editoriale di macaco

Una questione risolta e irrisolta mi accompagna in questi ultimi tempi (spero non tempi ultimi), in certi momenti aleatori nell´arco della giornata con una predilezione del dormiveglia.

É apparsa cosí, non ricordo come, e tutt`ora fluttua fra le onde del mio campo mentale.

Oddio... é una cosa che puó sembrar semplice e banale, non sto di certo parlando dell´equazione di Schrödinger, o dell´universo olografico, eppure la sua (o mia) semplicitá da spazio a certe elucubrazioni che andró brevemente ad esporre.

La domanda é: Zerovirgolanoveperiodico é uguale a uno?

La risposta a una domanda binaria é inutile senza la sua giustificazione.

Io rispondo si, con una certa sicurezza, o vorremmo veramente considerare rilevante una parte infinitesimale dell´infinito? Questo lo si puó affermare senza avvalersi della libertá che la matematica spesso si prende nell´approssimare.

Osservando la formula si nota come da un lato ci sia la ripetizione di un numero all´infinito, e dall´altro il simbolo piú semplice, una linea verticale, l´unitá. Vorrebbe forse dire che infinito e unitá coincidono? Avremmo cosí bisogno di rivedere la nostra idea di unitá, mentre la nostra idea di infinito resterá l´unica che puó essere, un´idea invissuta. Chissá invece cosa si potrebbe sentire percependo il tutto dentro l´uno.

Un modo di dimostrare la formula é secondo la geometria; il cilindro é un cono col vertice all´infinito.

Per concludere un accenno al numero 9 che appare con caparbitá ipnotica.

Di solito a lui piace nascondersi negli angoli piú reconditi. Per scovarlo peró, basta dividere l´angolo del cerchio sempre a metá e sommare gli algoritmi dei gradi cosí ottenuti. Il risultato sará sempre nove. Esso si mostrerá solo ai 90 gradi, senza malizia. Molte altre son le curiositá su questo numero, con le quale potrete divertivi scoprendole. Per ora chiudo qua e vi lascio alla vostra gioia.

Quindi se volete anche voi irrorrare i vostri neuroni com una dose di sana pazzia, sostituite le pecorelle con questa formuletta.

Buona notte!

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editoriale di Falloppio

Sono un dormiente.

Lascio i Depeche Mode nel 1984 con Gore che prende a martellate un palo della luce e Gahan che lancia pentole giù dalle scale. Periodo di Blasphemous Rumours. Video inguardabile. Musica coinvolgente. Poche altre band dell’epoca spaccavano così con l’elettronica. I teenager vivevano questo movimento, Electrical New Wave, entusiasti. Yo tambien. Ci consideravamo Carbonari. Eravamo in pochi a vantarci di conoscere Tora! Tora! Tora!, My Secret Garden, Something to Do.

Poi esce Black Celebration e li lascio andare alla deriva della musica. Gore era passato dal palo della luce a martellare i miei coglioni. Sento ancora parlare dei Depeche. Ma sono nel dormiveglia e se ascolto, dimentico. Quindi meglio non ascoltare. Perdita di tempo.

Dopo 35 anni, mi risveglio. E che cazzo, i Depeche ci sono ancora.

Guardo un loro concerto e scopro che Gore suona la chitarra e la suona anche male. Non sta più dietro le tastiere a deliziarci con qual suono synt molto 80’s. Hanno persino un batterista che tra l’altro, ha una strumentazione da fare invidia al tour di Palasport dei Pooh. E Gahan? Gahan sembra sempre lo stesso. Voce ipnotizzante e grande presenza sul palco. Il viso di uno che ha vissuto fino in fondo. Un duro dei film in bianco e nero. Ricorda Clark Gable di Via col vento. Allora riprendo in mano tutta la produzione post Some Great Reward. Black Celebration è un discone. Cazzo perché dormivo quando è uscito? E poi? Poi Strangelove, Little 15, Never Let Me Down Again. Ma mica finisce qui. Il bello deve ancora arrivare. Personal Jesus e Enjoy the Silence sono un’accoppiata da brividi. Posso metterle in loop per ore. E come un trattore, macino tutto fino a Spirit.

Torno a fare il dormiente.

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editoriale di Caspasian

La distruzione sistematica dei valori che sempre più ci travolge passa anche dalla chiusura dei negozi di dischi. Le fonti e i luoghi di aggregazione senza fini di lucro (specialmente psichico) devono essere eliminate per espandere a tappeto un controllo totale del "consumatore".

Tutte quelle situazioni accomunanti che creavano incontri, discussioni, confronti sono ormai bandite. Il grande inganno della tecnologia come evoluzione dell'essere umano è stata implementata, la ciliegina sulla torta sarà il microchip.

La peste ha contagiato tutti e tutti sono "felici" di essere assistiti financo nell'atto dell'andare di corpo. Non si è capito che quel buco serve solo per evacuare e non per "accogliere", ma usando quell'entrata le agevolazioni ce lo mettono letteralmente nel culo.

Chi è nato già "tecnologico" non immagina le sensazioni da essere umano che si potevano avere quando quei sabati pomeriggio "si partiva alla caccia", con due soldi in saccoccia ma pronti a tutto.

Sostanzialmente era il viaggio l'essenza di tutto. Arrivati poi al negozio non importava se compravi qualcosa, se avevi i soldi, se non trovavi quello che avevi in mente di prendere, ormai eri lì, inattaccabile, eri arrivato, ce l'avevi fatta... Eri nella tua isola e spaziavi libero senza catene, eri in compagnia nella tua solitudine.

Tra il nuovo e l'usato ti sbizzarrivi nella tua assenza, non c'erano più confronti, il senso di unità ti apparteneva e ti sentivi bene lì dove c'era posto per tutti, dove tutti erano nella stessa barca, dove tutti tifavano una sola squadra.

E non mi si dia del patetico, qui non ci si piange addosso, sto solo constatando una cosa: eravamo felici!

Un utente nel 2007 su un blog sintetizza l'inevitabile, ma attenzione, i nuovi giovani transumanesizzati non butteranno solo i CD dei padri...

Argonath scriveva: "Disfunzioni... che bei tempi... c'annavo du' vorte a settimana tra er '90 - '92 a sbavà sui ciddì che numme potevo comprà; già manco quelli... vicino all'università c'era un negozzietto andove i ciddì se potevano affittà e io meli scopiazzavo su musicassetta.... poi ho fatto i sordi e mò sò pieno de ciddì che le mie figlie tra 15 anni butteranno ar cesso...
Ammazza che traggedia."

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editoriale di kosmogabri

E poi improvvisamente, una sera che rientri a casa e ti immergi nei social, leggi una notizia che ti gela il sangue nelle vene, non ci credi, non può essere vero, è così assurdo. Un figlio che uccide il padre, in quella villetta di periferia in provincia di Alessandria. Cerca di bruciarne la salma in giardino. Il ragazzo ha poi confessato. Poche righe su un portale di notizie che definiscono l'orrore più assoluto. Tu quel padre lo conoscevi. Anche se a distanza di chilometri su chilometri. Un'amicizia virtuale che durava da più di quindici anni. Che poi dicono di questi social, ma a volte sì, certe amicizie sono più inossidabili di quelle nella realtà. Come in un mondo parallelo ma non per questo meno importanti.

Tu quel padre lo conoscevi, quante volte avete parlato di musica, di libri, di cinema, qui su Debaser e su altri forum, e su facebook. Di emozioni, di piacere, di bellezza. Quante volte avete chattato raccontandovi le vostre preoccupazioni, i crucci, gli insuccessi. Quante volte quel padre ti ha consigliato o rassicurato. Una presenza costante, su cui fare affidamento. E i suoi messaggi di coraggio durante il lockdown, intrisi di pazienza. E i suoi ultimi post su facebook, quel libro che aspettava con impazienza. Niente faceva presagire la tragedia. Ma è avvenuta. Brutale, incomprensibile, atroce. Disumana.

Impossibile definire il turbinio che ruota vorticosamente nella tua testa. Vortice che che provoca solo vuoto. Un vuoto che mai più sarà colmato dalla intelligenza, cultura, signorilità, arguzia, curiosità, passione di questo padre. Altre parole non sono esprimibili.

Addio Voodoomiles.

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editoriale di Falloppio

L'anno 2020 è stato un calcio sui coglioni per la musica indipendente. Poveri musicisti (la parola musicista forse è troppo per chi non suona per professione, più corretta la parola musicante). Poveri noi.
Suonare dal vivo una volta al mese per prendere quattro spiccioli e investirli subito per comprare della nuova strumentazione. E continuare a spendere in sala prove e in benzina per andare in giro a cercare altri locali.
Così l'anno della pandemia ha dato un bel colpo secco a tutto. Un colpo di spugna sul bancone per togliere gli aloni dei bicchieri della birra che chi suona, conosce bene.
Il musicante beve.
Chi suona ha sempre sete. Ricordo il mio chitarrista Francesco che dopo un concerto voleva andare a fare rissa con il gestore del locale perché non voleva pagare. Perché non ci paghi? Cazzo! Perché il tuo chitarrista ha bevuto 23 Ceres! Fra perché hai bevuto 23 Ceres? Perché avevo sete.
Se fai musica hai sempre la gola arsa. Qulacosa brucia dentro.
E nel 2020? Punto a capo. Cosi si può dire "C'era una volta". E come sarà il dopo? Quien sabe.
Certo che io dopo 14 anni di inattività decido di far uscire il mio disco il 15 marzo 2020. Lockdown. O come dicono i francesi "confinement', parola che spiega meglio il periodo. Stop. Tutti fermi. Tutti in casa. Via la musica, su la mascherina.
La voglia di suonare non è più una priorità. Almeno non lo è per gli altri. Gli artisti, quelli veri, con la diretta streaming. Gli altri, noi, con un disperato WiFi con il quale non riesci neanche a parlare con WhatsApp. Perché la voce va a scatti, le immagini si bloccano saltellando.
Una giusta selezione naturale. Chi ha i mezzi in qualche modo riesce ad andare avanti per gli altri buio pesto
Provo a immaginare un futuro prossimo. Ma faccio fatica. Si ricomincerà a suonare dal vivo, nei pub, nelle birrerie, ma sento che qualcosa si è spezzato, incrinato, un segnale distorto. Non si parla più di procedere in salita, questa è l'ora dell'arrampicata.
L'energia non c'è più. Consumata dall'omicidio dell'idea, della genialità, l'eliminazione dell'artista da strada
Non gliene frega un cazzo a nessuno della minoranza. Una minoranza di Rockers.
Cosa si può fare? Si ricomincerà senza strategie. Con tanta voglia di suonare. Perché musicante ha sempre sete.
Flavio ordina delle birre medie.
Chi vuoi bere? Questo giro lo offro io.

(Scritto a cazzo dal cellulare)

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editoriale di kloo

Quando l'età era tenera i ricordi si sfumano e si possono racchiudere in un arco temporale che va dal 1993 al 1997, quello era il periodo dei viaggi con papà che siano vacanze o per fare commissioni. Il mangianastri, dell'uno grigio prima e della tipo nera poi, era l'unico mezzo per poter ascoltare musica in macchina.
Mio padre era (è) un patito di progressive rock e hard rock e degli ann' 60 e 70 (prima metà) in genere, le meno scontate:

In Hiding
Hymn For The Children

Nothing Left To Lose
Autumn
Come Away Melinda
Lazy

Poi ce ne sono tante altre che ora non arrivano ma che se necessario aggiorneranno questo editoriale.
La seconda fase è quella MTV, quindi, canzoni che ascoltavo assieme a mio fratello più grande di 6 anni nel periodo tra il 1997 e il 2001.

