliatutto Federer/Nadal/Djokovic, epopea questa oramai in chiaro dissolvimento, seppur lento. La mancanza di un campione italiano decente, vero ovviamente influiva e talvolta, guardando uno spezzone di partita o più facilmente il resoconto di un torneo importante coll’immancabile vittoria di uno dei campioni di cui sopra, mi chiedevo come mai in questo nostro paese non si palesasse, da ormai mezzo secolo, qualcuno veramente forte colla racchetta.

Poi è successo che due anni fa, nel consueto zapping davanti al televisore, ho incocciato in un incontro delle Next Generation ATP Finals di Milano, torneo novembrino da qualche anno riservato ai migliori otto tennisti under 21 del mondo. Stava performando un roscio boccoloso allampanato che, pur secco come una betulla e senza muscoli in evidenza, tirava incessantemente scaldabagni dall’altra parte del campo addosso ad un povero disgraziato suo collega, più grosso e fisicamente formato di lui ma con una modesta frazione della sua velocità, concentrazione, equilibrio, naturalezza, leggerezza, predisposizione.

Guardo e ascolto, rapito, e vengo informato che il tizio è italiano, anche se ha nome e cognome tedeschi. È perché proviene dalla Val di Sesto, sopra le Dolomiti e al confine coll’Austria. Ha diciott’anni e qualche mese ed è effettivamente il più giovane degli otto tennisti presenti.

Mi concentro: cos’è che mi piace, che mi avvince di lui? Per cominciare lo schiocco della pallina sulla racchetta, netto e acuto, indice dell’estrema velocità con la quale viene colpita. Impressionante il diverso rumore fra il suo colpo e quello del suo avversario. Pare una partita uomo contro donna. È lì buona parte del talento: la velocità in vece della potenza, una palla “pesante” scagliata da un omino con settanta, massimo settantacinque chili a coprire il suo metro e novanta d’altezza.

E poi la agilità del gioco di gambe, che pur affusolate e senza muscoli si mostrano in grado di portare a spasso quel corpo leggero e piazzarlo in equilibrio ideale un istante prima di ogni colpo, in modo da scatenare la velocità assoluta di braccio in tutta la sua letalità. Apprendo d’altronde che ha fatto sci agonistico a lungo da ragazzino (e lo slalom gigante le gambe te le sveglia di brutto, sicuro), prima di scegliere definitivamente il tennis e addirittura auto deportarsi in Liguria per stare a tempo pieno accanto ai suoi maestri in una scuola di tennis. Scelta mica da ridere, a tredici anni… ci vogliono le pall…ine!

E ancora il viso, ovviamente lentigginoso e quasi imberbe, concentrato e privo di qualsiasi smorfia di narcisismo o supponenza. Però non ombroso come Borg, solo bello innocente e… interessato, dedicato: si vede che è sul pezzo, che si sta divertendo, che il tennis è tutto per lui; un lavoratore convinto che con il darsi da fare senza requie su qualcosa che si ama, e per la quale si ha inclinazione e talento, si può fare veramente molto bene.

È quel tipo di tennista definibile come attaccante da fondo campo: la sua strategia naturale è ributtare in campo avverso la pallina sempre più rapida, sempre più angolata, sempre più lunga ad un palmo dal fondo campo, oppure nei piedi o nella pancia dell’avversario fino ad aprirsi un pertugio, un metro o due irraggiungibili, verso il quale esplodere un dritto o un rovescio a 150 all’ora e mandare la sferetta gialla e pelosa spesso e volentieri a sbattere di rimbalzo nel telone dietro al malcapitato antagonista.

Non capisco gli appassionati che danno indefessamente del “pallettaro” a chiunque non abbia predisposizione a fare la corsetta verso la rete ad incocciare la pallina al volo per prendersi il punto, oppure ad eseguire la fatidica “smorzata”, cogliendo col rimbalzo i primissimi metri del campo avverso e costringendo il rivale ad una concitata corsetta ed eventuale, difficoltoso rinvio. Chissà perché uno ben capace di fare volée a un metro dalla rete è da considerare tennista più nobile e venerabile di un altro capace di sparare missili angolati e/o lunghissimi, altamente spettacolari, assolutamente e superiormente soddisfacenti per quanto riguarda la mia estetica su questo sport.

Certo, a un vero campione occorrono un po’ tutti gli aspetti del gioco perché arriva sempre, nelle partite importanti contro gente veramente forte, la necessità, l’opportunità di provare una smorzata, di correre a rete per fare una volée, di giocare di fino. Con gli scarsi basta tirare un po’ di lavandini vicino alle righe e l’altro si smonta subito, resiste il primo set e poi si squaglia al secondo. Ma con quelli bravi occorre variare, ogni tanto, ed è su questo che Jannik deve migliorare. Anche la battuta… è importante avere un colpo che ogni tanto ti raddrizza all’istante uno 0-30 o un 15-40 con due botte ben piazzate. A lui succede già, come no, ma non abbastanza, non sufficientemente ancora per gli altissimi livelli e i tornei più prestigiosi.

Sinner inizierà il 2022 da decimo al mondo e con 5 tornei già vinti, a vent’anni (Panatta 10, Fognini 9, Bertolucci 6, Berrettini e Barazzutti 5 come lui), C’è la concretissima possibilità che fra un anno o al massimo due diventi il tennista italiano più vincente di sempre. Certo, una carriera sportiva è legata anche a fortuna, salute, imponderabili altre vicissitudini, ma insomma il tizio è forte e lo si vede ad occhio nudo. Speriamo che vada tutto bene, e a lungo, nella sua carriera da chiaro predestinato.

Il tennis è uno sport di massacrante componente psicologica, talché faccio fatica ultimamente a guardarmi in diretta le partite di Sinner, preferendo aspettare che finiscano per poi gustarmele a risultato (positivo) acquisito. Sono coinvolto, e quindi non voglio soffrire, solo godere. Confido di gustarmi molte godurie a merito di Sinner nell’ormai prossimo 2022

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editoriale di Dislocation

Sei sempre stato silenzioso e riflessivo, fin da piccolo. Ma eri anche allegro, e sarcastico fino alla cattiveria, un po' vendicativo ma anche dolce ed estremamente empatico.

E con pochi amici, scelti e fedelissimi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Mi faceva incazzare, la mamma, mi costringeva a portarti con me, quando uscivo. Ma fu così che scopristi la musica.

Odiavi quella che facevo io col mio gruppo, la new wave, ma amavi i dischi di Zappa e dei Beatles che ti passavo.

A quattordici anni ti sanguinavano le dita dopo le nottate passate a provare i passaggi e le svise di Jaco.

A sedici suonavi in un gruppo jazz dove gli altri componenti avevano tutti più del doppio della tua età.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Poi ti sei perso, poi la naja, poi non proprio una gran voglia di lavorare, perlomeno non di fare quel che non ti piaceva, perché i lavori che ti appassionavano li facevi benissimo, ci mettevi cuore e cervello, come in quei giri di basso velocissimi e vorticosi che facevano ammattire il tuo batterista, come il modo in cui ti prendevi le ragazze che volevi, solamente guardandole, quelle che volevi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Abbiamo passato l'infanzia e l'adolescenza insieme, io che ti parlavo di tutto e non tralasciavo un particolare, tu che dicevi tre parole e ti esprimevi a meraviglia.

Poi ci siam persi di vista per quindici anni almeno e, quando sei tornato, abbiamo ripreso il filo da dove avevamo smesso.

Poi la tua malattia, le sacche di sangue, le flebo, il mostro che ti consumava, da dentro, le energie e la forza.

E poi quella mattina, dopo una notte di sofferenza, tu che ci dicesti, a me ed al nostro fratellino più piccolo: "Ciao, ragazzi, io vado...".

Una parvenza di sorriso, addirittura.

Mi manchi da diciassette anni.

Ciao, Marchino.

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editoriale di iside

...Ancora una volta bussai alla tua porta e non lo feci per me.

-Nina devo parlarti-

-So già cosa vuoi dirmi è inutile-

-Nina usciamo che devo parlarti-

-Va bene, ma solo perché sei tu-

Fuori sotto al portico c'era il solito gruppetto di amici che si caricava l'ennesimo cyloom, uno gridò:

-Lasciala perdere lo sai che ti fai del male-

Lei stava per per alzare il medio le presi la mano e la guardai negli occhi, la portai via stringendola a me.

In auto io guidavo in silenzio lei restava rannicchiata sul sedile del passeggero,

dopo un paio di ore mi disse:

-Dovevi parlarmi-

-Si ma adesso sto guidando, dove vuoi andare?-

-Se andassimo alla rocca a vedere l'alba?-

-Fa un freddo cane stanotte, non mi sembra il caso-

-Hai sempre la coperta in auto no?-

-Si, credo di si...penso abbia ancora il profumo di te...-

-Figurati dopo tutti questi anni, chissà quante volte l'hai usata ancora-

-Devo dirti una bugia?-

Alla rocca c'era un freddo pazzesco, ci mettemmo nei sedili posteriori sotto la coperta abbracciandoci per scaldarci e intanto cominciammo a piangere.

Lentamente sorse il sole e ancora non avevamo parlato ma cosa c'era da dirsi?

-Nì non andare-

-Lo amo-

-Nì ha l'AIDS rischi di morire-

-Lo amo non posso vivere senza di lui...Promettimi che non mi cercherai mai più-

Accesi l'auto e ritornammo verso casa, io con gli occhi pieni di lacrime e lei sempre con lo sguardo oltre al finestrino. Arrivati sotto casa sua non feci neanche in tempo a fermarmi che lei s'era già catapultata fuori, io restai a guardarla ma lei non si voltò nemmeno per un saluto. Era la prima volta che se ne andava senza darmi un bacio. Mi avviai verso casa, sotto al portico c'erano le birre lasciate dai soliti tossici e al primo cassonetto buttai la coperta. Non so per quanto tempo non uscìi da casa se non per andare a lavorare, nello stereo tre dischi di Faust'o andavano a rotazione continua.

