editoriale di CosmicJocker

Ieri sono andato al bar...
... Che incipit del cazzo!

Ma del resto quale incipit non lo è? Avrei dovuto cercare qualcosa di gustoso (o che credo lo sia) per provare ad incuriosire fin da subito chi sta leggendo 'sta cosa; non che non l'abbia mai fatto, anzi, solo che oggi voglio restare il più possibile fedele all'impressione che mi sta spingendo a buttare giù queste righe... E poi, in fondo, a che serve un incipit gustoso? Vanità, vanità, tutto è vanità. Vanità di chi scrive titillandosi l'ego e vanità di chi legge soppesando il godimento estetico ai margini del suo sorrisetto complice.

Dunque sarò brutale: ieri sono andato al bar.

Non vi starò neanche a dire l'ora in cui ci sono andato. Mattina, pomeriggio, sera? Che stronzate senza importanza.

Mi sono seduto, ho preso un paio di bicchieri di vino (bianco o rosso?), qualcuno ha parlato con me, io rispondevo (almeno mi pare di ricordare) e c'erano i Clash in sottofondo.

Solo che dopo un po' è accaduto qualcosa, qualcosa di non particolarmente nuovo per me, ma ieri ha avuto una risonanza, come dire... Avvolgente.

Tra lo sferruzzare continuo dei bla-bla-bla, tra i respiri ansimanti causati dal caldo combinato con le mascherine, tra le dissonanze di vetri e porte che si aprivano e chiudevano... Il tempo si è fermato.

No, non il tempo. Io. La mia testa.

Non era quella leggera ebbrezza che fa sembrare tutto lontano e ovattato, non era lo sfinimento del corpo che rende indifferenti gli esseri e le cose che ci stanno intorno.

Sentivo i miei pensieri totalmente inconsistenti, astratti... No, neanche. Sentivo piuttosto un vapore tiepido e denso che aveva preso il posto dei miei pensieri.

Sentivo, no... Avevo la percezione di me stesso lì, in quel momento, bilanciavo ogni grammo del mio peso e ogni respiro che emettevo aveva un non so che di nitido, di materico.

Anche gli oggetti e le persone mi parevano semplicemente lì, lì e basta. Non immaginavo storie sul loro conto, non sentivo il bisogno di relazionarmi con loro. Sapevo che erano lì, come me erano lì, come me semplicemente esistevano.

Naturalmente questa sensazione sarà durata solo per pochi secondi e, nel momento in cui ci ho pensato, è sparita d'un tratto.

A posteriori ho pensato a Sartre e alla sua nausea, ma, in lui, l'esistenza delle cose e delle persone in quanto tali era percepita come "di troppo" o "gratuita" ed era precisamente questo a dargli il voltastomaco. Io invece l'ho sentita un'esperienza riposante, quasi gratificante e poi Sartre... Vedete anche questa citazione di Sartre è vanità, o meglio, è vanità e insicurezza insieme: cerco di puntellare e giustificare quello che sto dicendo con ciò che ha scritto un filosofo di riconosciuta fama.

A volte invidio la mia gatta: la sua capacità di essere presente nel presente, il suo sembrarmi immune da inutili crogiolamenti su ciò che sia meglio fare. Eppure... Non è anche lei un essere troppo complesso? Non è certamente immune da vanità visto quanto tempo dedica alla cura del suo corpo e la curiosità che la spinge in esplorazioni sempre nuove nasconde forse un'ombra di atavica inquietudine.

No, ieri io ero come un granchio. Un granchio che asciuga la sua corazza al sole, con le zampette ben salde sulla roccia. Un granchio che non sente altro che il rumore sordo della sua esistenza. Un granchio che semplicemente è.

Devo solo ricordarmi, se mi capiterà ancora quell'impressione, di non troncare involontariamente con le mie chele i secondi che ancora mi separeranno dalla mia esistenza di uomo.

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editoriale di kyra1

L'hotel si rivelò una truffa, un vecchio scannatoio su una strada polverosa e poco illuminata. Alla sera era illuminato da luci rosse, tanto per sottolinearne la funzione. Chiesi dove fosse il centro e mi risposero che bastava fare poche centinaia di metri. Li feci e mi trovai nel viale che attraversava la città : 4 corsie strapiene di BMW cannibalizzate, ridotte all'osso che sfrecciavano come se fossero gli ultimi metri della loro esistenza. E forse lo erano. Minibus stipati in cui la gente sedeva sul cruscotto accanto al guidatore. I marciapiedi erano da percorrere solo con scarpe da ginnastica o da lavoro. Ero a Chisinau, Moldavia, il luogo che riversava badanti sull'Europa fin dal crollo del Muro di Berlino. Avevo voluto fare quel viaggio per vedere i luoghi da cui provenivano le donne che nelle case italiane si occupavano degli anziani lasciando famiglie spezzate e figli senza madre .Bastava un'occhiata al centro di Chisinau, la capitale, per capire.

I negozi esponevano merce miseranda l'unica nota allegra sembrava essere un gruppetto di zingari che suonavano sui gradini di una scala. Camminai a lungo, il viale sembrava non finire mai, i ristoranti erano graziosi e poichè appartenevano ad una catena erano quasi tutti uguali Mi fermai e mi portarono il menù, tutti i cibi erano precotti e molto carini a vedersi, il sapore bisognava immaginarselo. I clienti erano quasi tutti stranieri, affaristi. Dai vetri della veranda vidi la gente diradarsi e dovetti affrettarmi a mangiare visto che chiudevano alle otto e mezzo. Dentro l'acquario in cui ero ci si poteva riprendere dall'inquinamento e dallo stupore per un pò di tempo.

All'uscita un ragazzo giovane era steso per terra e un paramedico lo stava visitando, il ragazzo parve riprendersi e l'ambulanza se ne andò per ritornare dopo pochi minuti, il ragazzo era di nuovo privo di sensi e stavolta lo caricarono. Tornai in albergo e fui di nuovo davanti all'hotel a luci rosse, sedetti su una poltrona di vimini all'esterno, leggermente imbarazzata, ma era ancora presto per i clienti fedeli. La strada era buia, c'era un ristorante chiuso da tempo, auto parcheggiate sui marciapiedi. L'asfalto pieno di buchi sembrava ricoperto di sabbia.