Smack My Bitch Up INVERNO 1997-1998
Intergalactic PRIMAVERA 1998
Acida PRIMAVERA 1998
Life ESTATE 1998
Deeper Underground ESTATE 1998
Music Sounds Better ESTATE 1998
Ava Adore ESTATE 1998
I'm Think I'm Paranoid ESTATE 1998
Narcotic AUTUNNO 1998
If You Tolerate This AUTUNNO 1998
Fly Away INVERNO 1998-1999
My Favourite Game INVERNO 1998-1999
My Name Is INVERNO 1999 (NBA 1998?)
Praise You INVERNO 1999
Flat Beat PRIMAVERA 1999
Valvonauta ESTATE 1999
Freestyler ESTATE 1999
Scar Tissue ESTATE 1999
Rollin' INVERNO 2000
Rock DJ ESTATE 2000
One More Time INVERNO 2000-2001
Stronger INVERNO 2000-2001
Starlight AUTUNNO 2001


E tantissime altre in cui la mia memoria inganna.
Dopo gli anni delle medie tutti si assestò: I miei fanatismi divennero metastasi, Napster/Emule/Winmx divennero di uso comune ed il sapere musicale diluito e senza tempo e la mia cultura musicale si ampliava fino ad erodere il conosciuto.
Arrivò QOOB ed i primi acquisti, il passaggio al negozio di dischi e le prime band brufolose.

EXTRA:

Trigun
Celebrity Deatmatch
Daria
Excel Saga
NGE
Slam Dunk


e ancora

Daltanious

Daitarn III
Demetan
Nana
Carletto

Memole
Bia

Vultus V
E' Quasi Magia
Occhi di Gatto
Ken


Buon Ascolto...

.









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editoriale di Stanlio

O meglio, alcune canzoni dei miei ricordi dal ’65 al ‘74:

Viva la pappa col pomodoro credo fosse all'incirca nel ’65 avevo 6/7 anni e la sentii (vidi) alla tv…

La Bambola era una sera d’estate e stavo sotto le lenzuola nel mio primo collegio (a S. Vito Al Tagliamento) la musica veniva da fuori chè tenevamo le finestre aperte per il caldo…

Il Silenzio anche questo lo mettevano quasi sempre la sera in collegio quando andavamo a dormire (marò che tristezza) e mi piaceva un sacco…

Senza luce - Piccola Katy qui ero nel secondo collegio (a Conegliano) in camera di amici più grandi…

Probabilmente fu la prima in ingles Let It Be e ed ero nel mio 3° ed ultimo college (a Milano) ci rimasi per le medie e le superiori in totale 7 anni…

Niente da capire la mia prima vacanza con gli amici, 15 giorni in tenda prestataci dal prof. di educazione fisica, a Marina di Massa…

E niente (siccome mi si stringe il cuore) mi fermo qui che poi uscii dal collegio e dal mondo della scuola (dove m’ero abituato) e quel poco che imparai mai mi servì veramente (a parte leggere e far di conto ed anche un po’ di francese e un po’ più d’inglese…), per entrare nel nuovo mondo dove mi trovo tutt’ora e a cui non mi sono ancora abituato…

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editoriale di zaireeka

Premessa fondamentale:

Questa mia cosa non vuole essere l'ennesima rivisitazione ed emulazione di "Alla ricerca del tempo perduto" di M. Proust o di "Anima mia" (il programma televisivo) bensì nasce dalla constatazione che la musica ed in particolare l'ascolto di alcune canzoni si è legato per sempre, nella mia memoria, in maniera a volte misteriosa, a singoli episodi della mia vita.

Il mistero nasce dal fatto che a volte nè la canzone nè l’episodio sono in indimenticabili (ci sono stati tanti altri ascolti di quella canzone e ho vissuto altri episodi simili in altre circostanze), e allora forse c’è qualcosa che mi sfugge che mi porta a ricordare quella strana coppia..

Penso che comunque questi episodi, insieme alle canzoni su cui sono scolpiti, siano preziosi perché le vedo un po' come delle pietre miliari, che in se possono anche non avere un particolare valore (in fondo sono solo pietre), ma aiutano ad orientarsi e soprattutto a capire quanta strada si è fatta e come in fondo si è rimasti sempre uguali, apparentemente cambiando.

Ho cercato di elencare le prime che mi venivano in mente (nel periodo in questione per quanto mi riguarda, forse verrà una seconda parte), sarebbe bello che qualcun altro lo facesse, così, per conoscersi meglio, di me penserete, forse, che sono solo un clandestino che si spaccia per capish, o lo sono diventato solo con il corso degli anni :-)...

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Erba di casa mia (marzo 1972):

La prima canzone da adulti che ho davvero adorato, la ascolto registrata, direttamente dalla tv, sul registratore a bobina di mio padre, in stanza di mia sorella.

Non pensarci più (Novembre 1974):

Una domenica sera, il giorno più triste della settimana, sul televisore in bianco e nero a casa di alcuni miei zii.

Kung fu fighting (Giugno 1974), Ramaya (Luglio 1975):

Pura gioia infantile, dimenandosi e stupido come solo un bambino sa essere senza sentirsi tale, in un giorno di vacanza come tanti.

Michelle (Agosto 1976):

Ascoltando questa canzone, la imparavo a suonare sulla mia prima chitarra (una Eko) in un albergo di montagna nella Sila piccola (Calabria). Io e mia sorella abbiamo da poco scoperto i Beatles.

'A canzuncella (Ottobre 1977):

La suonavo alla chitarra a casa di un mio amico vicino di casa, sto affrontando i barrè. La madre aveva preparato il riso allo zafferano, un colore giallognolo, disgusto totale.

Dimentica Dimentica (agosto 1977):

Sempre in quel villaggio di montagna, la sento al juke box e mi prende un magone terribile, sempre colpa delle vacanze che stanno finendo...

I’ll write a song for you (maggio 1978):

Di ritorno, di notte fonda, da una gita delle medie. La radio sul pullman la trasmette. Indimenticabile atmosfera.

How Deep is your love (dicembre 1979):

Ad una festa di compleanno, la mia compagna di classe del ginnasio per cui mi sono preso una grande cotta mi invita a ballare apostrofandomi “il più carino della classe” (vabbè, c'era sotto anche un gioco di parole..) ed io timido come un koala rifiuto..

Stella di mare (agosto 1979):

Ne ho già parlato.

Feste di piazza (agosto 1980):

Sono un fan scatenato di Bennato. Provo a suonarla e a cantarla, munito di chitarra e armonica a bocca (il supporto per tenerla davanti alla bocca fatto da me con un filo di ferro abbastanza robusto...), davanti a un pubblico di amici, nella loro casa al mare. Un po’ per sfottermi mi chiamano Benny..

Fifth of firth (ottobre 1983):

Nel salone di casa dei miei, ho scoperto da poco i Genesis grazie a un collega universitario, le mega-casse Sansui sul mobile di pregio del salone (mia madre si lamenta della cosa...) suonano a tutto volume.

Sinfonia n.5 di L.V. Beethoven - Primo movimento (Giugno 1985):

E' da poco successa la brutta storia dell'Heysel. Ho appesi in camera mia articoli di giornale pieni di odio per il Liverpool e per i suoi tifosi, e per tutti gli inglesi. Affianco un immagine, tratta da una edizione in vinile della sinfonia, di H.V. Karajan che la dirige, in posa maestosa.

I just called to say I love you (Febbraio 1986):

Il primo ballo con mia moglie, in un posto non eccessivamente magico, appena conosciuta.

Amori in corso (Marzo 1986):

A casa di mia moglie, su una poltrona, una in braccio all'altro. Su un piccolo stereo gira l'album che le ho regalato da pochi giorni.

Alta marea, Mare mare (Luglio/Agosto 1992)

Una sbandata per una collega, la classica “bottiglia che ti ubriaca senza averla mai bevuta”. In macchina, in fuga verso il mare, da solo.

Non sparare (Ottobre 1992):

Icaro è un grande album, Renato Zero è una passione della mia ragazza, momentaneamente ex, ascolto questa canzone, sono particolarmente stupido, ingenuo e sensibile, si vede dagli occhi. In macchina senza una meta, da solo.

La lambada, Guantanamera (Giugno 1995):

In viaggio di nozze a Cuba. In piscina, di giorno, e la sera, il ballo nazionale cubano.

Il ballo di S. Vito (Agosto 1997):

Sulla spiaggia, bagno di mezzanotte. Pura gioia infantile, canto a squarciagola, dimenandomi e stupido come non solo un bambino sa essere senza sentirsi tale...

Another lonely day (Giugno 2000):

Comprato l'album il giorno prima della nascita di mia figlia. Lo ascolto, da solo in casa, alle cinque di mattina, da mezzogiorno saremo in tre.

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editoriale di enbar77

Qualche anno fa, quando era da poco iniziata la mia avventura sul sito, avevo pubblicato una recensione piuttosto critica sul primo album dei Doors. Venni naturalmente subissato da improperi perché, principalmente, secondo chi credeva di saperne più degli altri, avevo osato non dargli un voto pieno. Nulla da eccepire sulla qualità del disco assolutamente altissima ma, il voto monco aveva una sua spiegazione: mi domandavo, sperando in una risposta esaustiva da chi ne sapesse più di me, quale sarebbe stato il peso specifico di Morrison senza i Doors. Qualcuno, non senza malafede, fece il bullo dicendo che i Doors senza Morrison (io mi interrogavo sul contrario) avevano scritto solo la pietosa “No me moleste mosquito”. I Doors erano un gruppo e non solo Jim Morrison. Lo ribadisco. Ognuno non poteva fare a meno dell’altro. Punto.

Allora mi domando ancora, chi era Jim Morrison? Morrison aveva talento da vendere, una personalità molto complessa a volte inerte o ad azione inerziale, vampirizzata da chi poteva trarci una qualsiasi forma di profitto. Era un ragazzo bellissimo che si trovò nel posto giusto e al momento giusto in una America martoriata dalle pessime notizie provenienti dal Vietnam e che sentiva la necessità di evadere, pur in modo stupefacente. Era fondamentalmente schivo, insicuro, caratterialmente debole ma molto passionale. I suoi pensieri, profondi, immortalati su montagne di taccuini, venivano molto spesso declamati (anche bene) ad un pubblico di pochi estimatori che riuscivano a coglierne il senso. Sapeva mescolare sesso e poesia, droga e misticismo. Un perfetto animale da palcoscenico che sapeva estasiare il pubblico con furiose danze sciamane, urla selvagge e brucianti provocazioni. In quegli anni ci poteva stare tutto. Anche quegli “inviti” al parricidio e ad un edipico incesto, molto spesso abbonati dalla feroce ipocrisia del bigottismo a stelle e strisce. I Beatles per molto meno furono crocifissi in sala mensa dal Ku-Klux-Klan e i loro album fecero la fine di Giordano Bruno. Un miserevole tentativo di arginare la “British Invasion”? Mah… Ci poteva stare tutto. Anche i voli d’angelo sul pubblico trepidante e i crolli sul palco tutte le volte che veniva fucilato dal Milite Ignoto. Però Morrison era anche una irriducibile testa di cazzo, oltre al fatto, fondamentale, che senza gli altri Doors non sarebbe mai diventato il mito tuttora vivente. E adesso non venite a dirmi che non è vero.