Trentanni dopo ci siamo rincontrati abbracciati, baciati, coccolati, passeggiando mano nella mano come fidanzatini, ci siamo raccontati le nostre vite, le nostre miserie, i figli, le gioie e i dolori...

Lei, al solito, è sempre incasinata io, al solito, mi offro come spalla su cui piangere anche se non ho più la forza di tanti anni fa.

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editoriale di Ildebrando

Il 29 gennaio, al Teatro San Babila di Milano, si terrà uno speciale evento a coronazione dello spettacolo "Giovanna - Omaggio a Milva"; lavoro che nasce con il preciso intento di riscattare la memoria di Milva, troppo poco celebrata.

Dopo aver toccato, con pienezza di energia, varie località italiane, la cantante viareggina porta la rappresentazione - strenna a Milano.

Se è vero che comprendiamo quanto una cosa sia ignorata solo quando la amiamo sinceramente, Giovanna, con il suo intenso omaggio (anch'esso mai abbastanza celebrato), dimostra tutto l'affetto che nutre nei confronti della Rossa della canzone.

"Quando presi le mie prime lezioni di canto, la maestra mi disse che se avessi voluto cantar bene, avrei dovuto studiare Milva", riferisce Giovanna.

A quei tempi, Milva, era un gioiello grezzo, appena giunto nella grande vetrina del mondo dello spettacolo. Col tempo, tuttavia, sarebbe diventata un fulgido rubino, in grado di cesellarsi da sé, seguendo la propria incalzante curiosità.

Milva si affacciò al mondo della canzone abbracciando gli stilemi del "bel canto". Eppure, nel fondo del suo strumento vocale, vibrano ruggiti destinati a cambiare la storia della musica italiana. Lo spirito del Varietà di quegli anni, soleva costruire zoo di cantanti per solleticare l'immaginario del popolo televisivo e del giornalismo. Milva venne battezzata "Pantera", per fomentare una immaginaria rivalità tra lei e Mina, la "Tigre". Poco importa. Quel soprannome, datole più o meno fortuitamente, rivelò, con gli anni, la sua verità.

Annoiata dalla canzone "leggera", sul finire degli anni '60, Milva confessò al suo pigmalione, Maurizio Corgnati, di voler attuare un cambiamento radicale nel suo percorso, o di volersi fermare. In quegli stessi anni, Strehler desiderava portare nei teatri degli spettacoli che percepiva, lui stesso, come "difficili". Fu parlandone con Nanni Ricordi che gli venne suggerita la figura di Milva:

"Mi pare che abbia il carattere e la capacità di portare al pubblico queste cose".

Nacque così "Milva canta Brecht". Da questo momento, Milva, si trasformò, non solo artisticamente, ma anche fisicamente. É come se la volontà di accogliere un nuovo tipo di Arte, avesse portato nella cantante una trasformazione ontologica. Come se questo suo avvicinarsi ad un diverso volto della cultura, avesse sortito in lei degli effetti psicosomatici. Il nuovo repertorio, liberò le energie che ribollivano in lei e la Pantera, poté mostrare tutta la sua maestosa bravura.

Dopo Brecht, seguirono Berio, Battiato, Piazzolla, Mikroutsikos, Merini e tanti altri ancora, facendo di Milva uno strumento capace di mischiare piano alto e popolare, rendendosi baluardo contro l'oscurantismo culturale.

"Dopo la morte di Milva, rimasi scossa dallo scarso riconoscimento tributatole e decisi che avrei dovuto portare le sue canzoni in giro, per mantenerne vivo il ricordo". Confessa, ancora una volta, Giovanna.

É con forte accoramento, quindi, che Giovanna, ha preso in carico l'importante repertorio di Milva. Durante il suo omaggio, canta "Quattro vestiti", "Tango italiano", ma anche "Die moritat von Mackie Messer", "Le Rose Rosse", "Alexanderplatz". E lo fa con un importante valore aggiunto: una indescrivibile umanità. "Giovanna - Omaggio a Milva", infatti, non è solo uno spettacolo di canzoni. Tra un brano e l'altro, Giovanna legge poesie scritte di suo pugno. Sono testi ispirati alla figura di Milva, ma anche alla condizione esistenziale; parlano di solitudine e di deferenza. Parlano di Amore.

Personalmente, ho avuto l'opportunità di assistere a due date dello spettacolo. Vorrei darvi appuntamento, dunque, il 29 gennaio, al San Babila di Milano. Sarà una occasione per riscoprire Milva e per percepire sulla vostra pelle la dolcezza che trapela dai sorrisi di Giovanna.

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editoriale di ZiorPlus

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Mia nonna, classe 1899, aveva una cura per tutto.

Una cura unica in realtà.

Il Fernet Branca!

"Nonna, ho mal di pancia". Non ti preoccupare un pò di Fernet-Branca poi ti stendi a pancia in giù sulla sedia e passa.

"Nonna sono caduto dalla bicicletta" Cosa vuoi che sia, prima di tutto un bicchierino di Fernet-Branca poi ci mettiamo un bel cerotto.

"Nonna ho fatto a botte col figlio di Tony Stralocio" (Tony lo strabico - Tutti i vicini di casa nel quartiere avevano un soprannome spesso legato all'aspetto fisico, alla provenienza, al carattere, ecc.) Non si fà siete due poco di buono tu ed anche il piccolo stralocio ma ho io quel che fà per voi, un goccio di Fernet-Branca e poi da bravi fate pace.

Così per tutto, dal mal di denti alle cadute accidentali passando per il sangue di naso ai brufoli insomma tutto ciò che non contemplasse qualcosa di più impegnativo.

Non era semplicemente il Fernet od il Branca o altro, NO, guai spezzettare ma era sempre tutto attaccato il Fernet-Branca, come fosse una formula tramandatagli da un qualche antico sciamano contadino che per dare il suo effetto massimo andava riportata tutta in una volta senza pause pena l'insuccesso.

Come il PaoloRossi dei mondiali di Spagna dell'82, tutto d'un fiato.

Lo chiudeva sotto chiave, il Fernet-Branca, dentro una vecchia credenza in legno intarsiato di quelle penge di una volta come unica depositaria del segreto dell'elisir della salute ritrovata che andava preservato da mani indegne.

O forse anche perchè in casa avevamo uno zio che non disdegnava affatto curarsi a quel modo, proprio per niente, anzi!

E la chiave nel reggiseno, lì, almeno per quel che era dato sapere, dalla morte del nonno nessuno aveva più messo mano, probabilmente il posto più sicuro di tutta la casa ed oltre.

Ricordo una volta che, nonostante fosse una roccia, l' hanno dovuta ricoverare in ospedale per un qualche problema in fase acuta. Era più il terrore di dove ed a chi lasciare in custodia la chiave che la preoccupazione della malattia in sè.

La nonna aveva altre piccole stravaganti manie tipo gettare un pugno di sale grosso sul fuoco della stufa a legna della cucina ogni qualvolta veniva a farci visita una zia non tanto ben vista che abitava in un paese vicino dicendo che così facendo la strega probabilmente avrebbe abbreviato la sua visita di cortesia all'essenziale.

In giro per casa zie e zii non mancavano di sicuro dato che sia da parte di madre che di padre erano circa una dozzina per ceppo familiare..

Tutti senza eccezione alcuna cresciuti a loro volta a Fernet-Branca.

Quando capita ogni tanto che ci ritorno col pensiero, nonna Assunta ha vissuto fino a 101 anni, mi ritrovo a chiedermi che fine possa aver fatto quella chiave.

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editoriale di FOGOS

"Bisturi!"
"Bisturi... bisturi..."
"Ora, cari colleghi, andremo ad asportare questa massa tumorale dal cervello del paziente per accertarne la natura. Successivamente ricuc... BEEPBEEPBEEP..."
"Dottore, ci sono delle complicazioni! Stiamo perdendo il pazsssccccccccccccccccccccssssssssssssccccc..."
Maledizione, il segnale tv è scomparso, altro che paziente. E dire che questo sceneggiato cominciava ad intrigarmi non poco, ma cosa posso farci se il ripetitore del segnale televisivo posto sulla montagna dà i numeri al primo accenno di pioggia?
E soprattutto se si hanno a disposizione solo due canali tv? Cerco di riparare manualmente con tutti i modi possibili a questo inconveniente, con la ricerca della frequenza prima e immediatamente poi con calci, schiaffi e pugni. Niente, l'etere è momentaneamente divenuto una tempesta di neve analogica sul curvilineo schermo b/n, una bufera elettrica eternamente presente che può essere immediatamente zittita da un qualche segnale audio/video se presente, ricercato, trovato e fissato. Chiamasi sintonia, volendo.
Ma con chi e cosa? Sfumata ormai la serata televisiva per motivi indipendenti da me, balena in mente l'idea dell'ascolto radiofonico, ma un qualche motivo ignoto mi fa accantonare l'idea preferendo uscir fuori a respirare l'aria resinosa della pineta che mi circonda. Perchè mi viene in mente solo ora Lucinda, lasciata navigare in solitaria sul suo lussuosissimo diciotto metri verso Saint Tropez? Non aveva mai amato la montagna la signorina, raccontadomi idiozie e falsità su fantomatici soggiorni a Gstaad, Cortina e chissà dove, preferendo tuffarsi alla prima occasione in qualsiasi situazione.
Soprattutto quelle amorose erano il suo forte ed era largamente conosciuta in città soprattutto per questo più che per il conto in banca di famiglia comunque ipercospiquo e sufficiente a sfamare tre favelas in qualche angolo del mondo. Il nostro rapporto si era interrotto causa atteggiamenti troppo libertari da ambo le parti e lo stare senza regole aveva logicamente nociuto. Ripensandoci, è andata meglio così, the show must go out. Come quello televisivo di poco fa!