Dopo una notte piena di rumori soffocati la mattina dopo ritornai sul viale e feci colazione in un bar/pasticceria anche quello per stranieri. Al tavolo accanto al mio c'erano due uomini d'affari veneti sorpresi di trovarmi in quelle plaghe volontariamente, uno, il più corpulento, attaccò discorso e disse che aveva una fabbrica in Romania dove viveva con la famiglia, vi si trovava benissimo se era in Moldavia era solo per affari, non poteva darmi indicazioni su cosa vedere perchè, secondo lui, non c'era niente che ne valesse la pena. Dubbiosa. Arrivai , dopo una lunga camminata, fino ad un patetico Arco di Trionfo più piccolo dell'originale ma con una sua funzionalità vi era infatti un orologio incastrato, poi c'era un giardino ben tenuto con uno di quei ristoranti fratelli (Andy Pizzas), una palazzina bianca di cui non conoscevo l'uso e tutto intorno traffico e marciapiedi scassati, gente che trasportava borse piene e masserizie. Mi diressi al mercato che si annunciava con donne che esponevano mercanzia su teli per terra, oggetti vecchi e polverosi peluches consumati, scarpe vecchie e tristi, maglie usatissime. Cose di proprietà della venditrice generalmente abbastanza giovane e scorata. Ragazzini sporchissimi vicino al Mercato sgusciavano noci, sacchi e sacchi, -la Moldavia infatti è insieme alla Romania una grande produttrice di noci, si vendeva frutta per terra, 10 pomodori, uva, tutto polveroso. Il Mercato vero e proprio era immenso, era quello dei Kolchoz, dei tempi buoni, come dicevano alcuni clienti.

Il mercato della carne era grande, di cemento come tutti i manufatti ex sovietici, blocchi di carne sui banchi, petti enormi di tacchino grigiastro che mi tolsero definitivamente l'appetito quello dell'abbigliamento era fatto a scatole incastrate l'una nell'altra, entravi in un corridoio , uscivi in un altro e poi entravi ancora etc etc. La merce proveniva dalla Turchia, niente Cina ma la manifattura e la qualità erano simili. Minibus scassati erano parcheggiati e i buttadentro cercavano clienti spaesati come me. Decisi di farmi un giro a Soroca di cui avevo visto un servizio sulle fantastiche case zingare, chi abitava alla Casa Bianca o in una moschea, cose simili. Il viaggio si rivelò l'ennesimo fallimento: il minibus era privo di ammortizzatori e bisognava stringersi ai sedili, la schiena veniva sballottata violentemente, senza alcuna pietà. Le buche sulla strada non erano semplici buche: erano la strada stessa. Ovunque campagne abbandonate, sterpaglie, auto russe che eroicamente continuavano a funzionare cariche di tutto.Soroca sembrava dormire il sonno dei giusti, alzai lo sguardo sulle colline e là le vidi, colonne , pagode, cupole. Un signore che aveva fatto il viaggio con me disse che non c'era necessità di andare lassù, le case infatti erano abbandonate da tempo. Feci un giro sul lungofiume, una costruzione grande e bianca con un giardino inselvatichito davanti era l'ex casa della cultura, accanto il fiume scorreva, grande ed in apparenza pulito. Sull'altra riva c'era l'Ucraina.

In attesa dell'autobus mi fermai in un bar carino, dentro ad un giardino pubblico, fiori finti e ottoni mi ricordarono qualcosa, dentro c'era una deliziosa aria condizionata, guardai il menù e vidi che Andy Pizza aveva colpito anche lì.

Prima di ripartire feci un ulteriore giro a piedi fuori dal vialone, per fare ciò bisognava attraversare un sottopassaggio: i gradini non esistevano più, sembrava che un branco di topi se li fosse mangiati , arrivata alla fine della scala precipitai nel buio , non si vedeva assolutamente niente, neanche la fine del tunnel, pregando di non mettere piede su qualcosa di schifoso magari un ratto morto o peggio un cadavere o delle feci , proseguii coraggiosamente.. A un certo punto nell'oscurità vidi due lucine e rumore: erano due vigili che trafficavano intorno ad un tombino.Infine "giunsi a riveder le stelle" e mi trovai difronte ad un mega hotel abbandonato e alle più svariate coperture di terrazzi: andavano infatti da muri con finestre annesse a elaborate strutture di ferro battuto, persiane e tapparelle, bambù e forati, c'era da chiedersi come non crollassero sotto il peso .

Non andai a vedere il parco con il lago nè nessun altro parco nè accettai di andare a vedere le cantine e fare gli assaggi di vini, non poteva importarmene meno, ero stanca di quel paese. La sera mangiai per l'ennesima volta da Andy Pizza, in un altro indirizzo ma sempre uguale, e vidi all'ultimo piano di un palazzo luci roboscopiche dove forse si divertivano le ragazze e i proprietari di fabbriche veneti, feci un ultimo giro per la città: casinò e night e karaoke. Per l'ultima volta dormi nell'hotel a luci rosse incurante del via vai e il mattino seguente andai all' aereoporto dove mi disfeci delle banconote locali, piccole come quelle dei Monopoli, dandole di mancia allo stupefatto taxista. Certamente non ci sarei tornata mai più in Moldavia ed era inutile tenerle in qualche borsellino.

Capii anche perchè gli abitanti fuggissero da quel paese, perchè le donne affrontassero vite totalmente diverse da quelle a cui erano abituate , anch'io lo avrei fatto, e di corsa.

Tornata a casa parlai con una vicina ucraina, quando gli dissi che ero stata a Chisinau s'illuminò " Che bella città" disse " Io ho studiato lì, c'erano fiori dappertutto, come mi sono divertita".

Mi chiesi se avevamo visto la stessa città.

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editoriale di iside

#casoumano2020

(22 Giugno 2020)

I VINCITORI!!!