Morrison, forse, voleva essere un nuovo Lenny Bruce o un “poeta maledetto” e fu Manzarek, vero collante del gruppo, a cogliere per primo l’intensità dei suoi scritti, convincendolo a musicarli. Altrimenti, tutte quelle canzoni che ancora resistono ai tempi dell’attuale e indecoroso pattume musicale circolante, non sarebbero mai state scritte. Paul Rotchild, produttore e rollatore di canne da competizione, era uno che ci aveva visto giusto e giocò le proprie carte. Cosa sarebbe stata “Light my fire” senza l’abbrivio d’organo di Manzarek, l’assolo centrale di quest’ultimo che passa la palla ad un eccellente Krieger, il commento percussionistico sporco ed efficace di Densmore? Cosa sarebbe stata “People are strange” senza il riff di Krieger e l’intermezzo da piano-saloon di Manzarek? E quell’accordo echeggiante che chiude il brano infrangendosi sullo “…strange” distorto di Morrison? Fenomenale. La tastiera onomatopeica di “Riders on the storm”? L’assolo che brucia l’incursione di Mr. Mojo in “L.A. Woman”? Chapeau. E meno male perché nella versione presente sull’album omonimo, Morrison, innaffiato d’alcool, canta come se avesse una zolla di terra tra le tonsille. E il riff spagnoleggiante di “Spanish Caravan”? Le corde accarezzate per l’effetto straniante di “The end”? L’incursione di “Roadhouse blues?” E l’incipit di “Love me two times”, “Break on through”? “Strange days”, a mio avviso la più bella canzone del gruppo, racchiude tutto il potenziale dei Doors, impreziosita da una lisergica parte cantata, dalle percussioni tribali di Densmore e dal basso di Doug Lubahn. Certo, ovviamente senza Morrison tutto ciò non sarebbe mai stato creato. Quando ci stava con la testa, con il cuore e (non me ne vogliate), con il gioiello eretto, Morrison faceva emozionare. Senza di lui nessuna delle canzoni citate avrebbero beneficiato della stessa anima, così come senza gli altri le stesse non sarebbero mai diventate tali. Purtroppo, tranne l’album di debutto ed “L.A. Woman”, gli altri andarono piuttosto maluccio. Morrison pativa molto il successo fulminante dei Beatles e, alla faccia dello Scaruffone, li ammirava. Esiste una versione di “Tomorrow never knows” improvvisata con Jimi Hendrix, mentre Krieger, spesso e volentieri suonava le note di “Eleanor Rigby” nell’intermezzo di “Light my fire”. Nel 1968, su invito di George Harrison, Morrison fece visita ai coleotteri durante le sessioni del “White Album”, dove con tutte le probabilità partecipò ai cori di una delle tracks di “Happiness is a warm gun”.

Ma cosa voleva essere Morrison? Attore? Poeta? Cantante? Perché rifiutò il poderoso trampolino offertogli da Andy Wahrol? Perché riuscì a farsi bandire dall’Ed Sullivan Show? E Michael McClure? Francois Truffaut? Incomprensioni? Forse. Ma anche perché era una testa di cazzo. Mi dispiace dissentire da Manzarek quando questi si dolse con Oliver Stone per aver dipinto Morrison, nel film su di lui incentrato, come un pazzo e un ubriacone. Purtroppo e sottolineo purtroppo, lo era. Film che, tra l’altro, a parte qualche enfasi di troppo per questioni di romanzatura, lo descrive fin troppo bene e non solo sotto il profilo peggiore come alcuni critici sostengono. Nelle quasi 600 pagine della biografia di Stephen Davis, non esagero se in almeno 2/3, Morrison risulta completamente ubriaco, strafatto o entrambe le cose. Gli eccessi hanno contribuito fattivamente a consumarlo così rapidamente sul palcoscenico della propria vita. Cosa sarebbe diventato Morrison con qualche eccesso in meno, qualche rifiuto in meno e qualche ragionamento in più? Negli spettacoli dal vivo, niente di meglio per esprimere al massimo le proprie virtù artistiche come invece fu per Jimi Hendrix, sarebbe bastato abbandonarsi alle innovative performances di cui sopra: 7 volte su 10 veniva lasciato da solo, anche perché era difficile stargli dietro, dagli altri membri del gruppo, (Densmore ne risentiva moltissimo) sorretto esanime dall’asse del microfono o addirittura abbandonato dal pubblico tediato da sconclusionate e biascicate “Celebrazioni del Re Lucertola”, altrimenti suggestive se fosse stato quantomeno sobrio. Per non parlare delle volte in cui venne cacciato dagli organizzatori o trascinato giù dal palco e arrestato (11 volte) dalla polizia. Non si contano le volte che veniva ritrovato collassato sulle panchine o privo di sensi tra i cespugli di un parco dopo aver vomitato sui passanti. Spesso veniva sorpreso ad urinare in pubblico sul primo muro a disposizione o disprezzava esplicitamente le persone di colore etichettandole con il razzistissimo “Negri!”. Se la memoria non mi inganna ne fece le spese anche Arthur Lee dei Love ma come riassume chiaramente Davis:“Jim'spoteva tracannare due dozzine di bicchierini di whisky e una dozzina di birre senza darlo a vedere. Poi però bastava un altro bicchierino per trasformarlo in un barcollante, psicotico ubriacone che gridava – Negro! - per le strade…”. Spesso fu anche violento e non sono poche le donne che hanno assaggiato le mani (o le bottiglie) di un Morrison completamente stravolto da alcool o droghe, dove anche Janis Joplin, presa per i capelli ma non picchiata, ne seppe qualcosa.

Anche la Courson, una eroinomane dalla mutanda allegra, contribuì attivamente e passivamente alla sua distruzione. Le litigate per motivi di gelosia sono state molteplici e furenti con relativo e reiterato scambio di conifere: lui con giornaliste o cameriere, lei con spacciatori o amici del momento. Più divisi che uniti dicevano di amarsi, anche se la presenza di lei si materializzava puntualmente quando sfasciava una macchina che lui prontamente gli ricomprava, quando doveva provvedere all’inventario di costosi capi d’abbigliamento di una improbabile boutique e quando doveva andare ad abitare in sontuose villette in affitto. Fino al triste epilogo, quando lo lasciò galleggiare imbolsito e pietosamente gonfio, in una vasca da bagno in Rue de Beautreillis a Parigi. Aveva 27 anni e ne dimostrava più di 40.

Qualche anno fa ho avuto la fortuna di visitare il dedalico cimitero di Père-Lachaise, non senza una mappa quasi inutile e una buona dose di pazienza. Quando sono riuscito a scovare la sua tomba, dopo essere inciampato su quella di Chopin e di Jacques-Louis David, ci sono rimasto male. Nessun pellegrino. La vecchia lapide divorata dai graffiti è stata sostituita e cautelativamente transennata, all’ombra di qualche quintale di gomme masticate. L’ho salutato e gli ho reso doveroso omaggio. Ma gli ho anche detto che era una testa di cazzo. E non venite a dirmi che non è vero.

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editoriale di Kiodo

Sento la necessità di dover aprire questo pezzo con una premessa utile a chiarire una volta per tutte alcuni punti riguardo la mia posizione: non sono un recensore musicale.
Addirittura non ho direttamente a che fare con la musica da anni. Molto più semplicemente, sono il tipo di polemista seriale che trova nella scrittura la sua migliore occasione per formulare pensieri di senso compiuto, del tipo che utilizza i versi delle canzoni come intercalare.
Penso in musica, scrivo per limitare la pessima abitudine di rimanere solo con i miei pensieri ed il confluire degli stessi attraverso sonore bestemmie che squarciano il silenzio dei pomeriggi feriali.
Perché si, sono un anonimo operaio e questo è qualcosa di particolarmente rilevante per questo editoriale.

Quando gli Spanish Love Songs uscirono con "Schmaltz", il secondo capitolo della loro fin quí giovane carriera (nonché l'album che mi iniziò al loro ascolto), avvertii in maniera pressoché netta la sensazione che quel disco fosse esattamente ciò di cui avevo bisogno.
C'è stato fin da subito qualcosa nel suo lirismo, un livello di onestà che sentivo mancare da altre band che avevo consumato di ascolti fino al giorno prima.
Fra i diversi elementi che personalmente mi parvero rilevanti del disco, quello che ha catturato in misura maggiore la mia attenzione è stato anche quello presentato nella maniera più inaspettatamente sincera: uno sguardo (veramente) onesto ad apatia e depressione.
Non si trattò assolutamente del solito disco su come le cose sarebbero andate meglio, ma su come non sarebbero mai andate.
Il che si rivelò utile, in un certo senso, ad affrontare un periodo non propriamente esaltante, togliendo la pressione e sostituendo la speranza con l'accettazione. Per citare un verso di "Haloa To No One:

“Potresti cambiare taglio di capelli, ma sembrerai sempre imbarazzante. Il tuo mal di schiena potrebbe anche alleviarsi, ma non ti riposerai mai. Potresti andare avanti, ma non ti sentirai mai importante. Potresti stare bene, ma non sarai mai il migliore. Quindi quando ti svegli e sai che non starai mai meglio: nasconditi sotto le lenzuola, la tua stanza sarà sempre un disastro. "

Con l'avvicinarsi della pubblicazione di " Brave Faces Everyone ", quindi, i miei colleghi di fanbase ed io eravamo entusiasti per il nuovo sforzo della nostra nuova band preferita. Detto questo, tutti mettemmo le mani avanti (ma dai?), come a scongiurare il fatto che probabilmente il successore di "Schmaltz" non avrebbe avuto la stoffa per raccoglierne il testimone.

Ed invece, gli Spanish Love Songs fecero qualcosa che non mi aspettavo, nel momento nel quale meno me lo sarei aspettato, di nuovo: mi sorpresero.

E, nel farlo, mi trovarono senza parole.
Consapevolmente o meno, sembró fin dal primo ascolto che " Brave Faces Everyone " riprendesse un discorso mai veramente concluso con " Schmaltz ", ma invece di infierire ulteriormente verso l'interno, il loro sguardo questa volta fosse rivolto verso l'esterno.

Attraverso gli stessi canoni di scrittura fatalistici di questa nuova corrente di "punk emozionato", gli Spanish Love Songs agitano il loro contenuto lirico per ottenere una nuova miscela e discutere sulle prime di capitalismo di classe e poi, una volta scaldato il motore, di gentrificazione, sparatorie scolastiche, abuso di droghe, traumi generazionali, abuso di potere da parte della polizia (ben lontani dai fatti di Minneapolis) ed altro ancora.
Tutto questo senza sacrificare il marchio di fabbrica, la straziante semplicità del loro modo di raccontare storie, realizzando quello che è un album punk-rock nell'accezione più squisitamente contemporanea del genere, profondamente personale e straordinariamente politico:

“Quindi, sto lasciando la città. Forse il paese. Forse la terra. Troverò un posto tutto mio, dove i coglioni non sono poliziotti che pattugliano i quartieri di cui hanno paura. E il resto di noi non si esaurirà spostando la gente del posto dai quartieri di cui abbiamo paura. Ora, se non venissimo salvati ogni volta dai nostri genitori saremmo morti. Cosa succederà quando saranno morti? "

-" Losers 2 "

In questo disco la band riesce a catturare le ansie e i fattori di stress del nostro momento attuale, senza prendere eccessive distanze dai propri privilegi. Di più, riescono a farlo senza sporcarsi di appropriazioni culturali dei simboli delle comunità oppresse a cui non appartengono:

"Hai detto 'l'ansia è il tema comune delle nostre vite di questi tempi'. Non posso nemmeno bere il mio caffè senza sfruttare qualcuno o rendere miliardario un altro milionario. Cosa ci vorrebbe per essere felici? Probabilmente inizierei con i loro soldi.

-"Optimism (As A Radical Life Choice)"

E tutto questo, la densità emotiva di temi mai così sentiti come oggi, esplodeva con la pubblicazione di "Brave Faces Everyone" in data 20 febbraio 2020, appena prima che la scia di eventi che tutti noi conosciamo si avventasse improvvisamente sulla nostra quotidianità, riducendoci come niente prima di allora a mucchi d'ossa e nervi scoperti.

Nel complesso, a distanza di 5 mesi da allora, mi scopro improvvisamente a non essere soddisfatto neanche un po' dalla risposta della maggior parte del movimento alternative/punk al momento che stiamo vivendo; senza fare nomi, è scioccante per me che non ci sia stata una sorta di rinascita del punk-rock.
Perché se da una parte continuo ad ammirare molte delle band di questa non-scena contemporanea con la loro apatia, con quell'atteggiamento "io ed i miei amici sul furgone e nient'altro", il fatto che in tempi di lockdown (tanto per fare un esempio) si siano preoccupati maggiormente di vendere ticket per show privati in streaming piuttosto che scendere in strada, per me è allarmante.
Sembra consapevolmente apolitico, in un momento che dovrebbe essere tutt'altro.

Ancora più interessante, almeno per quanto mi riguarda, il fatto che molte di queste band si allineino effettivamente al femminismo, o Black Lives Matter, o a qualche ideologia generalmente progressista, il che è grandioso, eppure faccio fatica ad ignorare il pruriginoso rimirarsi da parte di alcune delle suddette band nel riflesso di certi stilemi ed inevitabilmente finisco col chiedermi: è un fallimento della cultura e del genere di cui mi sono innamorato? Questa realtà vissuta al ritmo di meme non consente un esame più approfondito? Può esserci altro che esuli dal discorso "sbattimenti e deprenoia"?