In tarda mattinata, dopo un lungo sonno ristoratore, cerco di mettermi all'opera scendendo giù in paese e ascoltando il primo atto dell'Aida su una musicassetta avuta in prestito da Gianfranco, un amico cultore del melodramma.
"Se quel guerrier io fossi, se il mio sogno s'avverasse!"
"PAAA,PAPAPAPAPAPAPAPAPAA..."
Ma è possibile mai che si debba rompere il nastro della musicassetta proprio sulle trombe di Radames? Va bene aver sfruttato il supporto audio per tanto tempo, ma il fato non può accanirsi col sottoscritto con questo elenco - che spero breve - di piccole interruzioni cominciato da poche ore. Fra l'altro non posso restituire la cassetta a Gianfranco in questo stato, mi ucciderebbe amabilmente come solo lui sa fare. Intanto, la mia gloriosa due cavalli non vede l'ora di arrivare in paese per nutrirsi alla faccia dell'austerity che qualche caporione di governo invita ad adottare e che per me è regola fissa di vita più per necessità che per altro.
La stazione di servizio è orribilmente vicina ad una piccola chiesa dalla quale escono trafelate due comari intente nell'aggiornamento dei loro quotidiani pettegolezzi.
"Hai saputo del parroco, Mariè? E' stato arrestato dai carabinieri stamattina, ma perchè?"
"Eh, troppi vizi, troppi vizi!"
Conoscendo le due signore immagino già disgustato il fiume di ipotesi e congetture che elargiranno ai loro ascoltatori nell'abituale esercizio di dileggio di tutto e tutti loro escluse, forse.
"Mille, super."
Il benzinaio annuisce abbeverando la mia auto che ha pochi km sul groppone. Ci credo, l'ho faticosamente comprata da due mesi con risparmi variamente sudati e non e prevedo mi dovrà accompagnare a lungo, spero per almeno vent'anni! E invece la carriera del parroco sembra essersi messa su una brutta china: augurandomi che sia innocente, scevro da grosse macchie sulla coscienza, medito sulle tentazioni quotidiane che bloccano e talvolta deviano dal percorso prefissato da noi singoli o dal destino. Siano tentazioni, incidenti di varia natura o problemi che possono diventare opportunità per i più ragionatori, è comunque difficile trovare sempre percorsi facili, comodi. Ci vuole impegno, tappa dopo tappa, altrimenti sarebbe troppo salottiero per chiunque oltrechè scontato e prevedibile. Fortunatamente ho riflettuto su ciò in tempo utile e cerco di farne memoria giornaliera per vivere col bicchiere perlomeno mezzo pieno.
Riparto determinato a sbrigare faccende di vario carattere nel paese e guai all'oleografia ridente che il solito buontempone appiccica qui ed altrove come da rituale turistico, mi tedia non poco perchè lo ha sempre fatto. Non dite RIDENTE paese che non c'è nulla di esilarante quì, al limite SORRIDENTE... e ciò mi irriterebbe comunque. In due ore riparto verso casa, sollevato da alcune incombenze e libero di concludere questo giorno come meglio credo. Ho risolto alcuni intoppi sia personalmente sia lasciando che le cose si risolvessero da sole, ma il ritorno verso casa mi riserva quasi a metà strada... LAVORI IN CORSO!!! Ennesimo manto stradale in rifacimento, e il bicchiere come lo vedo? Non lo voglio vedere, questo lo conosco ed è di pseudocristalleria da supermercato da quattro e una lira, perciò sbuffando cambio strada non potendo fare altrimenti.
Sono a casa in ritardo non lieve e Peste, il mio fido bastardone mi saluta con misurato affetto causa la leggera afa presente in giornata. Sono sempre stato attratto dai diversi di ogni razza e genere nutrendo una sana e sconfinata simpatia per coloro che realmente hanno qualcosa da dirti; i cani poi, li ho sempre adorati a modo mio affibbiando loro una malattia come nome. Chissà fra vent'anni e più quante malattie verranno curate, debellate e scoperte...
Prima che la serata abbia inizio consulto l'agenda per cercare un amico disposto alla baldoria e trovo tre possibili nomi su cui confidare; bene, e prima di fare una doccia decido di far riscaldare le valvole del mio vetusto apparecchio radiofonico di materna eredità solcando l'etere alla ricerca di musica, qualunque essa sia.
"Fa-a-a-a-a-a#/Si-i-iLa#SiDo#/Fa-a-a-a-a-a#/Si-i-iLa#SiDo#/Re-e-e-e-e-e/Mi-iFa-a-aMi/Re-eDo-o-o-o#..."
NO, FRANZ SCHUBERT PROPRIO NO!!!!

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editoriale di perfect element

E’ tardi.

Il manto stradale in questo punto non deve essere stato rifatto di recente, perché sulla pelle del viso riesco a sentire i sassolini con cui preparano l’amalgama bituminoso; li distinguo uno dall’altro. Un manto nuovo sarebbe più uniforme. Anche ad Ale piacciono gli oggetti lisci, regolari. E’ sempre stato un po’ maniacale, in queste cose. Come suo padre, del resto.

Cristo! E’ tardissimo!

La pioggia battente non mi dà fastidio, ma dovrò ricordarmi di portare in lavanderia i vestiti. Tutte le macchie che ci troverò sopra non sarebbero di sicuro alla mia portata. Ho fatto danni col bucato in situazioni molto meno estreme. L’odore di gasolio, invece, è insopportabile. Ti resta appiccicato alle mani quando fai il pieno e non ti si leva dal naso per ore. Almeno, a me succede così. E’ per questo che non sopporto i distributori fai-da-te. Se posso, piuttosto aspetto di trovarne uno con il servizio vecchia maniera, col gestore che, magari dà pure una ripulita al parabrezza – mi avrebbe dato, visto che è ridotto in centinaia di minuscoli frammenti. Qualcuno lo intravedo anche da qui. Piccolissimi diamanti investiti da gocce di pioggia. Diamanti liquidi su diamanti solidi.

E’ tardi.

Anche i diamanti mi sono sempre piaciuti. Non tanto per il loro valore commerciale, ma per la loro natura: limpidi, duri e puri. Preziosi come gli istanti. Spesso, il simbolo di qualcosa che alla natura umana forse non apparterrà mai. Di sicuro, non alla mia; anche se, da sempre mi piace pensare di sì.

Tossisco.

Ecco, così imparo a pensare alle cazzate. Ti vanno di traverso anche quando le rimugini soltanto. Sapore di ferro in bocca. Devo fumare meno o diventerò uno di quei vecchi tisici, con i denti gialli e la pelle rugosa. Altro che fascino di un volto vissuto. Incartapecorito piuttosto.

Cazzo, è veramente tardi!

Eppure, ce la metto sempre tutta per farmi bastare le stramaledette ventiquattro ore. Mendicanti di Spagna, così si chiamava. Da quando l’ho letto, mi torna in mente almeno una volta al giorno, o forse, ce l’ho costantemente nella testa. Chissà se un giorno davvero esisteranno gli insonni, e se davvero, con tutto quel tempo in più a disposizione, la loro esistenza sarà migliore? A me eliminerebbe più di un problema. Non che dedichi al sonno molte ore, cinque, quando va bene sei; ma, vuoi mettere?

Tardi, tardi, tardi….

Ha smesso di piovere. Mi sembra. Non sento più i diamantini liquidi abbattersi sulla guancia per frantumarsi in altre piccolissime gemme. Come in alcune foto che ho scattato ai bambini mentre si divertivano a saltare nelle pozzanghere con i loro stivaletti di gomma gialli. Non sono mai stato un gran fotografo, come la loro mamma; ma con quelle meraviglie di macchine digitali, anche uno negato come me, riesce, certe volte, a intrappolare qualche istante unico.

È tardi.

Comincio anche a sentire un po’ il freddo. Il caldo lo sopporto, il freddo non lo reggo; per questo preferisco il mare alla montagna. Come se al mare non facesse mai freddo. Comunque, le ferie estive al mare e poche balle! Mi accontento di vederla in inverno la montagna, per andare a ciaspolare. Il mare è meglio, anche d’inverno. Mi piacerebbe andare a viverci. Non in un posto troppo turistico.

È tardissimo.

Ora fa davvero freddo. Quest’anno il caldo torrido non è ancora arrivato. Quando ero bambino nevicava ogni anno, in inverno. Dell’arrivo della Primavera te ne accorgevi. Dalle giornate sempre più miti, dai profumi. Dalle gonne corte delle ragazze sui motorini. L’estate durava i mesi che si supponeva dovesse durare. Adesso nevica a luglio, anche se solo in montagna. Io la Primavera non la sento più da un pezzo. Sarà che non posso più usare la moto. Dover usare soltanto l’auto ti costringe a dimenticare queste sensazioni. Chiuso nell’abitacolo tecnologico, clima, navigatore e sistema dolby-surround. Addio vento in faccia e sentore di erba tagliata.

E’ sempre più tardi.

Ero sicuro di sentirla, fino a un attimo fa. Il cd era la colonna sonora di Vanilla Sky. O forse era Fino alla fine del mondo? Ho sempre associato Musica e Cinema a un qualche evento, a qualche periodo preciso della mia vita. Forse lo fanno tutti. Ascolti un brano e ti si materializza nella mente un volto, un profumo, una situazione, un luogo. Meglio ancora quando è solo una sensazione. Talmente vivida e reale che ti si accappona la pelle. Peccato duri un attimo, svanisca e non vale mettersi d’impegno per farla tornare. Non funziona. Speri solo che ti ricapiti.

Cazzo se è tardi!

Non è servito partire prestissimo. Il traffico era già intenso alla sette e mezza della mattina. C'è poco da correre se in corsia di sorpasso ti si piazza davanti uno a centotrenta e non si schioda nemmeno se ti avvicini tanto da baciargli il paraurti posteriore. Abbaglianti, clacson e freccia sinistra in funzione. Niente. Sono già al limite della velocità, quindi, fottiti, sembra dirti. Non gliene frega un cazzo che tu stia correndo un po’ troppo per raggiungere i tuoi bambini, insieme ai quali trascorri troppo poco tempo. Non pensa minimamente di rientrare nella corsia centrale il tempo necessario per lasciarti passare. Gli interessa unicamente far valere il proprio fottuto diritto di viaggiare al limite della velocità consentita e farti perdere altro preziosissimo tempo. Si vede che lui ne ha da buttare. Perché se lo avesse impiegato meglio, probabilmente guiderebbe un’auto in migliori condizioni. Invece, all’improvviso gli pneumatici hanno cominciato a emettere fumo. Non ha frenato. Almeno, le luci degli stop non si sono accese. L’auto si è inchiodata in corsia di sorpasso, semplicemente.