@[MrDaveBoy73] 32 punti

13 PREFERENZE

9 PRIMO POSTO

1 SECONDO POSTO

3 TERZO POSTO

vince tour della Sardegna nel cassone del motobecane (o apixedda) di @[sfascia carrozze]

@[iside] 28 punti

13 PREFERENZE

3 PRIMO POSTO

8 SECONDO POSTO

3 TERZO POSTO

vince crociera Genova/Porto Torres A/R da svolgersi interamente nella giornata del 29 febbraio prossimo venturo


@[dsalva] 24 punti

11 PREFERENZE

5 PRIMO POSTO

3 SECONDO POSTO

3 TERZO POSTO

vince soggiorno della notte fra il 28 e 29 Febbraio prossimo venturo nel sottoscala di @[G]

tutti i votanti sono invitati sulla spurgomobile di @[spurgopozzineri] il 30 settembre 2029

quando nel piano padano bresciano si comincia a spargere i liquami (piscio di maiale) sulle coltivazioni di mais ( furmentù) utilizzando l'apposita "botadela pìsa" (botte del piscio).

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editoriale di andisceppard

A volte, le parole, sono davvero inutili. Basterebbero due foto. Tipo: avete presente i Beatles? (ne avete sentito parlare?). Ogni tanto arriva qualche ragazzino, qua sul debasio. E chiede.

Dice ma i Beatles perché?

Erano i migliori? No.

Miglior cantante? No.

Miglior chitarrista? Ahahahah no!

Migliore gruppo? No.

Migliori canzoni? No.

Basterebbero due foto, per rispondere. Poi uno si fa la sua idea. Giusta o sbagliata. Però se la fa.


Colin nasce a Milwaukee. Il 3 di novembre del 1987. Milwaukee, per chi non lo sapesse - e difficilmente glielo perdono - sta in alto a destra. Molto in alto. Quasi Canada. Fa freddo. Un freddo cane. Ed è la città di Richie Cunningham. Quella di Happy days. Richie andava in giro con un giubbino. La M di Milwaukee scritta sopra.


Nasce nel 1987. Sul serio, lui è uno di quelli che te lo chiederebbe: scusa ma i Beatles? E te - magari - ci perdi tempo a cercare di spiegarglielo. Che sei stupido. E te la dimentichi - questa cosa - che le parole, alle volte, sono davvero inutili. Basterebbero due foto. Ma non ti viene in mente. Colpa dei tuoi maestri, di sicuro. Ti hanno inculcato categorie che hanno poco senso.


Colin - a Milwaukee, la città di Richie Cunningham - viene su. Ed è un bel ragazzone. Lo vedete nella foto (le parole sono inutili, bastano le foto, si sa). Un metro e novantasei. Cento e qualcosa chili. Una faccia da ragazzo intelligente. E per bene.


Colin nasce a Milwaukee. E Milwaukee è negli Usa. E - siccome è un bel ragazzone, con un bel sorriso - può scegliere di fare cosa vuole (è the land of the freedom, the home for the brave). Lui sceglie una cosa. Giocherà a football. No, non a calcio, non fate i provinciali. A football. Quello strano sport con la palla ovale. E - in quel gioco - farà il quarterback.


Ora, se non lo sapete (e difficilmente ve lo perdono) il football è un gioco un po' diverso dal nostro calcio. Ha le sue regole (per qualcuno complicate) le sue storie, i suoi ruoli.

Ed è - unico sport che io conosca ad averlo - un gioco in cui c'è un ruolo che vale più di tutti gli altri. Quel ruolo è quarterback. Proprio quello che sceglie il nostro amico Colin, da Milwaukee, come Richie Cunningham.


Qaurterback vuol dire che sei il più figo. Punto. Il numero uno. Quello che comanda. Vuol dire che ogni ragazza sogna di venire con te.

Poi - è chiaro - dipende da quanto sei bravo.

Da quello dipende se con te vuol venire ogni ragazza di un quartiere di Milwaukee, ogni ragazza del tuo Stato, ogni ragazza del mondo. Ma quello è il ruolo. Entri in campo e tutti guardano te. Solo te. Ci sono - davanti a te - almeno sei ragazzi - grandi due volte te, che si fanno menare per tutta la partita. Solo perché tu possa stare tranquillo. Succede. A Milwaukee, come in tutti gli altri cazzo di paesi degli Usa. Ci sono i tuoi avversari che non vedono l'ora di toglierti dalla faccia quel cazzo di sorrisetto. E tutto il tuo sentirti uno bravo. Cercano te. Tu - invece - hai in mente qualcosa d'altro. Hai in mente che la squadra è in mano tua. E se si vince o se si perde allora sei tu. Che la squadra sei tu. Che se sbagli una cosa le ragazze te lo perdonano (che siano quelle di un quartiere di Milwaukee, o di uno stato, o di tutto il mondo dipende da quanto sei bravo). Però te, quei sei ragazzi - davanti a te, più grossi di te - che si sono fatti menare per darti la possibilità, non hai il coraggio di guardarli in faccia. Che se invece fai una cosa bella tutti dicono merito tuo. E te invece lo sai. Che non è mica solo tuo. E vai da ognuno di quei sei. E gli dici volevo essere insieme a voi. Ero insieme a voi.


Oppure no. Sei stronzo, e te ne freghi. Dipende. Sono cose di carattere. Le parole - già ne ho scritte tante - sono inutili. Guardate la foto. Decidete voi.


Colin gioca quarterback. E' un ragazzone, con la faccia simpatica. E vive negli Usa. All'università va a Nevada. Insomma, come dire, rispetto al livello di quante ragazze verrebbero con te siamo già a livello di fan club. Quelle cose tipo beh, sì, ha personalità, può piacere.

La gente tosta va a Michigan, per dire, o a Tascaloosa, o in Texas, o addirittura in Oregon (lì sono matti per il football) e della California ve ne devo parlare? Lui no. Reno, nel Nevada. Non proprio pieno di ragazze, diciamocelo.