Sono contento che così tante band di estrazione rock stiano prendendo posizioni nette allineandosi ad una forma di pensiero progressista, ma se all'atto pratico non si traduce nel materiale musicale, cosa stiamo davvero realizzando?

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editoriale di CosmicJocker

Ieri sono andato al bar...
... Che incipit del cazzo!

Ma del resto quale incipit non lo è? Avrei dovuto cercare qualcosa di gustoso (o che credo lo sia) per provare ad incuriosire fin da subito chi sta leggendo 'sta cosa; non che non l'abbia mai fatto, anzi, solo che oggi voglio restare il più possibile fedele all'impressione che mi sta spingendo a buttare giù queste righe... E poi, in fondo, a che serve un incipit gustoso? Vanità, vanità, tutto è vanità. Vanità di chi scrive titillandosi l'ego e vanità di chi legge soppesando il godimento estetico ai margini del suo sorrisetto complice.

Dunque sarò brutale: ieri sono andato al bar.

Non vi starò neanche a dire l'ora in cui ci sono andato. Mattina, pomeriggio, sera? Che stronzate senza importanza.

Mi sono seduto, ho preso un paio di bicchieri di vino (bianco o rosso?), qualcuno ha parlato con me, io rispondevo (almeno mi pare di ricordare) e c'erano i Clash in sottofondo.

Solo che dopo un po' è accaduto qualcosa, qualcosa di non particolarmente nuovo per me, ma ieri ha avuto una risonanza, come dire... Avvolgente.

Tra lo sferruzzare continuo dei bla-bla-bla, tra i respiri ansimanti causati dal caldo combinato con le mascherine, tra le dissonanze di vetri e porte che si aprivano e chiudevano... Il tempo si è fermato.

No, non il tempo. Io. La mia testa.

Non era quella leggera ebbrezza che fa sembrare tutto lontano e ovattato, non era lo sfinimento del corpo che rende indifferenti gli esseri e le cose che ci stanno intorno.

Sentivo i miei pensieri totalmente inconsistenti, astratti... No, neanche. Sentivo piuttosto un vapore tiepido e denso che aveva preso il posto dei miei pensieri.

Sentivo, no... Avevo la percezione di me stesso lì, in quel momento, bilanciavo ogni grammo del mio peso e ogni respiro che emettevo aveva un non so che di nitido, di materico.

Anche gli oggetti e le persone mi parevano semplicemente lì, lì e basta. Non immaginavo storie sul loro conto, non sentivo il bisogno di relazionarmi con loro. Sapevo che erano lì, come me erano lì, come me semplicemente esistevano.

Naturalmente questa sensazione sarà durata solo per pochi secondi e, nel momento in cui ci ho pensato, è sparita d'un tratto.

A posteriori ho pensato a Sartre e alla sua nausea, ma, in lui, l'esistenza delle cose e delle persone in quanto tali era percepita come "di troppo" o "gratuita" ed era precisamente questo a dargli il voltastomaco. Io invece l'ho sentita un'esperienza riposante, quasi gratificante e poi Sartre... Vedete anche questa citazione di Sartre è vanità, o meglio, è vanità e insicurezza insieme: cerco di puntellare e giustificare quello che sto dicendo con ciò che ha scritto un filosofo di riconosciuta fama.

A volte invidio la mia gatta: la sua capacità di essere presente nel presente, il suo sembrarmi immune da inutili crogiolamenti su ciò che sia meglio fare. Eppure... Non è anche lei un essere troppo complesso? Non è certamente immune da vanità visto quanto tempo dedica alla cura del suo corpo e la curiosità che la spinge in esplorazioni sempre nuove nasconde forse un'ombra di atavica inquietudine.

No, ieri io ero come un granchio. Un granchio che asciuga la sua corazza al sole, con le zampette ben salde sulla roccia. Un granchio che non sente altro che il rumore sordo della sua esistenza. Un granchio che semplicemente è.

Devo solo ricordarmi, se mi capiterà ancora quell'impressione, di non troncare involontariamente con le mie chele i secondi che ancora mi separeranno dalla mia esistenza di uomo.

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editoriale di kyra1

L'hotel si rivelò una truffa, un vecchio scannatoio su una strada polverosa e poco illuminata. Alla sera era illuminato da luci rosse, tanto per sottolinearne la funzione. Chiesi dove fosse il centro e mi risposero che bastava fare poche centinaia di metri. Li feci e mi trovai nel viale che attraversava la città : 4 corsie strapiene di BMW cannibalizzate, ridotte all'osso che sfrecciavano come se fossero gli ultimi metri della loro esistenza. E forse lo erano. Minibus stipati in cui la gente sedeva sul cruscotto accanto al guidatore. I marciapiedi erano da percorrere solo con scarpe da ginnastica o da lavoro. Ero a Chisinau, Moldavia, il luogo che riversava badanti sull'Europa fin dal crollo del Muro di Berlino. Avevo voluto fare quel viaggio per vedere i luoghi da cui provenivano le donne che nelle case italiane si occupavano degli anziani lasciando famiglie spezzate e figli senza madre .Bastava un'occhiata al centro di Chisinau, la capitale, per capire.

I negozi esponevano merce miseranda l'unica nota allegra sembrava essere un gruppetto di zingari che suonavano sui gradini di una scala. Camminai a lungo, il viale sembrava non finire mai, i ristoranti erano graziosi e poichè appartenevano ad una catena erano quasi tutti uguali Mi fermai e mi portarono il menù, tutti i cibi erano precotti e molto carini a vedersi, il sapore bisognava immaginarselo. I clienti erano quasi tutti stranieri, affaristi. Dai vetri della veranda vidi la gente diradarsi e dovetti affrettarmi a mangiare visto che chiudevano alle otto e mezzo. Dentro l'acquario in cui ero ci si poteva riprendere dall'inquinamento e dallo stupore per un pò di tempo.

All'uscita un ragazzo giovane era steso per terra e un paramedico lo stava visitando, il ragazzo parve riprendersi e l'ambulanza se ne andò per ritornare dopo pochi minuti, il ragazzo era di nuovo privo di sensi e stavolta lo caricarono. Tornai in albergo e fui di nuovo davanti all'hotel a luci rosse, sedetti su una poltrona di vimini all'esterno, leggermente imbarazzata, ma era ancora presto per i clienti fedeli. La strada era buia, c'era un ristorante chiuso da tempo, auto parcheggiate sui marciapiedi. L'asfalto pieno di buchi sembrava ricoperto di sabbia.

Dopo una notte piena di rumori soffocati la mattina dopo ritornai sul viale e feci colazione in un bar/pasticceria anche quello per stranieri. Al tavolo accanto al mio c'erano due uomini d'affari veneti sorpresi di trovarmi in quelle plaghe volontariamente, uno, il più corpulento, attaccò discorso e disse che aveva una fabbrica in Romania dove viveva con la famiglia, vi si trovava benissimo se era in Moldavia era solo per affari, non poteva darmi indicazioni su cosa vedere perchè, secondo lui, non c'era niente che ne valesse la pena. Dubbiosa. Arrivai , dopo una lunga camminata, fino ad un patetico Arco di Trionfo più piccolo dell'originale ma con una sua funzionalità vi era infatti un orologio incastrato, poi c'era un giardino ben tenuto con uno di quei ristoranti fratelli (Andy Pizzas), una palazzina bianca di cui non conoscevo l'uso e tutto intorno traffico e marciapiedi scassati, gente che trasportava borse piene e masserizie. Mi diressi al mercato che si annunciava con donne che esponevano mercanzia su teli per terra, oggetti vecchi e polverosi peluches consumati, scarpe vecchie e tristi, maglie usatissime. Cose di proprietà della venditrice generalmente abbastanza giovane e scorata. Ragazzini sporchissimi vicino al Mercato sgusciavano noci, sacchi e sacchi, -la Moldavia infatti è insieme alla Romania una grande produttrice di noci, si vendeva frutta per terra, 10 pomodori, uva, tutto polveroso. Il Mercato vero e proprio era immenso, era quello dei Kolchoz, dei tempi buoni, come dicevano alcuni clienti.

Il mercato della carne era grande, di cemento come tutti i manufatti ex sovietici, blocchi di carne sui banchi, petti enormi di tacchino grigiastro che mi tolsero definitivamente l'appetito quello dell'abbigliamento era fatto a scatole incastrate l'una nell'altra, entravi in un corridoio , uscivi in un altro e poi entravi ancora etc etc. La merce proveniva dalla Turchia, niente Cina ma la manifattura e la qualità erano simili. Minibus scassati erano parcheggiati e i buttadentro cercavano clienti spaesati come me. Decisi di farmi un giro a Soroca di cui avevo visto un servizio sulle fantastiche case zingare, chi abitava alla Casa Bianca o in una moschea, cose simili. Il viaggio si rivelò l'ennesimo fallimento: il minibus era privo di ammortizzatori e bisognava stringersi ai sedili, la schiena veniva sballottata violentemente, senza alcuna pietà. Le buche sulla strada non erano semplici buche: erano la strada stessa. Ovunque campagne abbandonate, sterpaglie, auto russe che eroicamente continuavano a funzionare cariche di tutto.Soroca sembrava dormire il sonno dei giusti, alzai lo sguardo sulle colline e là le vidi, colonne , pagode, cupole. Un signore che aveva fatto il viaggio con me disse che non c'era necessità di andare lassù, le case infatti erano abbandonate da tempo. Feci un giro sul lungofiume, una costruzione grande e bianca con un giardino inselvatichito davanti era l'ex casa della cultura, accanto il fiume scorreva, grande ed in apparenza pulito. Sull'altra riva c'era l'Ucraina.

In attesa dell'autobus mi fermai in un bar carino, dentro ad un giardino pubblico, fiori finti e ottoni mi ricordarono qualcosa, dentro c'era una deliziosa aria condizionata, guardai il menù e vidi che Andy Pizza aveva colpito anche lì.

Prima di ripartire feci un ulteriore giro a piedi fuori dal vialone, per fare ciò bisognava attraversare un sottopassaggio: i gradini non esistevano più, sembrava che un branco di topi se li fosse mangiati , arrivata alla fine della scala precipitai nel buio , non si vedeva assolutamente niente, neanche la fine del tunnel, pregando di non mettere piede su qualcosa di schifoso magari un ratto morto o peggio un cadavere o delle feci , proseguii coraggiosamente.. A un certo punto nell'oscurità vidi due lucine e rumore: erano due vigili che trafficavano intorno ad un tombino.Infine "giunsi a riveder le stelle" e mi trovai difronte ad un mega hotel abbandonato e alle più svariate coperture di terrazzi: andavano infatti da muri con finestre annesse a elaborate strutture di ferro battuto, persiane e tapparelle, bambù e forati, c'era da chiedersi come non crollassero sotto il peso .

Non andai a vedere il parco con il lago nè nessun altro parco nè accettai di andare a vedere le cantine e fare gli assaggi di vini, non poteva importarmene meno, ero stanca di quel paese. La sera mangiai per l'ennesima volta da Andy Pizza, in un altro indirizzo ma sempre uguale, e vidi all'ultimo piano di un palazzo luci roboscopiche dove forse si divertivano le ragazze e i proprietari di fabbriche veneti, feci un ultimo giro per la città: casinò e night e karaoke. Per l'ultima volta dormi nell'hotel a luci rosse incurante del via vai e il mattino seguente andai all' aereoporto dove mi disfeci delle banconote locali, piccole come quelle dei Monopoli, dandole di mancia allo stupefatto taxista. Certamente non ci sarei tornata mai più in Moldavia ed era inutile tenerle in qualche borsellino.

Capii anche perchè gli abitanti fuggissero da quel paese, perchè le donne affrontassero vite totalmente diverse da quelle a cui erano abituate , anch'io lo avrei fatto, e di corsa.