E’ tardi, tardi, tardi.

Una volta a uno dei ragazzi della compagnia è successa la stessa cosa in moto. Aveva grippato. La ruota posteriore si è bloccata e lui è volato nella risaia. Grande spavento, pochi danni. Gli avevo detto un mucchio di volte che troppi spinelli avrebbero finito per rincoglionirlo. Non che fosse completamente rincoglionito, solo quel tanto che basta per dimenticarsi di rabboccare l’olio motore. Olio bruciato. Ecco che odore è. Insieme a quello di gasolio e gomma bruciata. Mi verrà il mal di testa. Ennesimo Aulin. Ormai ne ingerisco una scatola al mese. Quante bustine sono? Troppe. Di sicuro troppe. Mi sfasceranno lo stomaco e il fegato.

Quanto è tardi?

Non fa più freddo. Che cazzo di tempo! Poco fa si gelava. Non sento più neanche quello schifoso mix di olio-gasolio-gomma bruciata. Ad essere sinceri, non sento più niente. So solo che è tardi. Davvero troppo tardi.

Ormai.

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editoriale di rallocj

Due mostri sacri del cinema hollywoodiano e su questo penso che siamo, più o meno, tutti fottutamente d'accordo. Entrambi italo-americani, entrambi divenuti celebri durante il florido periodo artistico degli anni settanta, denominato dai critici (e solo dai critici) NUOVA HOLLYWOOD. Non sono soltanto i dati anagrafici a creare una sorta di costante dualismo cinematografico, ma anche e soprattutto i ruoli divenuti cult da loro interpretati, in pellicole a loro volta divenute dei superclassici da collezione.

I media e i fan si sono divertiti per anni, e continuano tutt'oggi, a metterli a confronto, a cercare di stabilire chi sia il number one, quello che possa in qualche modo sopraffare l'altro. Un po' come accadde verso Michael Jackson e Prince. Certo, il film del 1995, Heat - La sfida, ha sicuramente alimentato ancora di più questo spirito di rivalità, che probabilmente vive solo nelle nostre fantasie e depravazioni da catalogatori quali tentiamo di essere in ogni circostanza.

Ma questo giochetto, un po', anche a noi derecensori e cazzoni dell'intranet piace. Chi non ha mai visto uno di questi cult del cinema? A volte, da alcuni, ritenuti sopravvalutati come Scarface o The Untouchables, altre volte apprezzati senza nulla da ridire perché effettivamente sono dei grandi film.

Questo breve mio inserto vorrebbe ancora una volta metterli a confronto, cercando di fare un'analisi da una parte motivata da un mio gusto personale, dall'altra da una certa obiettività.

Se osserviamo la vasta filmografia non possiamo non constatare che vi siano capolavori, lavori molto buoni e film mediocri da ambo i lati. Spesso, i buoni film di questo elenco sono tali proprio grazie alla recitazione dei due. Scarface non sarà il capolavoro celebrato per anni dalla critica, ma non possiamo negare che sia un gran bel film e che il protagonista uno dei personaggi migliori apparsi sul grande schermo. Il carisma dell'interpretazione di Pacino rende la figura del re dalla coca eterna e leggendaria e ti fa pensare che nessun altro al suo posto avrebbe potuto fare meglio o entrare meglio nel personaggio. Così l'ambiguo Travis di Taxi driver è reso magnificamente da Bob De Niro che per l'occasione lavorò per mesi come tassista giusto per entrare al meglio nella psicologia del personaggio. Dove i due hanno lavorato, salvo in rarissimi casi, le interpretazioni sono state di alto livello, anche in film dimenticabili.

I personaggi di Al Pacino sono spesso al limite dell'eccessivo, del sopra le righe e ciò che gli viene imputato è proprio questo: interpretare personaggi molto simili, leader, gangster potenti o poliziotti retti e scrupolosi. E da questo punto di vista penso che De Niro abbia un vantaggio: infatti, il buon vecchio Bob ha reso celebri maschere di personaggi diversi tra loro, più di quanto abbia fatto Al. Basti pensare che nel 1976 De Niro recitò nel già citato Taxi driver e in Novecento di Bertolucci, offrendoci due ruoli completamente differenti, diversamente drammatici.

Se consideriamo poi la quantità di film notevoli e più significativi vince nuovamente Bob De Niro. Di Al Pacino ricordiamo Il padrino, Il padrino II (dove offre, tra l'altro, la sua migliore performance), Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Scarface, Carlito's Way e Heat come memorabili, mentre di Bob oltre a Il padrino II e Heat, dove compare in egual misura ad Al, ricordiamo cose come C'era una volta in America, Il cacciatore (e già questi due da soli sono superiori come pellicole a tutte le altre dove compare Al), Taxi driver, Novecento, Toro scatenato, Gli intoccabili, Quei bravi ragazzi, Casinò e, perché no, Jackie Brown. Direi che per livello generale di film non c'è confronto: vince Roberto.

Di contro, a De Niro è imputato di essersi sputtanato con la scelta di certi film come le commedie familiari degli anni duemila dove compare, forse, troppo spesso, mentre Al Pacino ha saputo dire più spesso di no: quest'ultimo ha rifiutato, per dirne una, la parte di Han Solo in Guerre stellari, ruolo che ha fatto la fortuna di un'altra star americana, Harrison Ford.

Ciò che mi fa preferire Al Pacino è però il suo modo di recitare. Nelle vesti di quei pochi personaggi DAVVERO memorabili da lui interpretati riesce a farmi godere come un animale. Gli occhi tanto espressivi ed intensi, la sua efferatezza, la capacità di tirar fuori monologhi davvero entusiasmanti e carichi di pathos, beh, tutto questo fa sì che Al sia il mio attore preferito di sempre.

In conclusione: penso che entrambi siano attori pazzeschi e che abbiano contribuito a rendere grande la storia della settima arte. Se penso a film BELLI, capolavori completi, allora vedo prima il magnifico Once Upon A Time In America con il gangster Noodles, intrappolato forse in un trip da fumatore di oppio, che rivive tre fasi della sua vita, giovinezza, maturità e senilità, oppure vedo il reduce di guerra de Il cacciatore, un uomo completamente diverso una volta tornato in patria, dove si ritrova sempre più solo ed inquieto. Se invece penso a interpretazioni intense e potenti allo stesso tempo allora mi immagino il volto di Michael Corleone, l'esaltazione di Tony Montana e il decadentismo di Carlito Brigante. E scusate, anche il tenente colonnello Frank Slade nel remake del film di Risi non è da meno, per quanto la pellicola sia di ben altro livello rispetto a quelle citate.

E voi, cinefili a cui questo post è dedicato, cosa ne pensate? Chi vi appassiona di più? Vi fanno schifo tutti e due? Sono sopravvalutati? Ho detto una marea di stronzate? Parliamone qua sotto!