Sia come sia finisce i quattro anni. Lo scelgono i professionisti. Lo sceglie San Francisco.

San Francisco - una volta - quando ero giovane io, era una squadra fortissima. Più che fortissima. Era una squadra bellissima. A livello dell'Olanda di Cruyff. Una roba così. Una roba che dici che bello è che ci sia uno sport del genere e - dentro a questo sport - chi ti sa dire cos'è la fantasia. E che la fantasia vince.


Passati gli anni che ero giovane io - per regole chiare dell'economia di questo sport (sapete, mica siamo in Italia, lì vige il mercato, quello che fa vincere il migliore) - SF diventa una squadra scarsolina. Per parecchi (dolorosi) anni. E lui lo scelgono, e lo scelgono per fare la riserva.


Fa la riserva di Alex Smith. Alex Smith è un bel ragazzone (oh, sei quarterback, quello è il ruolo) che viene da Seattle. Proprio carino. Bello, biondo, preciso. All'università è andato a Utah (gente seria).


Gioca lui quarterback a Frisco. Lui guardano le ragazze. E ci mancherebbe. Boh, dai, Colin, intanto siamo qui. La California non è esattamente Cinisello Balsamo, qualche ragazza bada anche al quarterback di riserva. Ce ne sono tante, e sono generose.


Nel frattempo pensa a fare quello che fanno i ragazzi - pirla - di quegli anni lì. Si tatua. Ovunque. C'ha mica tanto da fare.


Ad accendere la miccia ci pensa un altro personaggio. Uno davvero mitico. Si chiama Jim Harbaugh. In quel momento è l'allenatore dei San Francisco 49ers.


Jim Harbaugh - cosa ve lo dico a fare - da ragazzo ha giocato. Ha giocato quarterback (lo sapete quel ruolo? Quello che tutti guardano te?). Lui ha giocato a Michigan (e voi non potete immaginare che cosa possa voler dire giocare quarterback a Michigan). Poi ha fatto la sua carriera da professionista, che pure ci sarebbe da raccontarne, e adesso fa l'allenatore. E' del 1963. E' uno tosto, Jim. Uno che fa il quarterback. Che sa che tutti guardano lui. Che da lui dipende tutto. Uno anche che se la tira (eh, vedi te... ha visto cose che voi umani...). Voleste immaginarvelo, senza guardare su google, pensate a un giovane Clint Eastwood (a proposito: buon compleanno!).


Jim smette di giocare e diventa allenatore. E' un piccolo Clint Eastwood a bordo campo. Uno tosto. Uno che ha visto cose. E - sia come sia - arriva a San Francisco. Che è stata una squadra fortissima, ma che adesso è di fondo classifica. Adesso, a San Francisco, il quarterback, quello che tutte guardano, si chiama Alex Smith. E San Francisco va mica troppo bene.


Un giorno, un giorno che probabilmente c'ha le palle girate, Jim ne fa una delle sue. Entra in campo. Prende - di peso - Alex Smith (pesa 93 chili, fa niente). Lo trascina fuori dal campo. Gli dice: hai rotto il cazzo. Con me non giochi più. Glielo dice a un centimetro dalla faccia. Gli dice: piuttosto che far giocare te faccio giocare il primo che passa.

Il primo che passa è Colin.


Colin - diciamocelo - Colin da Milwaukee, è meno bravo di Alex. Meno bello, meno biondo. Però lo sa. E' uno che sa che mica è unto dal Signore. Che non è la mano di Dio quella che lancia quei palloni. E' solo la sua. Uno che sa che - per dire - per farti guardare da una ragazza te lo devi meritare.


Ecco, Colin entra in campo, per la mia squadra preferita, e gioca così. Come uno che sa che non è mica la stella. Non uno che hai pagato il biglietto per lui. Però due robe le sa fare. E poi, poi prende fiducia. E le cose vengono bene. E nessuno si aspetta quello che fa. Per forza. Non se lo aspetta nemmeno lui.


San Francisco comincia ad andare bene quell'anno. E io - non l'aveste capito - a San Francisco ci tengo. Da sempre. Da quella squadra che non era solo forte, era bellissima. (bella come una ragazza italiana che ti sorride? Ah, no, scusate, sbagliato leitmotiv).


E Colin gioca. E' il quarterback, questo strano ruolo che ha solo questo strano sport. E gioca a modo suo. Fa a cazzotti. Le becca, anche. Ogni tanto fa delle cose belle. Ogni tanto due cazzate. Quei sei ragazzi, davanti a lui, hanno delle facce che dicono una cosa molto chiara. Per te ci facciamo menare. Per il biondo no.


Oh, succede il miracolo. San Francisco, quell'anno, arriva in finale. E pure lì ci sarebbe un mare di storie da raccontare. La prima è che Jim (vi sarete mica dimenticati?) arriva in finale. E l'allenatore della squadra avversaria è suo fratello. Che non ha mai giocato, mai fatto il quarterback. Ma che è più intelligente. Mica è un bulletto come Jim, John (il fratello). Nono, è uno che sa il fatto suo. Mica si inventa come si fa l'allenatore. Mica che tira fuori prendendoli per le spalle i quarterback.


Poi - davvero - ne succedono di tutti i colori. Tipo che c'è un blackout. Ma davvero, basta parentesi. Finisce che - per un pelo - Colin e
Jim non ce la fanno. Perdono. Di un soffio. La rimonta non gli riesce. Fa niente, dice Jim. Fa niente? Anzi grazie, dice Colin. Arrivare fino a qui non avevo mai osato nemmeno sognarlo! Incidentalmente - molti anni prima - la stessa cosa era toccato dirla a Jim. Che - tra i professionisti - ebbe una buona carriera. E arrivò a un lancio dall'entrare nella leggenda. Quel lancio andò male. Lui disse: io sono fortunato. Da bambino non avrei mai chiesto una cosa così grande come poterlo tirare quel lancio. Forse è anche per questo che Jim Harbaugh, che è un po' bulletto, un po' Clint Eastwood a me sta così simpatico. Forse non è nemmeno un caso che le squadre a cui tengo hanno la antipatica abitudine di arrivare seconde. In ogni caso finisce così, quell'anno. San Francisco ritornata grande, ma seconda. Colin che ha il posto di titolare. Risulterà ottantunesimo tra i cento migliori giocatori della lega.