Tornata a casa parlai con una vicina ucraina, quando gli dissi che ero stata a Chisinau s'illuminò " Che bella città" disse " Io ho studiato lì, c'erano fiori dappertutto, come mi sono divertita".

Mi chiesi se avevamo visto la stessa città.

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editoriale di iside

#casoumano2020

(22 Giugno 2020)

I VINCITORI!!!

@[MrDaveBoy73] 32 punti

13 PREFERENZE

9 PRIMO POSTO

1 SECONDO POSTO

3 TERZO POSTO

vince tour della Sardegna nel cassone del motobecane (o apixedda) di @[sfascia carrozze]

@[iside] 28 punti

13 PREFERENZE

3 PRIMO POSTO

8 SECONDO POSTO

3 TERZO POSTO

vince crociera Genova/Porto Torres A/R da svolgersi interamente nella giornata del 29 febbraio prossimo venturo


@[dsalva] 24 punti

11 PREFERENZE

5 PRIMO POSTO

3 SECONDO POSTO

3 TERZO POSTO

vince soggiorno della notte fra il 28 e 29 Febbraio prossimo venturo nel sottoscala di @[G]

tutti i votanti sono invitati sulla spurgomobile di @[spurgopozzineri] il 30 settembre 2029

quando nel piano padano bresciano si comincia a spargere i liquami (piscio di maiale) sulle coltivazioni di mais ( furmentù) utilizzando l'apposita "botadela pìsa" (botte del piscio).

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editoriale di andisceppard

A volte, le parole, sono davvero inutili. Basterebbero due foto. Tipo: avete presente i Beatles? (ne avete sentito parlare?). Ogni tanto arriva qualche ragazzino, qua sul debasio. E chiede.

Dice ma i Beatles perché?

Erano i migliori? No.

Miglior cantante? No.

Miglior chitarrista? Ahahahah no!

Migliore gruppo? No.

Migliori canzoni? No.

Basterebbero due foto, per rispondere. Poi uno si fa la sua idea. Giusta o sbagliata. Però se la fa.


Colin nasce a Milwaukee. Il 3 di novembre del 1987. Milwaukee, per chi non lo sapesse - e difficilmente glielo perdono - sta in alto a destra. Molto in alto. Quasi Canada. Fa freddo. Un freddo cane. Ed è la città di Richie Cunningham. Quella di Happy days. Richie andava in giro con un giubbino. La M di Milwaukee scritta sopra.


Nasce nel 1987. Sul serio, lui è uno di quelli che te lo chiederebbe: scusa ma i Beatles? E te - magari - ci perdi tempo a cercare di spiegarglielo. Che sei stupido. E te la dimentichi - questa cosa - che le parole, alle volte, sono davvero inutili. Basterebbero due foto. Ma non ti viene in mente. Colpa dei tuoi maestri, di sicuro. Ti hanno inculcato categorie che hanno poco senso.


Colin - a Milwaukee, la città di Richie Cunningham - viene su. Ed è un bel ragazzone. Lo vedete nella foto (le parole sono inutili, bastano le foto, si sa). Un metro e novantasei. Cento e qualcosa chili. Una faccia da ragazzo intelligente. E per bene.


Colin nasce a Milwaukee. E Milwaukee è negli Usa. E - siccome è un bel ragazzone, con un bel sorriso - può scegliere di fare cosa vuole (è the land of the freedom, the home for the brave). Lui sceglie una cosa. Giocherà a football. No, non a calcio, non fate i provinciali. A football. Quello strano sport con la palla ovale. E - in quel gioco - farà il quarterback.


Ora, se non lo sapete (e difficilmente ve lo perdono) il football è un gioco un po' diverso dal nostro calcio. Ha le sue regole (per qualcuno complicate) le sue storie, i suoi ruoli.

Ed è - unico sport che io conosca ad averlo - un gioco in cui c'è un ruolo che vale più di tutti gli altri. Quel ruolo è quarterback. Proprio quello che sceglie il nostro amico Colin, da Milwaukee, come Richie Cunningham.


Qaurterback vuol dire che sei il più figo. Punto. Il numero uno. Quello che comanda. Vuol dire che ogni ragazza sogna di venire con te.

Poi - è chiaro - dipende da quanto sei bravo.

Da quello dipende se con te vuol venire ogni ragazza di un quartiere di Milwaukee, ogni ragazza del tuo Stato, ogni ragazza del mondo. Ma quello è il ruolo. Entri in campo e tutti guardano te. Solo te. Ci sono - davanti a te - almeno sei ragazzi - grandi due volte te, che si fanno menare per tutta la partita. Solo perché tu possa stare tranquillo. Succede. A Milwaukee, come in tutti gli altri cazzo di paesi degli Usa. Ci sono i tuoi avversari che non vedono l'ora di toglierti dalla faccia quel cazzo di sorrisetto. E tutto il tuo sentirti uno bravo. Cercano te. Tu - invece - hai in mente qualcosa d'altro. Hai in mente che la squadra è in mano tua. E se si vince o se si perde allora sei tu. Che la squadra sei tu. Che se sbagli una cosa le ragazze te lo perdonano (che siano quelle di un quartiere di Milwaukee, o di uno stato, o di tutto il mondo dipende da quanto sei bravo). Però te, quei sei ragazzi - davanti a te, più grossi di te - che si sono fatti menare per darti la possibilità, non hai il coraggio di guardarli in faccia. Che se invece fai una cosa bella tutti dicono merito tuo. E te invece lo sai. Che non è mica solo tuo. E vai da ognuno di quei sei. E gli dici volevo essere insieme a voi. Ero insieme a voi.


Oppure no. Sei stronzo, e te ne freghi. Dipende. Sono cose di carattere. Le parole - già ne ho scritte tante - sono inutili. Guardate la foto. Decidete voi.


Colin gioca quarterback. E' un ragazzone, con la faccia simpatica. E vive negli Usa. All'università va a Nevada. Insomma, come dire, rispetto al livello di quante ragazze verrebbero con te siamo già a livello di fan club. Quelle cose tipo beh, sì, ha personalità, può piacere.

La gente tosta va a Michigan, per dire, o a Tascaloosa, o in Texas, o addirittura in Oregon (lì sono matti per il football) e della California ve ne devo parlare? Lui no. Reno, nel Nevada. Non proprio pieno di ragazze, diciamocelo.


Sia come sia finisce i quattro anni. Lo scelgono i professionisti. Lo sceglie San Francisco.

San Francisco - una volta - quando ero giovane io, era una squadra fortissima. Più che fortissima. Era una squadra bellissima. A livello dell'Olanda di Cruyff. Una roba così. Una roba che dici che bello è che ci sia uno sport del genere e - dentro a questo sport - chi ti sa dire cos'è la fantasia. E che la fantasia vince.


Passati gli anni che ero giovane io - per regole chiare dell'economia di questo sport (sapete, mica siamo in Italia, lì vige il mercato, quello che fa vincere il migliore) - SF diventa una squadra scarsolina. Per parecchi (dolorosi) anni. E lui lo scelgono, e lo scelgono per fare la riserva.


Fa la riserva di Alex Smith. Alex Smith è un bel ragazzone (oh, sei quarterback, quello è il ruolo) che viene da Seattle. Proprio carino. Bello, biondo, preciso. All'università è andato a Utah (gente seria).


Gioca lui quarterback a Frisco. Lui guardano le ragazze. E ci mancherebbe. Boh, dai, Colin, intanto siamo qui. La California non è esattamente Cinisello Balsamo, qualche ragazza bada anche al quarterback di riserva. Ce ne sono tante, e sono generose.


Nel frattempo pensa a fare quello che fanno i ragazzi - pirla - di quegli anni lì. Si tatua. Ovunque. C'ha mica tanto da fare.


Ad accendere la miccia ci pensa un altro personaggio. Uno davvero mitico. Si chiama Jim Harbaugh. In quel momento è l'allenatore dei San Francisco 49ers.


Jim Harbaugh - cosa ve lo dico a fare - da ragazzo ha giocato. Ha giocato quarterback (lo sapete quel ruolo? Quello che tutti guardano te?). Lui ha giocato a Michigan (e voi non potete immaginare che cosa possa voler dire giocare quarterback a Michigan). Poi ha fatto la sua carriera da professionista, che pure ci sarebbe da raccontarne, e adesso fa l'allenatore. E' del 1963. E' uno tosto, Jim. Uno che fa il quarterback. Che sa che tutti guardano lui. Che da lui dipende tutto. Uno anche che se la tira (eh, vedi te... ha visto cose che voi umani...). Voleste immaginarvelo, senza guardare su google, pensate a un giovane Clint Eastwood (a proposito: buon compleanno!).


Jim smette di giocare e diventa allenatore. E' un piccolo Clint Eastwood a bordo campo. Uno tosto. Uno che ha visto cose. E - sia come sia - arriva a San Francisco. Che è stata una squadra fortissima, ma che adesso è di fondo classifica. Adesso, a San Francisco, il quarterback, quello che tutte guardano, si chiama Alex Smith. E San Francisco va mica troppo bene.


Un giorno, un giorno che probabilmente c'ha le palle girate, Jim ne fa una delle sue. Entra in campo. Prende - di peso - Alex Smith (pesa 93 chili, fa niente). Lo trascina fuori dal campo. Gli dice: hai rotto il cazzo. Con me non giochi più. Glielo dice a un centimetro dalla faccia. Gli dice: piuttosto che far giocare te faccio giocare il primo che passa.

Il primo che passa è Colin.


Colin - diciamocelo - Colin da Milwaukee, è meno bravo di Alex. Meno bello, meno biondo. Però lo sa. E' uno che sa che mica è unto dal Signore. Che non è la mano di Dio quella che lancia quei palloni. E' solo la sua. Uno che sa che - per dire - per farti guardare da una ragazza te lo devi meritare.


Ecco, Colin entra in campo, per la mia squadra preferita, e gioca così. Come uno che sa che non è mica la stella. Non uno che hai pagato il biglietto per lui. Però due robe le sa fare. E poi, poi prende fiducia. E le cose vengono bene. E nessuno si aspetta quello che fa. Per forza. Non se lo aspetta nemmeno lui.


San Francisco comincia ad andare bene quell'anno. E io - non l'aveste capito - a San Francisco ci tengo. Da sempre. Da quella squadra che non era solo forte, era bellissima. (bella come una ragazza italiana che ti sorride? Ah, no, scusate, sbagliato leitmotiv).


E Colin gioca. E' il quarterback, questo strano ruolo che ha solo questo strano sport. E gioca a modo suo. Fa a cazzotti. Le becca, anche. Ogni tanto fa delle cose belle. Ogni tanto due cazzate. Quei sei ragazzi, davanti a lui, hanno delle facce che dicono una cosa molto chiara. Per te ci facciamo menare. Per il biondo no.


Oh, succede il miracolo. San Francisco, quell'anno, arriva in finale. E pure lì ci sarebbe un mare di storie da raccontare. La prima è che Jim (vi sarete mica dimenticati?) arriva in finale. E l'allenatore della squadra avversaria è suo fratello. Che non ha mai giocato, mai fatto il quarterback. Ma che è più intelligente. Mica è un bulletto come Jim, John (il fratello). Nono, è uno che sa il fatto suo. Mica si inventa come si fa l'allenatore. Mica che tira fuori prendendoli per le spalle i quarterback.


Poi - davvero - ne succedono di tutti i colori. Tipo che c'è un blackout. Ma davvero, basta parentesi. Finisce che - per un pelo - Colin e
Jim non ce la fanno. Perdono. Di un soffio. La rimonta non gli riesce. Fa niente, dice Jim. Fa niente? Anzi grazie, dice Colin. Arrivare fino a qui non avevo mai osato nemmeno sognarlo! Incidentalmente - molti anni prima - la stessa cosa era toccato dirla a Jim. Che - tra i professionisti - ebbe una buona carriera. E arrivò a un lancio dall'entrare nella leggenda. Quel lancio andò male. Lui disse: io sono fortunato. Da bambino non avrei mai chiesto una cosa così grande come poterlo tirare quel lancio. Forse è anche per questo che Jim Harbaugh, che è un po' bulletto, un po' Clint Eastwood a me sta così simpatico. Forse non è nemmeno un caso che le squadre a cui tengo hanno la antipatica abitudine di arrivare seconde. In ogni caso finisce così, quell'anno. San Francisco ritornata grande, ma seconda. Colin che ha il posto di titolare. Risulterà ottantunesimo tra i cento migliori giocatori della lega.