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editoriale di ritofrancese

Dalla musica, in tutte le sue forme ed in tutte le sue espressioni, nasce qualcosa di sovrannaturale, talmente carico di armonica magia che è quasi impossibile cercare di tradurlo in parole. Sappiamo tuttavia che l’energia vibrazionale, la quale passa attraverso percezioni ed emozioni e, nondimeno, si ricollega all’atavica energia del cosmo, è per noi energia vitale. Questo concetto meriterebbe ulteriori approfondimenti data la mole di contenuti. A noi occorre constatare che la musica emana delle onde energetiche i cui effetti benefici sono tangibili. La musica è quindi per l’essere umano una forma di pathos e, pur estrinsecandosi in una moltitudine di generi dalle più variegate interpretazioni, possiede la facoltà di mettere in moto particolari vibrazioni in ognuno di noi; tutto ciò non è propriamente descrivibile nella sua interezza, ma sappiamo che l’energia è in grado di ridisegnare e, in un certo senso, ricreare il naturale ordine delle cose nel loro senso reale, ogni volta trasfigurandolo e ricomponendolo secondo un ordine armonico tanto lieto quanto difficile da spiegare. È il caso, per esempio, della funzione attribuita alla musica nella cosiddetta colonna d’armonia. Non entriamo nello specifico dell’argomento perché è piuttosto complesso. Ad ogni modo nella circostanza ci limitiamo a rilevare che il termine armonia, apparso in Germania nel XVIII secolo e diffusosi in Francia già dal 1775, ha una sua connotazione precipua in ambito rituale. La definizione che viene riportata da Irene Mainguy è di per sé un’opera d’arte: “La colonna d’armonia sottolinea il ritmo. La musica rappresenta l’Arte di armonizzare il suono che, regolato in altezza, lunghezza e intensità diventa una nota. La musica è l’organizzazione coerente del suono, di molti suoni simultanei o consecutivi. La bellezza del suono è nella sua altezza, la forza nella sua densità, e la saggezza è nella sua lunghezza”. Pertanto possiamo costatare che, così com’è fonte di benessere psico-fisico, la musica è fonte di nutrimento per che per l’animo umano in sé che va oltre, quindi per l’umanità. Se quindi, come dice Russell, entro l’impalcatura di alcune verità, soltanto sulle solide basi di una rigida disperazione, può essere costruita un’abitazione sicura per l’anima, con ogni verosimile probabilità la musica è l’antidoto che fa da contrappunto a tutto ciò. Nondimeno la musica è per sua natura un’arte che va oltre la distinzione musicale tra due esclusive categorie ed è, per sua natura, universale: “Certo è che quanto è rimasto della musica occidentale, fino a poco tempo fa, tendeva a suddividersi in due grandi categorie, ciascuna con scopi e usi diversi: la musica sacra o ecclesiastica e la musica popolare. La prima categoria comprendeva la musica di cui gli uomini e le donne si servivano per adorare, invocare e placare le oscure forze sovrannaturali. Nella seconda categoria troviamo la musica che esprime l’uomo e i suoi rapporti, i suoi sogni, i suoi desideri istintivi e l’universo tangibile”. [Herbert Weinstock, “What music is”, 1953, 1966; ital.. “Cos’è la musica”, Oscar Mondadori Editore, 1969] Rassicuriamo tutti dicendo che né la musica sacra né la musica popolare sono scomparse. Semplicemente la netta distinzione tra categorie non è stata così determinante come invece lo è tuttora la predisposizione all’ascolto e la conoscenza della buona musica. Tuttavia non appena ci si rende conto che la creazione artistica può essere formalizzata, programmata e sottoposta a procedimento meramente matematico, tutti quei segreti che avvolgono l’arte svaniscono, ed essa perde sia la sua funzione di sostituta della fede – che in qualche caso ancora adempie -, sia la sua prerogativa di proliferazione culturale e sociale. La qualità globale della creazione artistica, in particolare fella musica popolare, e di ciò se ne può rendere conto chiunque abbia tanto una buona preparazione culturale quanto una discreta capacità critica di giudizio, si è ridotta drasticamente. Questa è una sofferenza per chi è nato con l’educazione al rispetto nei confronti dell’arte, o per chi ha la consapevolezza che i suoi padri, intimamente, sono quelli dell’antica Grecia. L’arte provoca effetti benefici che non possono essere descritti scientificamente. Inoltre, per i fautori della Buona Musica, ogni opera è un richiamo ad un’epoca storica; dal suo ingresso, con l’età di nascita del suo autore, passando per l’età della composizione e all’anno della pubblicazione, riguardo opere sopravvissute anche al passaggio ad una nuova era, ci dice che l’evergreen di certe sonorità, nella loro intramontabilità ci appaiono come eterne – in quanto è generalmente in questa forma che vengono maggiormente apprezzate – perché suonano creando delle invisibili (ad occhio umano) ma percettibili al genere umano, onde sonore che descrivono un pathos sempre rinnovato nella sua fluidità uditiva e sempre autentico, vero, nella spiritualità che emana. Naturalmente può divenire anche fonte di espressione dell’armonica (e invisibile alla vista) magia che nutre l’intuizione, nonché, il senso intangibile del divino che vive in ognuno di noi. Altri ancora sono propensi a considerare la potenza evocativa della musica come la manifestazione armonica di vibrazioni che rivelano la capacità delle onde sonore di creare particolari energie, la cui potenza evocativa risiede nello spirito, come nel pathos che è in noi, ed è noto che possieda la prerogativa di creare la necessaria evoluzione interiore; di conseguenza, utilizzando un’espressione già espressa in precedenza, ciò consentirà ad ognuno di elevare se stesso/a ad un livello di consapevolezza tale che il suo dna potrà vivere sintonizzato sulle frequenze benefiche del cosmo; di conseguenza l’essenziale sarà proiettato nel futuro in modo positivo e, nondimeno, propositivo. Lungo il corso dell’esistenza, in alcuni periodi può limitarsi ad una sintesi estemporanea di uno o più stati d’animo, mentre per chi ha non un’unica affinità ma una forma di reale empatia con l’universo armonico dal quale nasce il pathos, riesce ad andare oltre le consuete frequenze di ascolto. Per altri la musica può rappresentare il viatico di un’armonia molto più amplificata. Tuttavia può anche essere percepita come l’evocazione di un vissuto che spazia dal passato più arcaico alla compiutezza dell’era contemporanea; dalle ere più lontane alla manifestazione del vissuto ideale; come anche l’intuizione di una visione futuristica talmente avveniristica che merita di essere pubblicata e/o rappresentata in scena. In questo senso unisce e armonizza il bene e il progresso, quindi il bene e il progresso dell’umanità. Il livello di vibrazione armonica è sempre commisurato alla sensibilità e alla percettibilità, ed è tutto talmente soggettivo che possiamo persino ritenerle entrambe facoltà necessarie al pari di alcune prerogative ineludibili, poiché le esigenze sonore di ognuno sono totalmente personali: in special modo per quanti sono presenti a sé stessi in modo consapevole e senziente. E semmai alla fine di un brano ci sembrasse di percepire che armonicamente tutto si dissolve, è probabile che il brano successivo, con tutta la proiezione del suo carico ancestrale, possa assumere i contorni di quel soffio vitale che conduce alla manifestazione di un’intuizione. Di conseguenza l’arte della Musica, in alcune circostanze, per i suoi fruitori diviene luce riflessa, e la si rinviene ovunque ci sia l’attitudine a percepire l’essenziale che è possibile cogliere oltre il livello emozionale. Tutto ciò vale sia per le grandi opere sia per le canzoni di facile fruibilità. Riguardo quest’ultima dimensione, Neil Young si esprime in questi termini: “Vi siete mai domandati cosa serve per fare una canzone? Vorrei tanto potervi dare gli ingredienti esatti ma non mi viene in mente nulla di specifico”. A prima vista è una risposta curiosa per un cantautore / musicista / interprete che ha scritto centinaia di brani, molti dei quali sono divenuti dei successi internazionali. Sembrerebbe che non ci sia una formula precostituita, né quindi gli strumenti dell’arte per creare a mestiere una formula vincente. Ciononostante, secondo la sua esperienza, sembra esserci qualcosa che funzioni al di là delle molteplici possibilità di sperimentazione. La sintesi di questo concetto sembra riassumersi in alcune semplici espressioni, tanto essenziali quanto significative: “A me pare che le canzoni siano il prodotto dell’esperienza, un allineamento cosmico delle circostanze. Ovvero, chi sei e come stai in quel dato momento.” Ovviamente, tutta la musica di qualsiasi compositore è sempre stata influenzata dalla vita privata nonché dalle situazioni in cui si trovava mentre componeva. Quando la musica era composta soprattutto su ordinazione e il suo carattere generale era quindi deciso in anticipo dal compositore, la condizione mentale di quest’ultimo lo portava inevitabilmente a scegliere certi generi di melodia, certi meccanismi ritmici, certi modi o certe tonalità una certa espansività o concisione. Ma allorché i compositori cominciarono a creare musica o perché avevano bisogno di guadagnare o perché erano spinti da un impulso interiore – Handel o Beethoven furono tra i primi a comporre principalmente per tali ragioni – allora le forme scelte erano imposte, con o senza la loro consapevolezza, quanto meno in parte, da fattori musicali inerenti al loro temperamento e alla loro vita quotidiana. [Herbert Weinstock, “What music is”, 1953, 1966; ital.. “Cos’è la musica”, Oscar Mondadori Editore, 1969]. Tuttavia la musica di per sé stessa è qualcosa che pur rientrando nelle dinamiche dell’esistenza va oltre tutto ciò. Come ampiamente descritto da chi aveva una visione olistica della vita: “Non è sufficiente il fatto che agli uomini e alle donne il benessere si offra soltanto come progresso materiale: al presente, molte persone provenienti dalle classi benestanti non forniscono nessun contributo apprezzabile alla vita sociale, per quanto abbiano grandi possibilità di farlo, spesso non riescono a procurare neanche a sé stesse qualcosa che possa definirsi come una forma di felicità personale. […] Coloro che riescono a far fruttare la propria vita per sé stessi, per i loro amici, per il mondo, sono animati dalla speranza e sostenuti dalla gioia: nella loro immaginazione essi vedono ciò che potrebbe essere realizzato, e si sforzano di studiare il modo di metterlo in pratica. Nelle loro relazioni personali non si lasciano prendere dall’angoscia di perdere l’affetto e il rispetto con cui sono considerati: essi si sentono impegnati nel dare agli altri affetto e rispetto, e la controparte viene da sé, senza che debbano cercarla. […] Una vita vissuta con questo spirito – di creazione più che di possesso – ha un suo fondo di letizia, che le circostanze più avverse non possono scalfire in profondità. […] Non esiste un “sistema” che possa far fiorire l’arte: solo la libertà produce questo risultato”. [da Strade per la libertà, di Bertrand Russell, ed. Newton Compton, 1971; tit. orig. Roads to freedom]. A tale proposito vale la pena ricordare che la natura dell’essere umano non è un semplice consumatore, ma è un essere dotato di un insieme di facoltà, le quali hanno in sé, nello stesso impulso che le muove ad attuarsi, la legge del loro uso: i cinque sensi (vista, udito, olfatto, gusto, tatto), Il pensiero e i sentimenti, il sistema riproduttivo, le percezioni sensoriali. Un tempo Aristotele concepiva le disposizioni o facoltà come principio di legittimazione dell’etica, asserendo che essa stessa non può aspirare al rigore della geometria ma alla legittimazione dell’etica in sé certamente sì. Premesso che il termine ethikos deriva da ethos, che significa “comportamento”, “costume”, in termini aristotelici equivale a quella parte della filosofia che studia la condotta dell’uomo e le sue relative norme di vita. Pertanto, in termini logici, la condotta dell’uomo è dettata in primis dalle sue facoltà naturali. È quindi con Aristotele che per la prima volta si acquisisce la consapevolezza dell’etica fondata sulla natura. È bene ripeterlo: il termine natura ha il duplice significato di “principio che muove ciascun individuo – e le sue relative facoltà – dall’interno”, ed anche “la totalità del cosmo dal cui ordine tutti quei movimenti e quelle tendenze dipendono”. Solo nell’ottica di questa fondazione naturale dell’etica aristotelica si considera valido il concetto platonico della contemplazione delle idee: poiché la facoltà più alta dell’uomo è il pensiero, il sommo bene, la perfezione e la felicità per l’uomo consistono nell’esercizio del pensiero; il quale – sempre secondo Aristotele – ha la dignità più alta quando si applica agli elementi più alti, ovvero al divino”. Il fluido della sensibilità divina, ad esempio, riemerge in noi in maniera naturale quando è sintonizzato con un particolare pathos, il quale tramite il sistema ricettivo ci dà una particolare conoscenza; tanto più è immediato quanto più coincide con quello che arriva ai nostri cinque sensi, dandoci quindi la conoscenza immediata ed intuitiva. Il fluido della sensibilità che investe uno dei nostri cinque sensi, ad esempio, possiamo ravvisarlo nella Musica: da alcuni nostri illustri predecessori considerata la più importante delle sette arti liberali al pari dell’astronomia.