L'anno dopo ricomincia da dove ci si era fermati. Jim in panchina, Colin in campo. Io che tengo a San Francisco. No, in realtà, si ricomincia quasi da dove si era finito. E anche qui serve una foto. Che non mostra (purtroppo) i tatuaggi che si è fatto durante l'estate. Però - me lo ricordo come fosse oggi - mi fa venire un dubbio. E - subito - per quel dubbio, mi dico quanto sei scemo. Il dubbio, non lo so, ma forse è venuto anche a voi. Ma è NERO? Che dubbio scemo, a pensarci. Che cavolo significa? E' come è. Viene da Milwaukee. Sua mamma ha origini italiane. Suo padre nero, anche se quasi non l'ha mai visto. Lui - in realtà - da piccolo è stato adottato. Americano. Anche quella cosa di dire afro americani non l'ho mica mai capita. Perché Jim Harbaugh cos'è? Euro americano? Dell'Europa non sa niente. Manco mai vista. Come Colin dell'Africa. Dovessimo tornare indietro, nell'albero genealogico del primo forse troveremmo qualcuno che l'Africa l'ha vista. Ah. Bene. Importante. Sempre queste strane, stupide categorie che ci hanno insegnato. E che ci fanno dire stupidate. Se vedo una ragazza di Palermo, bionda, la chiamo Normanno siciliana? Se - per caso - scorrendo il mio albero genealogico, trovassi un lontano parente nero sarei afro italiano?

Boh, strane cose. Colin, Colin di Milwaukee, Wisconsin, forse, come un po' tutti noi è mille cose. Un quarterback, un ragazzo con l'aria intelligente e simpatica, da giovane giocava anche a baseball. Poteva essere mille cose. E' un bel ragazzone, simpatico e intelligente. E vive nella home of the brave.


L'anno, comunque, ricomincia dove era finito quello precedente. San Francisco è tornata forte. C'è sempre Jim in panchina, un piccolo Clint Eastwood, e Colin in campo. Uno che è 81esimo tra i primi 100 giocatori. E tra gli 80 davanti ci sono certamente tanti quarterback. Ma lui lo è, un quarterback. E' uno che sei ragazzi, grandi e grossi, si fanno menare per lui. E lui gioca anche per loro. A modo suo. Un modo un po' strano.


Poi succede una cosa.

Jim, mio preferito, ne fa un'altra delle sue. Ha appena vinto una partita. Di quelle vinte all'ultimo secondo. La Lega prevede che a fine partita gli allenatori delle due squadre si stringano la mano. E lui ci va. Però - appena gliel'ha stretta - sarà per l'adrenalina, sarà perché è un po' scemo, si mette a girellare per il campo facendo gesti. Di quelli che porti entrambe le mani sotto la cintura. Tipica esultanza... La Lega mica lo perdona. Va bene che prendi a sberle i quarterback belli e biondi, va bene che sei un bulletto. Ma questa cosa - in mondovisione - no. Jim perde il posto. Oggi allena Michigan. E' tornato a casa. Cosa voglia dire allenare quell'università lì, che è anche stata la tua, voi non lo immaginate nemmeno. La allena, come sempre, a modo suo. Un po' da bulletto. Un po' da uno che è nato quarterback. Colin, basta cercare su internet, Colin e lui si sentono ogni giorno... Cazzo si dicono? Boh, robe loro, robe da quarterback...

Quello che succede poi è storia.

Anche qui basterebbe una foto. Le parole, quelle sono sopravvalutate. E spesso inutili. Come chi ti chiedesse chi erano i Beatles. Io penserei a due foto. Bastano quelle. E se poi - in più - uno volesse sapere di cosa parlavano, ne basterebbero altre due.

E' un giorno come un altro, al Candlestick Park di San Francisco. E suonano l'inno. L'inno americano. The land of the freedom. The home of the brave. Colin che - l'avrete capito - di cognome fa Kaepernick, che certo non è un cognome da nero, ma è il suo cognome da adottato, se dovesse tenere il suo cognome farebbe Russo, perché l'unica che ha conosciuto era la mamma, italiana di origine, decide che basta. Decide che non si alza. Rimane in ginocchio. Non fraintendete. Da noi - inginocchiarsi - è segno di devozione. Per un giocatore di football, con tutto l'armamentario addosso, sedersi è difficile. La posizione di riposo è in ginocchio. E Colin, Kaepernick, da Milwaukee, quarterback, così rimane. In testa una pettinatura decisamente afro. Basterebbe la foto, l'ho detto. Perché? Perché non si alza? Perché sente le radici? Il sangue? O forse è solo che ne ha viste e sentite abbastanza? E che dice andate a raccontarla ad un altro quella favoletta lì? Sta di fatto che non si alza. E poi - cosa ci volete fare - lui è quarterback. Subito ci sono altri, di fianco a lui. Che si inginocchiano. Non si alzano.

Quello che succede poi lo avrete sentito raccontare.

La Lega si incazza. Da allora - credetemi - non c'è mai più stata una sola partita in cui ti facessero vedere l'inno. Cominciavano dopo. Pubblicità, prima. Trump si incazza. Platealmente. Pubblicamente. Gli dice sei un rivoluzionario da salotto. Sei un radical chic. Un privilegiato. Nei tuoi quartieri la polizia non fa così. Ti stai solo facendo pubblicità. Ma non sai che cos'è la vita vera. Questo gli dice Trump. E Trump non fate mai l'errore di considerarlo stupido. Solo che... Solo che - ed è strano - non conosce il football. Quello che noi qua chiamiamo football americano. E non sa - evidentemente - che in quello sport lì c'è un ruolo, che c'è solo in quello sport. Il ruolo di quarterback. Che è un privilegiato. Però - se è bravo - e lo puoi essere anche se sei l'81 esimo su 100, tu sei tutta la squadra. Tutta. Anche quelli che la palla non la vedranno mai. E che per tutta la partita si fanno menare per te. E se sei bravo, anche se sei 81 su 100, loro sanno che tu sei uno di loro. Il migliore di loro.