L'anno dopo ricomincia da dove ci si era fermati. Jim in panchina, Colin in campo. Io che tengo a San Francisco. No, in realtà, si ricomincia quasi da dove si era finito. E anche qui serve una foto. Che non mostra (purtroppo) i tatuaggi che si è fatto durante l'estate. Però - me lo ricordo come fosse oggi - mi fa venire un dubbio. E - subito - per quel dubbio, mi dico quanto sei scemo. Il dubbio, non lo so, ma forse è venuto anche a voi. Ma è NERO? Che dubbio scemo, a pensarci. Che cavolo significa? E' come è. Viene da Milwaukee. Sua mamma ha origini italiane. Suo padre nero, anche se quasi non l'ha mai visto. Lui - in realtà - da piccolo è stato adottato. Americano. Anche quella cosa di dire afro americani non l'ho mica mai capita. Perché Jim Harbaugh cos'è? Euro americano? Dell'Europa non sa niente. Manco mai vista. Come Colin dell'Africa. Dovessimo tornare indietro, nell'albero genealogico del primo forse troveremmo qualcuno che l'Africa l'ha vista. Ah. Bene. Importante. Sempre queste strane, stupide categorie che ci hanno insegnato. E che ci fanno dire stupidate. Se vedo una ragazza di Palermo, bionda, la chiamo Normanno siciliana? Se - per caso - scorrendo il mio albero genealogico, trovassi un lontano parente nero sarei afro italiano?

Boh, strane cose. Colin, Colin di Milwaukee, Wisconsin, forse, come un po' tutti noi è mille cose. Un quarterback, un ragazzo con l'aria intelligente e simpatica, da giovane giocava anche a baseball. Poteva essere mille cose. E' un bel ragazzone, simpatico e intelligente. E vive nella home of the brave.


L'anno, comunque, ricomincia dove era finito quello precedente. San Francisco è tornata forte. C'è sempre Jim in panchina, un piccolo Clint Eastwood, e Colin in campo. Uno che è 81esimo tra i primi 100 giocatori. E tra gli 80 davanti ci sono certamente tanti quarterback. Ma lui lo è, un quarterback. E' uno che sei ragazzi, grandi e grossi, si fanno menare per lui. E lui gioca anche per loro. A modo suo. Un modo un po' strano.


Poi succede una cosa.

Jim, mio preferito, ne fa un'altra delle sue. Ha appena vinto una partita. Di quelle vinte all'ultimo secondo. La Lega prevede che a fine partita gli allenatori delle due squadre si stringano la mano. E lui ci va. Però - appena gliel'ha stretta - sarà per l'adrenalina, sarà perché è un po' scemo, si mette a girellare per il campo facendo gesti. Di quelli che porti entrambe le mani sotto la cintura. Tipica esultanza... La Lega mica lo perdona. Va bene che prendi a sberle i quarterback belli e biondi, va bene che sei un bulletto. Ma questa cosa - in mondovisione - no. Jim perde il posto. Oggi allena Michigan. E' tornato a casa. Cosa voglia dire allenare quell'università lì, che è anche stata la tua, voi non lo immaginate nemmeno. La allena, come sempre, a modo suo. Un po' da bulletto. Un po' da uno che è nato quarterback. Colin, basta cercare su internet, Colin e lui si sentono ogni giorno... Cazzo si dicono? Boh, robe loro, robe da quarterback...

Quello che succede poi è storia.

Anche qui basterebbe una foto. Le parole, quelle sono sopravvalutate. E spesso inutili. Come chi ti chiedesse chi erano i Beatles. Io penserei a due foto. Bastano quelle. E se poi - in più - uno volesse sapere di cosa parlavano, ne basterebbero altre due.

E' un giorno come un altro, al Candlestick Park di San Francisco. E suonano l'inno. L'inno americano. The land of the freedom. The home of the brave. Colin che - l'avrete capito - di cognome fa Kaepernick, che certo non è un cognome da nero, ma è il suo cognome da adottato, se dovesse tenere il suo cognome farebbe Russo, perché l'unica che ha conosciuto era la mamma, italiana di origine, decide che basta. Decide che non si alza. Rimane in ginocchio. Non fraintendete. Da noi - inginocchiarsi - è segno di devozione. Per un giocatore di football, con tutto l'armamentario addosso, sedersi è difficile. La posizione di riposo è in ginocchio. E Colin, Kaepernick, da Milwaukee, quarterback, così rimane. In testa una pettinatura decisamente afro. Basterebbe la foto, l'ho detto. Perché? Perché non si alza? Perché sente le radici? Il sangue? O forse è solo che ne ha viste e sentite abbastanza? E che dice andate a raccontarla ad un altro quella favoletta lì? Sta di fatto che non si alza. E poi - cosa ci volete fare - lui è quarterback. Subito ci sono altri, di fianco a lui. Che si inginocchiano. Non si alzano.

Quello che succede poi lo avrete sentito raccontare.

La Lega si incazza. Da allora - credetemi - non c'è mai più stata una sola partita in cui ti facessero vedere l'inno. Cominciavano dopo. Pubblicità, prima. Trump si incazza. Platealmente. Pubblicamente. Gli dice sei un rivoluzionario da salotto. Sei un radical chic. Un privilegiato. Nei tuoi quartieri la polizia non fa così. Ti stai solo facendo pubblicità. Ma non sai che cos'è la vita vera. Questo gli dice Trump. E Trump non fate mai l'errore di considerarlo stupido. Solo che... Solo che - ed è strano - non conosce il football. Quello che noi qua chiamiamo football americano. E non sa - evidentemente - che in quello sport lì c'è un ruolo, che c'è solo in quello sport. Il ruolo di quarterback. Che è un privilegiato. Però - se è bravo - e lo puoi essere anche se sei l'81 esimo su 100, tu sei tutta la squadra. Tutta. Anche quelli che la palla non la vedranno mai. E che per tutta la partita si fanno menare per te. E se sei bravo, anche se sei 81 su 100, loro sanno che tu sei uno di loro. Il migliore di loro.


Colin perde il posto. Non viene licenziato. Semplicemente nessuna squadra gli offre più un contratto. Gli dicono hey! sei solo 81 esimo su 100, c'è un sacco di gente meglio di te. Per carità, guadagna anche uno spot della Nike, che sono certamente soldi. Però un posto non glielo dà più nessuno. Ragazzoni grandi e biondi (o anche neri, né, per carità) più forti di te ne abbiamo!

Ci ritenta ancora all'inizio dell'anno. Chiede alle squadre, potrebbe giocare. Gli dicono che non hanno posto, che non è un granché. Allora lui - gli Usa sono davvero un posto strano - ottiene una roba. Una prova. Dice io e altri 3 che giocano quarterback. Su un campo. Proviamo. Vediamo se lancio proprio così da schifo. Vediamo chi lancia meglio.

Come va a finire è semplice. La prova la accettano. A ricevere i suoi lanci si offrono volontari i 5 migliori ricevitori di tutta la lega. Neri. Oh, cazzo, i lanci degli altri non riescono proprio a prenderli! I suoi sì. Il football è un gioco strano. E dentro a questo gioco un ruolo strano. Non ce l'ha nessun altro. Sei un privilegiato. Eppure - se sei bravo - trovi sempre chi è disposto a farsi menare per te. No, insieme a te. Che questo è il segreto. Anche se sei il numero 81 su 100. La prova - ovviamente - la vince. Nessuna squadra gli offre un posto. Numero 81 su 100, dai. A chi serve Colin Kaepernick di Milwaukee Wisconsin?

Non lo so a chi serve. E non so nemmeno se ho raccontato bene questa storia. Che le parole sono davvero sopravvalutate. E che il mio scopo era quello di raccontare una cosa che in gran parte non so. Come una storia intima. Che non è trovare le proprie radici. Ma un'altra cosa. Una cosa più strana. Però - io - ogni volta che lo sento nominare, quel Colin lì, da Milwaukee come Richie Cunningham, che poteva essere ogni cosa, io mi alzo in piedi. Cosa ci volete fare, è un quarterback.

Forse anche per questo le foto, quelle di cui parlavo, nemmeno quelle dei Beatles, non ve le metto...

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editoriale di kyra1

Che paese sarà mai questo dove non esistono monumenti nè chiese dalle facciate zeppe di serafini e angeli nè tutto ciò che identifichiamo come "bellezze". Le bottigliette blu di "Spirit" ruzzolano sui marciapiedi. Che paese sarà mai in cui ogni città ha vicino il suo Campo di Concentramento e vi convive e usa le sue stazioncine per tornare a casa come se fosse normale vedere i cartelli che indicano Malkinja con la diramazione per Treblinka, o la fermata di bus a Majdanek, o la strada affollata di Belzec.Per dire. Che paese sarà mai.

Quando arrivai a Lublino immaginavo di trovare il rabbino che volava sulla città, invece non c'era niente, una strada pedonale che attraversava il centro storico e poi fuori città Majdanek. Non si poteva non andarci, i morti a volte hanno bisogno di essere ricordati per mantenerne la memoria ma il campo era chiuso e cani lupo aggessivi e zannuti si lanciavano contro la rete. Da lontano vedevo una specie di fungo di cemento e prati ben curati. La terra di questo paese, soprattuto verso Lublino e in altre regioni, ha una altissima percentuale di sabbia, buona a trattenere il sangue. I fiumi di sangue che scorrevano nelle cavità sotterranee delle città e ne inquinavano le acque facevano si che i suoi abitanti ne fossero ammalorati. Che paese potrà mai essere dunque.

Lublino era sulla strada che portava al confine con l'Ucraina e notai sui lati mucchi di cipolle, indumenti frigor e lavatrici vetuste, realizzai che erano gli ultimi acquisti che avrebbero fatto gli Ucraini di ritorno in patria.

"Anche le cipolle?"chiesi,mi disse che non c'era nulla al di là della frontiera. Nemmeno le cipolle, pensai che era strano visto la fama della fertilità della terra che si intravvedeva nero bluastra proprio quella che i tedeschi caricavano sui vagoni per la Germania. Anche la terra prendevano. E adesso nemmeno le cipolle vi crescono. Sono andati via in tanti , disse, non c'è più un contadino sono andati di là.

Vidi una stazioncina vezzosa, Belzec. Dalla parte opposta ettari di terreno, una scala con gradini, senza fine, su ogni gradino vi erano scritti i nomi dei paesi, delle frazioni che avevano nutrito il fuoco di Belzec. Come legna. Blocchi di avanzi di fonderia segnavano la strada fra due muri che conduceva al muro in cui tutto sarebbe finito.

Le auto continuavano la loro avanzata verso i doganieri ucraini. Chi tornava aveva il doppio serbatoio pieno di diesel, bauli pieni di tende, cappotti e liquori. Costavano di meno di là.

La sera prima, nella piazza della cittadina avevo visto le donne ucraine che vendevano sigarette, bocche con denti incapsulati sotto il regime le più anziane,vestite con minigonne e stivaletti dai tacchi consunti le più giovani. Sotto la pioggia si avvicinavano cautamente con la loro mercanzia, rispettose della vecchia Mercedes. Avrebbero comprato quaderni e materiale scolastico nei negozietti intorno, maglioni di puro acrilico, jeans. Scarpe che alle prime pioggie si sarebbero scollate.Erano le vittime del crollo. Quelle senza nome, buone solo per creare statistiche. Ed erano fra le fortunate, nei villaggi fangosi dell'interno nemmeno quel piccolo mercato si poteva fare. Un anno o due più tardi quando il paese entrò in Europa e furono introdotte le frontiere con l'Ucraina, in tv vidi molte di loro piangere disperate,non si poteva più fare quel piccolo mercato che per molte era una forma di sopravvivenza. Anche quello era finito.

Restava niente.