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editoriale di ritofrancese

Quante sono le cantanti che nell'ultimo secolo hanno contribuito all'evoluzione della musica? Secondo una recente ricerca pare siano molto numerose - si parla di oltre duecento - tra interpreti conosciute e meno note. Ma quante sono le cantanti, nonché autrici, compositrici, musiciste, che hanno lasciato un segno indelebile tour court nella storia della musica? Probabilmente qualche dozzina.

E tra queste, quante sono capaci di emozionare anche al milionesimo ascolto? Ce ne sono, ma con ogni verosimile probabilità il numero decresce in maniera considerevole. Diciamo che le fuoriclasse, essendo uniche ed irripetibili, fanno la differenza in termini di qualità e non di quantità. Senza dubbio In cima alla lista delle fuoriclasse svetta colei la quale a suo tempo fu soprannominata "la signora del rock", ovverosia la capostipite: Miss JONI MITCHELL. A detta di molti, lei è un'artista superlativa che non conosce rivali sia per ciò che riguarda il canto sia per il suo stile che denota un'eleganza sopraffine. Di fatto costei è considerata trasversalmente una tra le migliori songwriters di tutti i tempi, con una vena poetica toccante ed una voce celestiale in grado di fare emozionare anche gli esseri più aridi e più truci della terra. Questa grandissima interprete, nonché autrice, compositrice, musicista, produttrice e, collateralmente, pittrice,

secondo il parere di chi scrive è stata ed è tutt'ora la regina incontrastata del folk e del rock a 360 gradi: parere largamente condiviso.

JONI MITCHELL, all'anagrafe Roberta Joan Anderson, quando esordì discograficamente nel 1968 con "Song to a Seagull" era una venticinquenne canadese immersa nel circuito folk che iniziava a conoscere i meandri del mondo hippie. Venne adottata dal Villagge newyorkese e in un attimo mostrò a tutti il suo impressionante archivio di brani inediti ispirati principalmente dalla West Coast. Giunse subito alla ribalta grazie al connubio tra lirismo originale, penetrante, e la sua voce angelica, nonché grazie alla sua tanto strabiliante quanto inusuale padronanza della chitarra acustica (con il relativo utilizzo delle accordature aperte) e, non da ultima, la sua maestria nel suonare tanto l'ukulele quanto il pianoforte classico. Dal 1965 al 1967 si esibisce in duo con Chuck Mitchell, il quale diventerà suo marito e dal quale si separerà alla fine del 1967. Una delle sue prime composizioni, "Urge for going", dopo aver ottenuto vari dinieghi, alla fine viene registrata da un cantante Country, tale George Hamilton, diventando immediatamente un successo. Da qui i suoi brani vengono registrati da vari artisti, tra i quali: Judy Collins, Dave Van Ronk, Buffy Saint Marie, etc.

Negli anni collaborerà con alcuni tra i più grandi artisti del panorama musicale mondiale, quali: David Crosby, Graham Nash, Neil Young, Stephen Stills, Robben Ford, Pat Metheny, Joe Zawinul, Herbie Hancock, Jaco Pastorius, Charles Mingus, Willie Nelson, Billy Idol, Peter Gabriel, etc. Ma ciò che contraddistingue la sua carriera è quel "qualcosa di più", che dà la sensazione di rendere al profondo senso dell'esistere un dono che supera la legge fatale di ogni faticosa costruzione dell'essere sociale: una virtù che coglie l'essenza del tutto. E questo "qualcosa di più" è il leiv motiv che supera il divertimento del ritmo e la sensualità della melodia, garantendo quella pienezza spirituale ed espressiva che riesce ad attenuare il colore scuro del perduto destino e, al contempo, ad accentuare i toni agoniati di taluni orizzonti; in altri momenti, il sentimento lirico della natura diviene quel quid che si riverbera in nuvole di dubbi (come nell'album CLOUDS) e di vaghi pensieri in fondo ai quali si spegne la voluttà (come nelle atmosfere del celebre album BLUE). Altre volte i residui inerti di rassegnata sobrietà divengono rifrazioni di aulica umiltà e di sommessa malinconia, emanando luci più discrete; non di rado, tramite un procedimento di contrapposizione ironica, l'autrice rende trepide le parole, cercando di trasporle artisticamente in modo tale da mitigare la sensazione di percepire la vita come un soffio che incenerisce sui propri stessi roghi le logiche esistenziali e l'universo dei sentimenti. Ma il più delle volte i chiaro-scuri armonici della profonda coscienza sottendono la presenza suprema della conoscenza, e lo stile lirico si fa' lievità di tocchi e profondità di assonanze, facendo risuonare quasi ad ogni passo una grande forza espressiva ed una preminenza di dolcezza nella quale gli individui possono, superando se stessi, trovare la bellezza e la quiete interiore.

Dischi quali "Clouds", "Blue", "Ladies of the Canion", "For The Roses", "Heira", soltanto per citarne alcuni, hanno la prerogativa di conferire nuova linfa vitale all'anima e ritemprare lo spirito.

Non a caso il suo pantagruelico talento gli consentirà di ottenere numerosi riconoscimenti e alcuni premi importanti.

Nel Marzo del 1970 Joni Mitchell vince il premio Grammy per la migliore performance folk del 1969 con l'album Clouds. Subito dopo la Reprise pubblica il suo terzo album: Ladies of the Canyon con il quale ottiene il primo disco d'oro. L'album contiene alcuni tra i brani più popolari del periodo folk della Mitchell come Big Yellow Taxi, The Circle Game & la celebre Woodstock: una canzone divenuta un inno generazionale senza che lei avesse mai partecipato allo storico Festival di "Love, Peace & Music" del 1969. Nel gennaio 1975, dopo ben 4 nomination ai Grammy, ne vincerà due per l'album dal vivo "Miles of Aisles".

Il doppio LP del 1977 Don Juan's Reckless Daughter, riuscì a raggiungere la posizione 25 della Billboard chart divenendo disco d'oro in tre mesi. Il 5 febbraio 1981 a Toronto Joni viene inserita nella Canadian Music Hall of Fame: a consegnarle il premio è l'allora Primo Ministro canadese Pierre Trudeau.

Nel novembre del 1991 la rivista Rolling Stone inserisce l'album Hejira tra i 100 migliori della storia. Tra il 1995 e il 1997 Joni Mitchell ottiene ulteriori riconoscimenti professionali. I premi arrivano a profusione da ogni parte, anche grazie al successo dell'album del 1994 Turbulent Indigo. Il 25 marzo 1995 Billboard Magazine assegna a Joni il Century Award per i raggiungimenti e successi in campo creativo. I numeri dell'aprile 1995 di Mirabella e Vogue contengono delle interviste alla Mitchell. Sarà proprio nell'intervista concessa a Vogue che rivelerà per la prima volta di aver avuto una bambina e di averla dovuta dare in adozione negli anni sessanta per le sue ristrettezze economiche. In agosto la rivista musicale Mojo pubblica la sua lista dei 100 album migliori della storia: The Hissing of Summer Lawns si aggiudica la posizione 78 mentre Blue la 18. Dopo alcuni mesi di lavoro, il 29 settembre 1996 la Reprise pubblica due raccolte: la prima chiamata Hits che contiene i maggiori successi commerciali della Mitchell e il secondo intitolato Misses che invece comprende i brani che Joni considera dei successi mancati. A gennaio 1997 la Reprise pubblica un album di remix della popolare hit Big Yellow Taxi (che era già stata rifatta in versione hip-hop per la serie televisiva Friends), contenente sei diversi remix della canzone. Il 27 febbraio Joni si aggiudica invece il Premio per la miglior chitarrista acustico. Il 28 febbraio la vede invece vincitrice di tutti e due i Grammy per cui era candidata (Best Pop Album e Best Recording Package, entrambi per Turbulent Indigo). In maggio in Svezia le viene consegnato il Polar Music Prize, ovvero l'equivalente del premio Nobel nel campo della musica. Il 18 settembre 1997 Joni è, assieme ad altri artisti, ammessa alla Rock and Roll Hall of Fame, divenendo così la prima donna canadese ad essere insignita di questo riconoscimento. Sempre nel 1997 Janet Jackson pubblica il suo album The Velvet Rope nel quale è contenuta la canzone di successo internazionale Got 'til It's Gone che presenta un campionamento di Big Yellow Taxi della Mitchell. Dopo la pubblicazione di Taming the Tiger del 1998 seguono Both Sides Now nel 2000, Travelogue nel 2002.

Nel 2007 il suo ultimo album Shine decreta il suo ritiro dalle scene e dal mondo del Music Business. Ciononostante per lei non esiste

il viale del tramonto. Le sue melodie e il suo lirismo poetico sono parte essenziale dell'antropologia umana e della natura: sono sentimenti che si manifestano nel vento, nel cielo che accoglie e abbraccia tutti, consentendoci di ritrovarci tutti nelle vibrazioni di quei silenzi istantanei e prodigiosi che precedono l'ascolto, e durante l'ascolto naufragano i piccoli e dissonanti rumori della vita quotidiana; ma le opere di Joni Mitchell sono anche un viatico mediante il quale le dissoluzioni dell'esistenza divengono dissolvenze figurative che approdano alla luce della vita, passando attraverso lo spazio notturno e illuminando oniricamente il tutto come la luce della luna sull'acqua. Con le sue opere si fondono il romanticismo, l'esistenzialismo e il misticismo, mentre tutto assume i contorni dell'eterno.