Colin perde il posto. Non viene licenziato. Semplicemente nessuna squadra gli offre più un contratto. Gli dicono hey! sei solo 81 esimo su 100, c'è un sacco di gente meglio di te. Per carità, guadagna anche uno spot della Nike, che sono certamente soldi. Però un posto non glielo dà più nessuno. Ragazzoni grandi e biondi (o anche neri, né, per carità) più forti di te ne abbiamo!

Ci ritenta ancora all'inizio dell'anno. Chiede alle squadre, potrebbe giocare. Gli dicono che non hanno posto, che non è un granché. Allora lui - gli Usa sono davvero un posto strano - ottiene una roba. Una prova. Dice io e altri 3 che giocano quarterback. Su un campo. Proviamo. Vediamo se lancio proprio così da schifo. Vediamo chi lancia meglio.

Come va a finire è semplice. La prova la accettano. A ricevere i suoi lanci si offrono volontari i 5 migliori ricevitori di tutta la lega. Neri. Oh, cazzo, i lanci degli altri non riescono proprio a prenderli! I suoi sì. Il football è un gioco strano. E dentro a questo gioco un ruolo strano. Non ce l'ha nessun altro. Sei un privilegiato. Eppure - se sei bravo - trovi sempre chi è disposto a farsi menare per te. No, insieme a te. Che questo è il segreto. Anche se sei il numero 81 su 100. La prova - ovviamente - la vince. Nessuna squadra gli offre un posto. Numero 81 su 100, dai. A chi serve Colin Kaepernick di Milwaukee Wisconsin?

Non lo so a chi serve. E non so nemmeno se ho raccontato bene questa storia. Che le parole sono davvero sopravvalutate. E che il mio scopo era quello di raccontare una cosa che in gran parte non so. Come una storia intima. Che non è trovare le proprie radici. Ma un'altra cosa. Una cosa più strana. Però - io - ogni volta che lo sento nominare, quel Colin lì, da Milwaukee come Richie Cunningham, che poteva essere ogni cosa, io mi alzo in piedi. Cosa ci volete fare, è un quarterback.

Forse anche per questo le foto, quelle di cui parlavo, nemmeno quelle dei Beatles, non ve le metto...

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editoriale di kyra1

Che paese sarà mai questo dove non esistono monumenti nè chiese dalle facciate zeppe di serafini e angeli nè tutto ciò che identifichiamo come "bellezze". Le bottigliette blu di "Spirit" ruzzolano sui marciapiedi. Che paese sarà mai in cui ogni città ha vicino il suo Campo di Concentramento e vi convive e usa le sue stazioncine per tornare a casa come se fosse normale vedere i cartelli che indicano Malkinja con la diramazione per Treblinka, o la fermata di bus a Majdanek, o la strada affollata di Belzec.Per dire. Che paese sarà mai.

Quando arrivai a Lublino immaginavo di trovare il rabbino che volava sulla città, invece non c'era niente, una strada pedonale che attraversava il centro storico e poi fuori città Majdanek. Non si poteva non andarci, i morti a volte hanno bisogno di essere ricordati per mantenerne la memoria ma il campo era chiuso e cani lupo aggessivi e zannuti si lanciavano contro la rete. Da lontano vedevo una specie di fungo di cemento e prati ben curati. La terra di questo paese, soprattuto verso Lublino e in altre regioni, ha una altissima percentuale di sabbia, buona a trattenere il sangue. I fiumi di sangue che scorrevano nelle cavità sotterranee delle città e ne inquinavano le acque facevano si che i suoi abitanti ne fossero ammalorati. Che paese potrà mai essere dunque.

Lublino era sulla strada che portava al confine con l'Ucraina e notai sui lati mucchi di cipolle, indumenti frigor e lavatrici vetuste, realizzai che erano gli ultimi acquisti che avrebbero fatto gli Ucraini di ritorno in patria.

"Anche le cipolle?"chiesi,mi disse che non c'era nulla al di là della frontiera. Nemmeno le cipolle, pensai che era strano visto la fama della fertilità della terra che si intravvedeva nero bluastra proprio quella che i tedeschi caricavano sui vagoni per la Germania. Anche la terra prendevano. E adesso nemmeno le cipolle vi crescono. Sono andati via in tanti , disse, non c'è più un contadino sono andati di là.

Vidi una stazioncina vezzosa, Belzec. Dalla parte opposta ettari di terreno, una scala con gradini, senza fine, su ogni gradino vi erano scritti i nomi dei paesi, delle frazioni che avevano nutrito il fuoco di Belzec. Come legna. Blocchi di avanzi di fonderia segnavano la strada fra due muri che conduceva al muro in cui tutto sarebbe finito.

Le auto continuavano la loro avanzata verso i doganieri ucraini. Chi tornava aveva il doppio serbatoio pieno di diesel, bauli pieni di tende, cappotti e liquori. Costavano di meno di là.

La sera prima, nella piazza della cittadina avevo visto le donne ucraine che vendevano sigarette, bocche con denti incapsulati sotto il regime le più anziane,vestite con minigonne e stivaletti dai tacchi consunti le più giovani. Sotto la pioggia si avvicinavano cautamente con la loro mercanzia, rispettose della vecchia Mercedes. Avrebbero comprato quaderni e materiale scolastico nei negozietti intorno, maglioni di puro acrilico, jeans. Scarpe che alle prime pioggie si sarebbero scollate.Erano le vittime del crollo. Quelle senza nome, buone solo per creare statistiche. Ed erano fra le fortunate, nei villaggi fangosi dell'interno nemmeno quel piccolo mercato si poteva fare. Un anno o due più tardi quando il paese entrò in Europa e furono introdotte le frontiere con l'Ucraina, in tv vidi molte di loro piangere disperate,non si poteva più fare quel piccolo mercato che per molte era una forma di sopravvivenza. Anche quello era finito.