Avevano già rubato tutto quel che c'era da rubare, i piccoli trafficanti avevano battuto le campagne per acquistare le icone di casa per poi rivenderle al di là, vuotato chiese alla ricerca di qualcosa che sapevano avere un prezzo alto per gli europei.Mancava solo che rubassero la terra come i tedeschi, ma ce n'era così tanta e non aveva mercato.

Questo è un paese così , con una storia inventata, con la madonna protettrice degli eserciti e castelli in costruzione.

Mentre tornavo a casa mi fermai a dormire a Czestochowa, sembrava notte ma erano solo le 4 del pomeriggio, stava per nevicare e decisi di andare a vedere il santuario della Madonna Nera che era a pochi passi. Un padre spingeva un altalena con un bambino, nel buio. Il castello, nelle cui viscere c'era la famosa Madonna, era di legno e non grande ,dai pulmini sul piazzale scendevano grosse donne felici in gita parrocchiale. Salii le scale e guardai il tesoro della Madonna, i soliti anelli, arti in miniatura dorati, quadri e gioielli di poco conto mi sembrò. Un grosso e rubizzo prete con tonaca nera sorvegliava , sia mai che a qualcuno venisse in mente di rubare un'ernia dorata.

Generalmente i preti in questo paese hanno un aspetto poco rassicurante, ti guardano e sembrano cercare nel tuo cervello qualsiasi deviazione dalla retta via. Ovvero la loro. La cappella della Madonna era piccola e la statuetta era nera per le candele che per centinaia d'anni avevano bruciato difronte a lei. Pensai che come protettrice dell'esercito si era dimostrata non efficente. Nelle panche erano incisi i nomi delle brigate polacche perdute. C'era anche la Carpatia che aveva combattuto a Montecassino. neanche loro aveva protetto poveri ragazzi.

Mi ero imbattuta nel loro rigido clericalismo in un modo inusuale : in un condominio vidi che sullo stipite delle porte erano disegnate con il gesso delle croci o qualcosa di simile, chiesi cosa significasse, mi fu risposto che lì abitavano buoni cristiani e che il prete era passato. Pensai alle porte segnate nell'antico Egitto e all'Angelo Sterminatore che faceva il suo dovere, a teste che ruzzolavano, ai fiumi di sangue ai campanelli di casa in Bosnia dove di notte segnavano chi dovesse essere preso .Ucciso. I segni sulle porte indicano sempre qualcosa di brutto.

Che paese era mai quello, pensavo il giorno dopo mentre guidavo per le autostrade vuote. Il paesaggio era innevato, e capii perchè a volte disegnavano la neve azzurra.

Veramente, aveva sfumature azzurre.

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editoriale di kyra1

Le lampadine erano fioche, forse 25 W, come quelle che un tempo usava mia nonna per risparmiare, le strade fangose, qualche ragazzino con motorino scassato , gli altoparlantini fiorivano sui pali della luce.

Il Grande saccheggio sarebbe cominciato poco dopo, per ora, Olomuc esibiva un orgoglioso Museo del Cappello, automobiline sputacchianti e fumose, un impiegato in impermeabile blu e cartella sottobraccio ubriaco fradicio, ondeggiante.

Entrai a Cracovia sotto la pioggia,la città era grigio scuro, l'ufficio postale era scaldato da una stufa panciuta ed esibiva vezzose tendine agli sportelli. Negli Stati Maggiori Tesco, Auchan, Benetton , Ford mettevano a punto le strategie. Le città erano in bianco e nero. Il carbone stendeva una patina su tutto. . Dopo Varsavia mi fermai nel paese in cui era nato Isaac B.Singer scrittore di mondi scomparsi ,cercai di vedere qualcosa che avesse visto anche lui., ma era assai improbabile. Mi consolai pensando che il nome era lo stesso.. proseguendo nella strada che portava a Bialystok s'incrociavano cittadine e paesi silenziosi , paludi , il Bug scorreva sulla mia destra.oltre la foresta. frecce e fiamme votive su cartelli .

La Guerra sembrava finita da poco. o forse erano solo le mie letture che risalivano.alla mente.

In città entrai in un supermarket che aveva pavimenti di legno, polli e selvaggina affumicata appesa al soffitto, panini con semi di papavero e bibite coloratissime quasi fosforescenti. Mi muovevo con calma e osservavo, , uomini giovani in pantaloni grigi e riga nei capelli, donne arrabbiate. Quando chiesi l'indirizzo finsero di non capire e guardarono qualsiasi altra cosa che non fosse la mia faccia.

. Ci arrivai per caso, era dietro al negozio, fra palazzi di 3 piani , una cosa nel cortile. C'era l'Ufficio di Solidarnosch lì accanto e gente che entrava ed usciva. Il cortiletto era raccolto, l'intelaiatura della cupola era di ferro, come una corona enorme, piegata dal calore delle fiamme, ondulata , immaginai il calore che doveva essersi sprigionato per piegare così delle sbarre di ferro. un altoforno. e dentro quest'altoforno c'era della gente che aveva alimentato il fuoco rendendolo ancora più potente e immaginavo la carne umana fondersi con gli arredi, i metalli, il legno. Indestinguibile dopo.

Il mattino seguente girai per la città di confine, bielorussi riempivano il mercato all'aperto e compravano tutto ciò che si poteva trasportare oltre frontiera, un pò come a Trieste. Feci un giro verso la stazione che , per un dispetto dello Zar così mi dissero, era fuori città e voltata verso l'uscita. I treni erano pieni e senza più sedili per aver più spazio per le merci.

La sera mi feci accompagnare da un taxi nel dedalo di palazzi che sorgevano poco fuori dal centro storico,da sola non avrei potuto trovare l'indirizzo le strade erano tutte uguali.

Arrivai un 4 piano ed entrai, la gente mi fece festa, mi avevano preparato yogurth e arrosto, tutto su un tavolino, nessuno aveva un tavolo grande allora.

Si vede che sei italiana, mi dissero, il mio accompagnatore traduceva.

hai tanti capelli neri.

Rimasi lì un pò, consegnai i regali e tornai in albergo. A letto pensai che forse mi ero sbagliata in tutti quegli anni.,che anche mio padre avesse creduto in qualcosa che c'era solo nel suo cuore.

Ero avvilita.

La mattina dopo , in centro, c'era una folla di giovani difronte ad un negozio e adulti dai visi sorridenti davano loro denaro in cambio dei foglietti.che questi avevano in mano i ragazzi entravano nel negozio e ne uscivano con un sacchetto. Chiesi cosa succedesse: mi risposero che quei foglietti erano azioni che lo stato aveva dato ai maggiorenni e che gli uomini gentili li compravano così i ragazzi potessero indossare finalmente un paio di Levis. Il Muro era caduto da poco .

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editoriale di Taddi

Le canzoni hanno smesso di guarire il mondo, ma sono la miglior medicina per guarire il mondo. Il ricordo della felicità non è più felicità, il ricordo del dolore è ancora dolore. Il ricordo della musica è felicità e dolore (4). C'è un tempo negato e uno segreto, un tempo distante che è roba degli altri, un momento che era meglio partire e quella volta che noi due era meglio parlarci. (3)

Una voce esce dalla radio e mi porta lontano, racconta di vestiti che svolazzano, di porte che sbattono, di visioni che danzano nel porticato mentre la radio trasmette Roy Orbison. C’è magia in questa notte. La musica parte, sta giocando con la voce, sta costruendo una storia. Amo le storie quelle belle, commoventi , vere o verosimili, folli, assurde o incredibili. Storie che ti restano dentro per sempre che ti accompagnano per strada, che tieni in tasca e, sei hai un cuore, ti benedicono perché anche loro - le storie - sono musica e la musica è là fuori in attesa come un killer sotto il sole (6), è legno, è pietra, è la fine della strada, è qualcuno un po' solo, è un pezzo di vetro, è la vita, è il sole, è la notte, è la morte, è un laccio, è l'amo, è un albero in un campo, è il nodo del legno, è un flauto, è un tuffo dalla sponda del fiume, è il profondo mistero, è il volere o non volere, è il vento che soffia, è la fine della discesa, è la trave, è il vuoto, è la pioggia che cade. (7)

Sembra ieri eppure è stato molto tempo fa, mi innamorai, Janie era la regina delle mie notti, nel buio mentre la radio suonava piano, condividevamo segreti e dividevamo montagne, eravamo come un fuoco incontrollabile che si diffondeva fino a quando non c’era più nulla da bruciare e da provare. Ricordo cosa mi hai detto, hai giurato che non sarebbe mai finita, mi tenevi stretto… Vorrei non sapere ora ciò che non sapevo allora. (8)

Noi quattro usciamo dal lavoro, è stata una giornata dura, ma fuori è già buio, quindi è stata la notte di una giornata dura. Dovrei dormire come un ghiro, ma quando torno a casa da te… (10) I know I know I know (26 volte…). (9)

Così mi ha detto il Signore: Va', metti una sentinella, che annunzi ciò che vede. Essa vide carri e coppie di cavalieri, e osservò con attenzione. Poi gridò: “O Signore, di giorno io sto sempre sulla torre di vedetta e tutte le notti sto in piedi al mio posto di guardia”. È caduta, è caduta la Babilonia moderna! Deve esserci una via d’uscita, disse il giullare al ladro. C’è troppa confusione, non riesco a trovar pace. Uomini d’affari bevono il mio vino, contadini con l’aratro scavano la mia terra e nessuno di loro sa a cosa serva tutto questo. Non c’è motivo di allarmarsi disse il ladro gentilmente. Ci sono molti qui fra noi che pensano che la vita sia solo uno gioco ma noi due ci siamo già passati e questo non è il nostro destino perciò basta parlare in maniera falsa adesso,il tempo è finito. Lungo la torre di guardia i prìncipi osservavano l’orrizzonte mentre tutte le donne andavano e venivano, anche i servi scalzi. Fuori in lontanaza un gatto selvatico ringhiò, due cavalieri si stavano avvicinando, il vento iniziò a fischiare. (11)

Disastro!

La scorsa notte stavo guidando tornando a casa, correvo da solo attraverso la fitta pioggerella su un tratto deserto di una strada quando ho trovato un incidente sull’autostrada. C’erano sangue e vetri rotti dappertutto e non c’era nessun’altro lì a parte me mentre la pioggia cadeva fitta e fredda ho visto un ragazzo accasciato a lato della strada mi urlò: - Signore, mi aiuti per favore - Un’ambulanza alla fine arrivò e lo portò all’ospedale. Guardavo mentre lo portavano via e pensai a una ragazza o una giovane moglie e un poliziotto che bussa nel cuore della notte per dirti che il tuo amore è morto in un incidente sull’autostrada. A volte resto seduto al buio e guardo la mia piccola mentre dorme poi salgo sul letto e l’abbraccio forte,me ne resto lì sveglio nel cuore della notte ripensando a quell’incidente sull’autostrada”. (6)

Tua è la forza che brucia dentro, nostro è il fuoco, tutto il calore che possiamo trovare, lui è una foglia nel vento. Ci sono cose conosciute e cose sconosciute tra le porte. Porte? Quali “porte”? Cosa farai quando ti sentirai solo e nessuno che ti aspetta al tuo fianco? Stai correndo e nascondendoti da troppo tempo, lo sai che è solo il tuo stupido orgoglio Layla che mi ha messo in ginocchio. Amore, a volte mi sento così perso i giorni passano e questo vuoto riempie il mio cuore. Quando voglio scappare guido la mia auto lontano ma in qualunque modo me ne vada torno indietro dove sei tu. Tu sei nei tuoi occhi, la luce, il calore. Sono completo nei tuoi occhi.