O anche, come direbbe Oscar Wilde: "La musica ci crea un passato di cui non sappiamo nulla e ci colma di un senso di mestizia che era rimasto ignoto alle nostre lacrime" [...] A proposito della poetica di Joni Mitchell egli sembra averla presagita oltre due secoli prima, tanto che scrisse: "La rima, eco sublime che nella valle della Moda crea la propria voce e le risponde; la rima, che nelle mani del vero artista diviene non soltanto un elemento materiale di precisione metrica, ma anche un elemento spirituale del pensiero e della passione, in grado forse di far sorgere un nuovo stato d'animo o di aprire, con la sola dolcezza i suggestione del suono, porte d'oro alle quali l'immaginazione stessa aveva invano bussato" [...]

Tutto ciò è molto altro ci conduce all'incommensurabile e all'infinito, nonché al miracolo di quell'armonia che ci trasporta nella fantastica e magica dimensione iperuranica della galassia Joni Mitchell.

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editoriale di Dislocation

È bambagia, forse nuvola, no, più solida, ma morbidissima, diciamo panna, panna e assenza, indifferenza... e dormo, dormo bene, senza peso... Poi grida, mi chiamano, applausi... no, non applausi, qualcuno batte le mani, e chiama... no, MI chiama... Chiama il mio nome, ad alta voce, mi ingiunge di svegliarmi, in modo deciso, ma è più un invito che un comando... Mi girano le palle, nella panna si sta bene, se apro gli occhi cosa trovo, che ne so... Niente da fare, vogliono che mi svegli e mi sveglio, allora... Vedo chi mi sta chiamando e batte le mani per svegliarmi e di botto la capisco tutta, la faccenda. Mi ero addormentato in casa, di botto, il cuore a mille, non respiravo più, moglie e figlia che piangono a dirotto e mi risveglio in un reparto ospedaliero che conosco, per lavoro, ed ora sto dall'altra parte della barricata. È la Rianimazione, perdio, e allora me ne è successa una grossa, sta' a vedere, e difatti me lo spiega un medico. Mi dice che dormo da trentasei ore, che ho avuto tre arresti cardiaci dopo un'embolia polmonare, che devo la vita al medico del 118 che mi ha ripreso tre volte per i capelli e mi ha trombolizzato in casa, sul pavimento della sala, un bel fegataccio. Così vado avanti per ventitré giorni in una girandola di siringhe, pillole, flebo, visite e consulenze, e poi padelle e pappagalli, e poi le sigle per acronimi, tac, rmn, pic, ecd, abg, fr, ica, iot, fkt... Dormo poco e mangio meno, il sonno è continuamente costellato di ricordi l'infanzia, la scuola, mio padre e mia madre, la naja, l'amore, mia moglie e mia figlia, il lavoro... Poi, dopo due settimane filate di letto totale mi fanno alzare, ma non ho più polpacci né cosce, mi sento un ottantenne , ma ogni giorno miglioro, cammino come un invasato per i corridoi del reparto, poi mi dimettono e torno a casa, mi passa finalmente il mal di testa che mi durava dal primo giorno e riesco a leggere un po', riprendo il cellulare e rispondo piano piano a chi mi aveva contattato per avere notizie e, perdio, scopro preoccupazione e dispiacere in persone che non sentivo da tempo, alcune da anni, e mi vergogno un po' al pensiero di non sapere nulla dello stato di salute di colui che si documenta con me delle mie vicissitudini .

Poi c'è il Deb, caspita se c'è.

Ma non era morto?

Beh, insomma, mentre ancora non riesco ad ascoltare musica, mentre cammino come un invasato sul lungomare o mentre rinforzo i polpacci, mi trovo a sorridere dei commenti e della vita su Debaser, di chi si sfotte, di chi s'incazza, di chi mostra con piacere, o anche evidente orgoglio, la scimmia che regge sulla spalla, facendo sfoggio di sindromi maniacali che rimpinguerebbero le sostanze di fior di specialisti psichiatri e simili. E la scimmia, si sa, è dispettosa e spesso mostra il culo agli astanti.

E passo così ai ringraziamenti, anche qui non sapevo di poter contare sulla solidarietà di tanta, davvero tanta gente che, mi siete tutti testimoni, mai ho incontrato e forse mai incontrerò, visto che ho deciso di non fare più tanti progetti, dopo che ho provato la certezza dell'inutiliità dei suddetti... il mio grazie però va alle decine di debaseriani che, nella mia incredulità, hanno messo nero su bianco la loro solidarietà, scrivendomi nell'area messaggi, per me, un tale di cui si è saputo che stava male, ed in particolare ad alcuni che periodicamente mi scrivono informandosi sui progressi che faccio e si consumano in auguri. Ora sarebbe indelicato fare nomi, ma chi l'ha fatto lo sa, e di altri so per certo che la loro naturale ritrosia ha impedito loro di disturbarmi, si son passati le notizie l'un l'altro, e l'altro me l'ha detto.

Grazie davvero, a tutti, davvero.

Debaser non sta morendo, ve lo giuro sulle vostre teste.

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editoriale di rallocj

Sì, è la mia risposta. Sono del parere che una canzone perda punti se al suo ascolto non riesco ad identificarne bene tutti i suoni. Fondamentali sono le incisioni, i mixaggi, ma non trascurabili anche i volumi. Ho bisogno di sentire un pezzo e sentirlo bene! Ci sono molte canzoni registrate male che, per quanto considerate belle dalla critica, non riesco a farmele piacere quanto vorrei.

Ora, ci sta che un pezzo analogico del 67 non si senta bene quanto una canzone digitale di Madame del 2021. Ma quello che mi fa rabbia è quando vedo i famosi REMASTERED - che dovrebbero essere realizzati per migliorare il suono - essere fatti MALE. Allora non fateli. Fatemi ascoltare il pezzo originale inciso su vinile del 67.

Qualche esempio concreto: Songs In The Key Of Life di Stevie Wonder, rifatto su doppio CD, alcuni pezzi sono equalizzati male, vedi Another Star; gran parte della discografia di Kid Creole; Islands dei King Crimson. E quando un brano è basso? Quanto è frustrante sentirlo in cuffia?

E voi che ne pensate? La qualità di ascolto di un brano incide sulla sua bellezza e sul vostro giudizio?

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editoriale di iside

Ieri, o l'altro ieri comunque recentemente, Loretta Goggi ha annunciato che si sarebbe autoesclusa dai social network a causa dei continui attacchi subita da personaggi senza arte ne parte.

Penso che invece i personaggi pubblici dovrebbero restarci sui social e dovrebbe rispondere pan per focaccia ad ognuno di questi soggetti, dovrebbero prendersi l'onere di educare una serie di personaggi; lo so che è un compito quasi impossibile ma noi piccoli esseri comuni possiamo solo buttare una goccia nel mare.

Che c'entra Guttuso? Niente, è solo il cognome dell'ultimo fenomeno da tastiera che ha promesso di bastonarmi.

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editoriale di De...Marga...

La stagione estiva escursionistica si sta avviando alla conclusione qui da me in Ossola. Anche quest'anno il Soccorso Alpino, e tutte le altre associazioni di volontariato che collaborano, sono dovute intervenire tantissime volte per soccorrere e portare in salvo persone infortunate. Il più delle volte interventi causati dall'assoluta impreparazione di "gentaglia" che senza nessuna preparazione e conoscenza del territorio si mette nei guai.

Ovviamente sono per così dire favorevole a questi interventi; se una persona si infortuna ha comunque diritto di essere soccorsa, indipendentemente dalle condizioni che hanno causato l'intervento dei soccorritori.

Sarei inoltre favorevole, e non sono l'unico a pensarla così almeno dalle mie parti, ad una sorta di "gettone" di pagamento: ti fai male? Ok noi veniamo a tirarti fuori dai guai, però devi metterci del denaro, del tuo denaro. Come avviene da anni nella confinante Svizzera dove, se viene richiesto l'intervento dell'elisoccorso, si deve pagare diverse centinaia di Franchi Svizzeri.

Non chiedetemi a questo punto di quantificare il balzello in Euro, ma ritengo che ciò possa contribuire a responsabilizzare i molti escursionisti che affrontano percorsi e sentieri pericolosissimi senza nessun tipo di protezione, mettendo poi a repentaglio anche l'incolumità di chi viene in tuo aiuto.

Per farvi un esempio calzante di quanto ho finora scritto, vi segnalo un recentissimo episodio facendo riferimento ad un articolo uscito in questi giorni in Ossola.

"Avevano deciso di compiere un giro ad anello nella zona dei Bagni di Craveggia ma si sono attardati. All'imbrunire sono scattate le ricerche da parte del soccorso alpino vigezzino. Tutto alla fine si è comunque risolto bene per un uomo e una donna milanesi, sui trent'anni. I soccorritori dalla Piana si sono incamminati verso la bocchetta di Moino quando hanno notato delle luci provenire dalla zona del Gabun: si trattava proprio dei due escursionisti che stavano scendendo a valle facendosi luce con i loro telefonini. Tutto, come si diceva, si è alla fine risolto bene con il ritorno a valle, prima della mezzanotte."

Non conosco benissimo la zona dell'intervento, ma siamo comunque a quote relativamente basse, intorno ai 1600 metri. Quindi da quanto si legge questi due "esperti" conoscitori del territorio hanno affrontato una lunga camminata certamente partendo nella tarda mattinata, non riuscendo poi a rientrare a causa del buio.

Adesso la "sparo" grossa: sono cazzi tuoi, arrangiati, bivacca all'aperto e al mattino rimettiti in marcia verso il luogo di partenza.

Così la prossima volta parti prima, con adeguato abbigliamento e non rompi più i coglioni, asan!!!

Giudizio troppo drastico il mio? Forse, ma è il mio pensiero in merito.

Incontro troppa gente impreparata e ciò mi fa davvero imbestialire...

Ad Maiora.

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editoriale di macaco

Dato il ventennale di questo storico evento, mi permetto di usufruire di questo spazio gentilmente concessomi per sondare l´utenza in relazione agli avvenimenti dell´11 di settembre del 2001, attraverso questo semplice questionario:

1- Ti ricordi cosa stavi facendo quando hai saputo della notizia? Se si, diccelo.

a) Stavo lavorando o studiando

b) Ero al bar

c) Son cazzi miei

d) Altro.....