Restava niente.

Avevano già rubato tutto quel che c'era da rubare, i piccoli trafficanti avevano battuto le campagne per acquistare le icone di casa per poi rivenderle al di là, vuotato chiese alla ricerca di qualcosa che sapevano avere un prezzo alto per gli europei.Mancava solo che rubassero la terra come i tedeschi, ma ce n'era così tanta e non aveva mercato.

Questo è un paese così , con una storia inventata, con la madonna protettrice degli eserciti e castelli in costruzione.

Mentre tornavo a casa mi fermai a dormire a Czestochowa, sembrava notte ma erano solo le 4 del pomeriggio, stava per nevicare e decisi di andare a vedere il santuario della Madonna Nera che era a pochi passi. Un padre spingeva un altalena con un bambino, nel buio. Il castello, nelle cui viscere c'era la famosa Madonna, era di legno e non grande ,dai pulmini sul piazzale scendevano grosse donne felici in gita parrocchiale. Salii le scale e guardai il tesoro della Madonna, i soliti anelli, arti in miniatura dorati, quadri e gioielli di poco conto mi sembrò. Un grosso e rubizzo prete con tonaca nera sorvegliava , sia mai che a qualcuno venisse in mente di rubare un'ernia dorata.

Generalmente i preti in questo paese hanno un aspetto poco rassicurante, ti guardano e sembrano cercare nel tuo cervello qualsiasi deviazione dalla retta via. Ovvero la loro. La cappella della Madonna era piccola e la statuetta era nera per le candele che per centinaia d'anni avevano bruciato difronte a lei. Pensai che come protettrice dell'esercito si era dimostrata non efficente. Nelle panche erano incisi i nomi delle brigate polacche perdute. C'era anche la Carpatia che aveva combattuto a Montecassino. neanche loro aveva protetto poveri ragazzi.

Mi ero imbattuta nel loro rigido clericalismo in un modo inusuale : in un condominio vidi che sullo stipite delle porte erano disegnate con il gesso delle croci o qualcosa di simile, chiesi cosa significasse, mi fu risposto che lì abitavano buoni cristiani e che il prete era passato. Pensai alle porte segnate nell'antico Egitto e all'Angelo Sterminatore che faceva il suo dovere, a teste che ruzzolavano, ai fiumi di sangue ai campanelli di casa in Bosnia dove di notte segnavano chi dovesse essere preso .Ucciso. I segni sulle porte indicano sempre qualcosa di brutto.

Che paese era mai quello, pensavo il giorno dopo mentre guidavo per le autostrade vuote. Il paesaggio era innevato, e capii perchè a volte disegnavano la neve azzurra.

Veramente, aveva sfumature azzurre.

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editoriale di kyra1

Le lampadine erano fioche, forse 25 W, come quelle che un tempo usava mia nonna per risparmiare, le strade fangose, qualche ragazzino con motorino scassato , gli altoparlantini fiorivano sui pali della luce.

Il Grande saccheggio sarebbe cominciato poco dopo, per ora, Olomuc esibiva un orgoglioso Museo del Cappello, automobiline sputacchianti e fumose, un impiegato in impermeabile blu e cartella sottobraccio ubriaco fradicio, ondeggiante.

Entrai a Cracovia sotto la pioggia,la città era grigio scuro, l'ufficio postale era scaldato da una stufa panciuta ed esibiva vezzose tendine agli sportelli. Negli Stati Maggiori Tesco, Auchan, Benetton , Ford mettevano a punto le strategie. Le città erano in bianco e nero. Il carbone stendeva una patina su tutto. . Dopo Varsavia mi fermai nel paese in cui era nato Isaac B.Singer scrittore di mondi scomparsi ,cercai di vedere qualcosa che avesse visto anche lui., ma era assai improbabile. Mi consolai pensando che il nome era lo stesso.. proseguendo nella strada che portava a Bialystok s'incrociavano cittadine e paesi silenziosi , paludi , il Bug scorreva sulla mia destra.oltre la foresta. frecce e fiamme votive su cartelli .

La Guerra sembrava finita da poco. o forse erano solo le mie letture che risalivano.alla mente.

In città entrai in un supermarket che aveva pavimenti di legno, polli e selvaggina affumicata appesa al soffitto, panini con semi di papavero e bibite coloratissime quasi fosforescenti. Mi muovevo con calma e osservavo, , uomini giovani in pantaloni grigi e riga nei capelli, donne arrabbiate. Quando chiesi l'indirizzo finsero di non capire e guardarono qualsiasi altra cosa che non fosse la mia faccia.

. Ci arrivai per caso, era dietro al negozio, fra palazzi di 3 piani , una cosa nel cortile. C'era l'Ufficio di Solidarnosch lì accanto e gente che entrava ed usciva. Il cortiletto era raccolto, l'intelaiatura della cupola era di ferro, come una corona enorme, piegata dal calore delle fiamme, ondulata , immaginai il calore che doveva essersi sprigionato per piegare così delle sbarre di ferro. un altoforno. e dentro quest'altoforno c'era della gente che aveva alimentato il fuoco rendendolo ancora più potente e immaginavo la carne umana fondersi con gli arredi, i metalli, il legno. Indestinguibile dopo.

Il mattino seguente girai per la città di confine, bielorussi riempivano il mercato all'aperto e compravano tutto ciò che si poteva trasportare oltre frontiera, un pò come a Trieste. Feci un giro verso la stazione che , per un dispetto dello Zar così mi dissero, era fuori città e voltata verso l'uscita. I treni erano pieni e senza più sedili per aver più spazio per le merci.

La sera mi feci accompagnare da un taxi nel dedalo di palazzi che sorgevano poco fuori dal centro storico,da sola non avrei potuto trovare l'indirizzo le strade erano tutte uguali.

Arrivai un 4 piano ed entrai, la gente mi fece festa, mi avevano preparato yogurth e arrosto, tutto su un tavolino, nessuno aveva un tavolo grande allora.

Si vede che sei italiana, mi dissero, il mio accompagnatore traduceva.

hai tanti capelli neri.