Non so ancora cosa stessi aspettando, il tempo mi sfuggiva senza controllo. Così mi sono voltato per guardarmi. Ehi state attenti voi Rockettari, ormai ben presto invecchierete. Il tempo può cambiarmi, ma non posso determinarne il corso. (12)

Gli Irlandesi sono i più negri d'Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: "Sono un negro e me ne vanto!"(1)

In un paese degli appennini un racconto circola spesso. Di quella notte d’estate in cui una persona stava rientrando a piedi in hotel con un amico e venne fermata da un signore in macchina che aveva accostato al marciapiede col finestrino abbassato. Potevano essere le tre. Il tipo, un uomo di colore, aveva il fare circospetto dei piccoli corrieri degli alcolici durante gli anni del proibizionismo. Gli domandò sottovoce, cortese ma deciso, se in città ci fosse un bar ancora aperto perché “Mr. Pickett” – e accennò con la testa al passeggero sul sedile posteriore – “vorrebbe bere qualcosa”. Il nottambulo non sa dire. Prova a lasciare a Wilson Pickett e al suo valletto un filo di speranza, come si fa in questi casi: “In fondo alla strada ce n’è uno, ma forse sta per chiudere”. “Many thanks, good night” gli risponde l’altro, ripartendo con l’auto. Ha già capito che la serata finirà all’asciutto. A questo punto l’amico lo afferra per un braccio e gli dice: “Un momento, questa scena l’ho già vissuta. E anche tu!”. I due ci pensano bene, è un déjà vu che hanno incontrato al cinema, nelle scene finali di The Commitments. L’incrocio notturno con The Wicked Pickett resterà stampato nella memoria dei due tiratardi, che nel corso degli anni torneranno a narrare l’episodio a un nuovo pubblico, senza ricamarci sopra né aggiungere dettagli inediti, perché la storia rimane sempre quella (5).

Ho fatto un sogno, in cui tutto ciò che volevo sapere ed in ogni posto in cui andavo ascoltavano la mia canzone. Sì gente, voi non la sentite ora? (2)

Parole di:

Massimo Cotto (4), Ivano Fossati (3), Bruce Springsteen (6), Antônio Carlos Jobim (7), Bob Segar (8), Ringo Starr (10), Bill Whithers (9), Bob Dylan (11), Robert Plant, Jim Morrison, Eric Clapton, U2, Peter Gabriel, David Bowie (12), Edoardo Fassio (5), Jimmy Page (2), Jimmy Rabbitte (1).

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editoriale di perfect element

Djianhe si aggiustò la mascherina, con un riflesso spontaneo la alzò sul viso e la strinse attorno
al naso.
Un odore rancido di vecchio cibo incrostato e muco gli avvolse la gola, non si era mai abituato a
calzare quella pezza di carta e cotone, ma, come tutti, non se ne lamentava e si convinceva che
fosse indispensabile.
Il caldo di maggio gli imperlava la fronte e l'eccitazione del momento faceva sudare anche
buona parte del resto del suo corpo.
Alzò lo sguardo sul bel palazzo che gli stava di fronte, cinque piani candidi di intonaco coloniale,
intasato di vecchi fregi, balconate vuote e stucchi eleganti.
Attraversò la strada deserta, solo una vecchia con una logora borsa ricavata da un tappeto da
preghiera s'allontanava da un lato.
L'androne odorava d'alcool denaturato e di stracci vecchi d'ammoniaca, non un granello di
polvere copriva il bel pavimento di marmo e, alla sua destra, una lucida e maestosa scalinata,
incorniciata da una ringhiera di ferro, muta saliva con dolcezza verso i piani superiori.
Djhanhe sentì il suo cuore perdere un battito e avvertì un tremore alla mano destra, non si spaventò, gli capitava sempre quando aggiornava il software che il Buon Pastore aveva
pensato per lui e per tutti; anzi era un effetto collaterale piuttosto comune ed era un piccolo
disagio che tutti tolleravano senza troppo interrogarsi.
Riprese fiato, abbassò la mascherina e l'odore d'alcool e ammoniaca sembrava quasi migliore
del lezzo di capra cotta del cotone marcio che era obbligato a tenere sul muso.
Con coraggio prese le scale ed iniziò a salire con passo costante. Occhi lo guardavano dalle
porte chiuse, ma non se ne curava, nessuna macchina del Buon Pastore l'aveva seguito o
ammonito per strada, e anche all'interno del bel palazzo nessun drone, volante o strisciante,
l'aveva disturbato.
Si convinse, una volta di più, che la Super Intelligenza che tutti seguivano, di cui si fidavano
ciecamente e che amava farsi chiamare Buon Pastore, stava benedicendo i suoi immacolati
sentimenti.
Djianhe non dovette nemmeno bussare alla porta, lei gli aprì nel momento esatto in cui lui
appoggiava i piedi sullo zerbino consunto che un tempo era stato un bel tappeto.
Entrambi non ricordavano più come avessero fatto ad arrivare fino a quel preciso istante, e non se
ne curavano affatto.
Forse una noiosa ora passata in coda a distanza legale per comprare un po' di caffè, forse lui
aveva timbrato una giustificazione per lei, o aveva atteso di poter pagare un conto allo
sportello in cui lei lavorava; non era più importante, tutto il tempo e il mondo era solo lì, adesso.
La pelle bianca di lei rifletteva la bella luce di Maggio, mentre quella nera di lui la assorbiva con
la stessa grazia.
Entrambi brillavano di nervoso sudore.
Djianhe sentì per la prima volta dopo tanto tempo quella scossa elettrica che dalle base della spina dorsale passa
sotto i testicoli e fa fiottare il sangue ossigenato in avanti e che gli provocò un'erezione; era
felice.
La sensazione durò poco e la sua mano destra iniziò a formicolare, scoppiò in lacrime mentre
proprio quella mano si alzò sulla gola di lei, strinse e pianse e cercò di non pensare.
Quando la vide a terra senza respiro, la stessa mano gli si calò dolce sul viso, le lacrime erano
finite e la mano, indipendente dalla sua volontà, si alzò sulla fronte e, come due entità separate,

ballarono all'indietro fino alla bella balaustra di ferro battuto del pianerottolo.
Si appoggiò sereno sul marmo dopo dodici metri di volo, pensando a lei e a quanto fosse bella.
Solo pochi secondi di ronzio dei ragni pulitori del Buon Pastore turbarono la sua ultima visione del paradiso.

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editoriale di Taddi

La tenacia, quella voglia di non farsi sopraffare dal destino, quel desiderio di mostrare il dito medio alla vita e di non mollare mai appartiene a pochi uomini e donne.

La tenacia può avere una caratteristica, ad un certo punto ti ripaga. Non capita sempre, certo, ma quando capita capisci il senso di tutti i sacrifici. Voglio raccontarvi una storia, quella di Steven Bradbury. In rete esiste un video della gialappa’s in cui Steven viene volgarmente perculato, ma prima di guardarlo continuate a leggere.

Lo short track è una gara di velocità su ghiaccio con pattini, senza corsie dove si raggiungono velocità di oltre 50 km/h. Dovessi paragonarlo ad un brano musicale, chiederei ad Arianna Fontana, la medaglia olimpica italiana più giovane (meno di 16 anni), “cavaliere” e pattinatrice di short track. Rimanendo sul Deba chiederei aiuto sicuramente a Lorenzo, a me viene in mente Guerrilla radio… Ma non divaghiamo.

Steven è nato a Sidney, 14 giorni prima di me ed ha sempre amato la velocità, sia sul ghiaccio che sulle auto. Lui si impegna, partecipa ai mondiali di short track vincendo un oro nel 91, bronzo nel 93 e argento nel 94, gareggia alle olimpiadi di Lillehammer del 1994 (partecipò anche un certo Alberto, mio concittadino) e riesce a portare a casa un bronzo nella staffetta. Strada in discesa? A 21 anni sei nel pieno vigore fisico, nulla ti può fermare, nulla tranne 111 (centoundici) punti di sutura a causa della recisione dell’arteria femorale durante una gara, conseguente perdita di oltre 4 litri di sangue, con alte probabilità di morte.

Sopravvive, ma passa i successivi 18 mesi in riabilitazione. Lentamente ricomincia, torna a gareggiare, ma non è più lui, la magia è scomparsa. Nel 2000 un altro incidente (frattura del collo) lo blocca per altre sei settimane. Steven però ha un sogno, gareggiare ancora alle olimpiadi per l’ultima volta, a Salt Lake City nel 2002. Ha quasi trent’anni, ma riesce ugualmente a qualificarsi per il suo paese, non certo famoso per i suoi ghiacciai e parte senza nessuna speranza di conquistare una medaglia. Gli sport invernali non sono molto praticati in Australia…

Non credo ai miracoli, ma nello Utah qualcosa di simile è successo. Steven nella batteria 1000 metri short track riesce a qualificarsi per i quarti, acciuffando l’ultimo posto disponibile. E’ già felice così, gareggerà i quarti di finale olimpici dello sport che ama. Si qualificano i primi due alla semifinale, arriva terzo. Fine, si torna a casa.

No, non è finita, viene squalificato il giapponese, viene ripescato. E’ sua la semifinale. E’ inutile di cercare di capire cosa prova Steven, ve lo lascio immaginare.

La semifinale la corrono in cinque, tre cadono per colpa del quarto che viene squalificato. E’ in finale!

Accanto a lui ci sono i mostri sacri dello short track, il commentatore italiano prima della partenza dice: “Fuori dalla lotta, quasi certamente c’è solo Steve Bradbury” Franco Bragagna.

Steven non sta bene, gli fa male la gamba operata, parte malissimo, viene subito distaccato dagli avversari, ma all’ultima curva succede qualcosa di incredibile, un groviglio di corpi distesi sul ghiaccio e lui che li evita. L’americano si rialza, tenta il recupero, ma Steven, sgomento passa per primo il traguardo.

Primo oro australiano nella storia delle olimpiadi invernali. A fine gara, intervistato disse: Non ero sicuro se avessi dovuto festeggiare oppure andare a nascondermi in un angolo. Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario.”

Steven Bradbury.

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editoriale di stampaestera3

Pubblicato – il 25 maggio 2020 – il nuovo romanzo, La ragazza degli oceani (PlanetEditori, pag. 288). L’autore è Mimmo Parisi, e proviene dal mondo del cantautorato. Insomma, il fascino della pagina scritta ha in questa occasione avuto la meglio sul mondo del pentagramma. Tuttavia, vale la pena segnalare che si tratta di una sortita sentita come momento di ampliamento del proprio orizzonte creativo. È la cognizione che a volte occorrano più dei tre canonici minuti della canzone, per dire la propria. Quindi, si chiede al lettore un tempo di attenzione maggiore.

I libri di questo artista trattano i temi più diversi, ma sempre in un’ottica dove il fulcro principale passa attraverso l’individuo, con un’attenzione a un umanesimo post novecentesco. I romanzi che meglio rappresentano Mimmo Parisi hanno titoli come, Sono tornati i Braccialetti rossi (2017), Il figlio del drago (2018), Ti voglio bene come nei film (2019), La stella di Geq (2019). Inoltre, il suo interesse per il mondo del rock – dalla quale proviene – non manca quasi mai nelle sue narrazioni. Infatti, nel 2017 è vincitore del premio ILMIOLIBRonline con un libro che si chiama, con chiarezza di intenti, In nome del rock italiano.

Storia del romanzo

Il protagonista è Remo, un nome facilmente associabile al contesto cittadino dove è agito il racconto, Roma. Mentre il primo decennio del nuovo millennio avanza, il ragazzo si accorge che le possibilità sociali offerte a gente come lui – giovane di borgata – non sono poi tante. Diversamente da una certa retorica che aveva predicato un miglior destino per tutti, in periferia tutto rimane uguale. Ma Remo ha dalla sua un ottimismo incrollabile. Frequenta un gruppo di amici che gli riempiono la vita. Essi non hanno un orizzonte speciale da raggiungere. A loro basterebbe superare l’esistenza barcollante delle loro famiglie. Quindi nel degradato scenario urbano di estrema periferia, il gruppo di coetanei rivolge l’attenzione alla preparazione scolastica: pensano a un titolo accademico da poter spendere nella società. Ma il futuro dei giovani non riesce ad accendersi. Pur essendo titolati, non ci sono grandi occasioni per assicurarsi un normale stipendio. Tuttavia, il destino è pronto a premiarli. Il fato decide di palesarsi nelle vesti di Felipe Ortega. Anche quest’ultimo è un ragazzo, ma con una qualità decisamente invidiabile: è un milionario.

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