2- Quali sono stati secondo te i principali fattori che hanno motivato l´attentato?

a) I mussulmami peggiori (talebeni, al quaeda, etc.) odiano gli yankee

b) Usare il terrorismo per esportare la democrazia

c) L´hanno deciso LORO

d) Altro...

3- Chi ha eseguito e pianificato gli attentati?

a) La CIA

b) Mohamed Atta

c) Bin Laden

d) Altri...

4- Quali sono seconto te le principali conseguenze di tale atto?

a) Sono nati i complottisti

b) La islamofobia

c) Non puoi portarti il tagliaunghie in aereo

d) Altro...

5- Da dove trai principalmente le notizie che formano la tua opinione?

a) Televisione e/o quotidiani

b) Giornalisti indipendenti e controinformazione

c) Facebook e instagram

d) Altro...

6- Tu credi:

a) Nella versione ufficiale

b) Che sia stato un grande teatro

c) Sei dubbioso ma te ne sbatti altamente..

d) Altro...

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editoriale di Fratellone

“There is no country in the world like my homeland, a proud nation. Our beautiful valley, our great-grandparents homeland".

Questi versi semplici furono cantati da Fawad Andarabi, pochi giorni fa è stato ucciso con diversi colpi di pistola alla testa.

Era un folkisnger afgano, aveva avuto assicurazioni dai talebani che lui e la sua famiglia sarebbero stati al sicuro.

Andarabi era un musicista tradizionale noto in tutto l'Afghanistan, suonava il ghaychack, uno strumento tradizionale e cantava canzoni folk incentrate sulla bellezza dell'Afghanistan e l'importanza delle radici.

Oggi la musica, l’uso degli strumenti musicale, la danza (e molto altro) sono vietati in Afghanistan. I Talebani hanno distrutto gli strumenti del National Music Institute, dove la prima orchestra interamente femminile del paese ′′ Zohra ′′ (intitolata alla dea della musica negli scritti persiani), un tempo praticava. Riuscite a immaginare una società senza musica?

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editoriale di Stanlio

Non so voi, ma la prima radio che acquistai con i soldi guadagnati col mio primo impiego (a fine anni settanta), all'incirca un quarto dello stipensdio, fu uno stereo Marantz portatile dotato di ehm "mangiacassette" che mi diede soddisfazioni enormi, sia un casa che fuori casa, sia al mare che in montagna, ma anche in campagna, sia in Italia che fuori dall'Italia, da solo o con la ragazza, in compagnia di amiche/i, in compagnia di ehm, "canne", di fiaschi di vino o di cassette di birra, sia di giorno che di notte, madò che ricordi... (belli & brutti savasansdir)

Poi com'è come non è, un "amico"mi chiese se glielo prestavo finchè restaurava il suo appartamento (che in realtà era di sua nonna r.i.p.) ed in cambio per quel periodo mi lasciava la sua chitarra acustica (mezza scassata) che ogni tanto strimpellavo quando andavo a trovarlo.

Morale della favola "non prestare mai qualcosa a cui tieni molto" specie se hai dovuto faticare per ottenerlo, già, perchè è andata a finire che: l'appartamento l'ha restaurato, l'amico l'ho perso di vista, e per ultima cosa m'è rimasta una chitarra semiscassata che ho appeso al chiodo molti anni fa e niente...

ps

Per quelle/i poche/i che non l'avessero riconosciuto nella foto (presa mentre mi aggiravo prima su feisbuc) che m'ha ispirato queste poche righe, si vede un giuovane Bruce Springsteen aggirarsi stralunato col suo stereo portatile nella New York del '78.

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editoriale di editors

Car_ DeUtent_ del DeBaser.

Scusa se ti scassiamo la uallera, ma ti si voleva solo chiedere: per caso l'hai già accattato il Secondo (imperdibile) Volume de ILLIBRO?

Affermativo?

Brav_ Ragazz_!
Non hai fatto altro che il tuo dovere di buon DeBaseriano medio (o anulare, volendo).

E' quindi del tutto inutile che ti dica che ora annoveri all'interno della tua ricca libreria casalinga una tra le pubblicazioni più elitarie e sciccose che la carta stampata tutta abbia mai generato dai tempi del codice di Amurabi in avanti.

Ah!
Ma non è che mi stavi per dire che non l'hai (ancora) comprato?

Se è così, non vorrei sembrarti scortese e scusami se te lo chiedo, ma che cosa stracazzo stai aspettando?

Vedi di muoverti prima che finiscano le ultimissime 42.523 copie giacenti in magazzino!

Per farla breve:
chi si è già accattato ILLIBRO è severamente invitato a farsi avanti ergo chiedere di essere incluso nel DeGruppo nuovo fiammante dei DeVoluminosi.
Una volta aggiunti si potrà addirittura inviare la propria conturbante foto del o con ILLIBRO: a testimoniare l'effettivo possedimento a tutta la amena compagnia circense.

Oltre ciò i DeVoluminosi avranno (in futuro) a disposizione una magica etichetta, provvisoriamente chiamata "Volume III", che consentirà loro di selezionare e candidare le DeRecensioni che a loro avviso meriterebbero l'inserimento all'interno del Terzo Volume de ILLIBRO.

Quindi, tu lissù, che hai improvvidamente risposto "NO", vedi di muoverti o iniziamo a divertirci senza di te.

Achh... ogni tanto, lasciatecelo dire, ci stupiamo della nostra luminosa opalescenza.
Per fortuna poi c'opacizziamo.

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editoriale di splinter

Insultano, sparano stronzate, si fingono esperti di qualsiasi materia e attaccano quelli che non la pensano come loro... eppure li chiamano “LEONI da tastiera” (termine che si riferisce principalmente all’approccio offensivo ed aggressivo di questi individui ma che si può tranquillamente estendere al loro voler mettere il becco ovunque, su qualsiasi argomento non di loro competenza)…

Fatemi capire bene… “LEONI da tastiera”??? Il leone è da sempre usato come simbolo di forza, coraggio, nobiltà e saggezza. Quali doti avrebbero questi individui per meritarsi l’appellativo di “LEONI”? Sarebbero davvero individui forti e saggi? Siamo sicuri che non stiamo utilizzando il termine sbagliato? Un leone non si offenderebbe se paragonato a questi individui?

Attingendo dal regno animale, almeno dal punto di vista puramente simbolico, ci sono diversi altri appellativi che descrivono sicuramente meglio la natura di questi individui, sia riguardo lo stile aggressivo sia per quanto riguarda lo stile semplicemente saccente.

Si potrebbe ad esempio chiamarli “ASINI da tastiera”: sono ignoranti, non sanno fare 1+1, non conoscono le più basilari regole della grammatica, non conoscono la storia che si nasconde dietro l’individuo che stanno deridendo (probabilmente non conoscono nemmeno loro stessi), non conoscono la realtà dei fatti, eppure provano ugualmente a fingere di essere colti e di essere gente che la sa lunga, mentre chi davvero legge, studia e si informa è un pirla vittima del “sistema”.

Oppure “PECORE da tastiera”: seguono il gregge di persone, trovano rifugio nelle parole altrui perché non sanno esprimersi a parole proprie, pensano che “se tutti dicono e pensano così ci sarà un motivo”, poco importa se quei “tutti” sono del loro stesso livello di analfabetismo funzionale; a volte hanno un pastore, un guru che seguono ciecamente ma che non è un personaggio affidabile (perché non hanno certo il fiuto per riconoscere l’affidabilità), a volte è un medico radiato, a volte un trapper di periferia con il vizio dell’illegalità, a volte un personaggio uscito da un reality o un politico no-vax che non sa interpretare la Costituzione, ma va tutto bene perché è un capostipite.

Mi piace anche “MAIALI da tastiera”: amano sguazzare nel fango e nella merda e amano gettare i liquami in mezzo alla folla, sono sporchi loro e sporcano gli altri.

Ma un momento… Siamo davvero sicuri che questi appellativi alternativi siano effettivamente adatti? Stiamo individuando similitudini con questi animali solo sulla base della nomea che hanno da tempo. In realtà questi animali sono intelligenti, senz’altro più di questi individui, e poi non sono cattivi; l’asino non è stupido ed è stato in passato una forza lavoro molto utile per l’uomo, le pecore sono molto socievoli, i maiali sono annoverati addirittura fra gli animali più intelligenti che ci siano e se si rotolano nel fango lo fanno per ragioni di termoregolazione e addirittura per motivi di igiene e difesa dai parassiti.

Forse serve un animale più cattivo, spietato e privo di veri e propri pregi, la vipera ad esempio. Sì, “VIPERE da tastiera” mi piace già di più, perché questi individui hanno proprio il veleno dentro e non vedono l’ora di buttarlo addosso agli altri, sono bravi a mimetizzarsi nella rete, vi si nascondono e strisciano (perché di camminare diligentemente non sono certo capaci) in quel viscido terreno fatto di esibizionismo e menzogne, gettando di tanto in tanto il veleno per poi nascondersi di nuovo nella loro inutilità, sono esseri territoriali e la nullità è il loro territorio.

Oppure per sminuirli ulteriormente e definitivamente si può paragonarli a qualche sempliciotto e dannoso organismo, ad esempio i virus. Sì, loro sono “VIRUS da tastiera”, perché sono dei veri e propri patogeni del web, diffondono il contagio della loro cattiveria e della loro ignoranza, innescano una reazione a catena che porta numerose persone altrettanto ingenue ad imitarli e a creare una vera e propria pandemia digitale. Forse c’è un vaccino per estirparli, quello dell’istruzione e dell’educazione, da somministrare fin da piccoli.

Insomma, ci sono diversi appellativi, alcuni che calzano a pennello e altri un po’ più forzati, ma vi prego, NON CHIAMATELI LEONI…

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editoriale di Stanlio

Gli Amici Quelli Veri, chi ne ha?

Segono le poche parole di Vasco:

"La droga era una fuga dalla fatica di vivere.

Mi trovarono con 26 grammi di cocaina.

Ho fatto quasi un mese di galera, cinque giorni in isolamento.

L'unico a venirmi a trovare fu Fabrizio De André, con Dori."

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