Rimasi lì un pò, consegnai i regali e tornai in albergo. A letto pensai che forse mi ero sbagliata in tutti quegli anni.,che anche mio padre avesse creduto in qualcosa che c'era solo nel suo cuore.

Ero avvilita.

La mattina dopo , in centro, c'era una folla di giovani difronte ad un negozio e adulti dai visi sorridenti davano loro denaro in cambio dei foglietti.che questi avevano in mano i ragazzi entravano nel negozio e ne uscivano con un sacchetto. Chiesi cosa succedesse: mi risposero che quei foglietti erano azioni che lo stato aveva dato ai maggiorenni e che gli uomini gentili li compravano così i ragazzi potessero indossare finalmente un paio di Levis. Il Muro era caduto da poco .

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editoriale di Taddi

Le canzoni hanno smesso di guarire il mondo, ma sono la miglior medicina per guarire il mondo. Il ricordo della felicità non è più felicità, il ricordo del dolore è ancora dolore. Il ricordo della musica è felicità e dolore (4). C'è un tempo negato e uno segreto, un tempo distante che è roba degli altri, un momento che era meglio partire e quella volta che noi due era meglio parlarci. (3)

Una voce esce dalla radio e mi porta lontano, racconta di vestiti che svolazzano, di porte che sbattono, di visioni che danzano nel porticato mentre la radio trasmette Roy Orbison. C’è magia in questa notte. La musica parte, sta giocando con la voce, sta costruendo una storia. Amo le storie quelle belle, commoventi , vere o verosimili, folli, assurde o incredibili. Storie che ti restano dentro per sempre che ti accompagnano per strada, che tieni in tasca e, sei hai un cuore, ti benedicono perché anche loro - le storie - sono musica e la musica è là fuori in attesa come un killer sotto il sole (6), è legno, è pietra, è la fine della strada, è qualcuno un po' solo, è un pezzo di vetro, è la vita, è il sole, è la notte, è la morte, è un laccio, è l'amo, è un albero in un campo, è il nodo del legno, è un flauto, è un tuffo dalla sponda del fiume, è il profondo mistero, è il volere o non volere, è il vento che soffia, è la fine della discesa, è la trave, è il vuoto, è la pioggia che cade. (7)

Sembra ieri eppure è stato molto tempo fa, mi innamorai, Janie era la regina delle mie notti, nel buio mentre la radio suonava piano, condividevamo segreti e dividevamo montagne, eravamo come un fuoco incontrollabile che si diffondeva fino a quando non c’era più nulla da bruciare e da provare. Ricordo cosa mi hai detto, hai giurato che non sarebbe mai finita, mi tenevi stretto… Vorrei non sapere ora ciò che non sapevo allora. (8)

Noi quattro usciamo dal lavoro, è stata una giornata dura, ma fuori è già buio, quindi è stata la notte di una giornata dura. Dovrei dormire come un ghiro, ma quando torno a casa da te… (10) I know I know I know (26 volte…). (9)

Così mi ha detto il Signore: Va', metti una sentinella, che annunzi ciò che vede. Essa vide carri e coppie di cavalieri, e osservò con attenzione. Poi gridò: “O Signore, di giorno io sto sempre sulla torre di vedetta e tutte le notti sto in piedi al mio posto di guardia”. È caduta, è caduta la Babilonia moderna! Deve esserci una via d’uscita, disse il giullare al ladro. C’è troppa confusione, non riesco a trovar pace. Uomini d’affari bevono il mio vino, contadini con l’aratro scavano la mia terra e nessuno di loro sa a cosa serva tutto questo. Non c’è motivo di allarmarsi disse il ladro gentilmente. Ci sono molti qui fra noi che pensano che la vita sia solo uno gioco ma noi due ci siamo già passati e questo non è il nostro destino perciò basta parlare in maniera falsa adesso,il tempo è finito. Lungo la torre di guardia i prìncipi osservavano l’orrizzonte mentre tutte le donne andavano e venivano, anche i servi scalzi. Fuori in lontanaza un gatto selvatico ringhiò, due cavalieri si stavano avvicinando, il vento iniziò a fischiare. (11)

Disastro!

La scorsa notte stavo guidando tornando a casa, correvo da solo attraverso la fitta pioggerella su un tratto deserto di una strada quando ho trovato un incidente sull’autostrada. C’erano sangue e vetri rotti dappertutto e non c’era nessun’altro lì a parte me mentre la pioggia cadeva fitta e fredda ho visto un ragazzo accasciato a lato della strada mi urlò: - Signore, mi aiuti per favore - Un’ambulanza alla fine arrivò e lo portò all’ospedale. Guardavo mentre lo portavano via e pensai a una ragazza o una giovane moglie e un poliziotto che bussa nel cuore della notte per dirti che il tuo amore è morto in un incidente sull’autostrada. A volte resto seduto al buio e guardo la mia piccola mentre dorme poi salgo sul letto e l’abbraccio forte,me ne resto lì sveglio nel cuore della notte ripensando a quell’incidente sull’autostrada”. (6)

Tua è la forza che brucia dentro, nostro è il fuoco, tutto il calore che possiamo trovare, lui è una foglia nel vento. Ci sono cose conosciute e cose sconosciute tra le porte. Porte? Quali “porte”? Cosa farai quando ti sentirai solo e nessuno che ti aspetta al tuo fianco? Stai correndo e nascondendoti da troppo tempo, lo sai che è solo il tuo stupido orgoglio Layla che mi ha messo in ginocchio. Amore, a volte mi sento così perso i giorni passano e questo vuoto riempie il mio cuore. Quando voglio scappare guido la mia auto lontano ma in qualunque modo me ne vada torno indietro dove sei tu. Tu sei nei tuoi occhi, la luce, il calore. Sono completo nei tuoi occhi.

Non so ancora cosa stessi aspettando, il tempo mi sfuggiva senza controllo. Così mi sono voltato per guardarmi. Ehi state attenti voi Rockettari, ormai ben presto invecchierete. Il tempo può cambiarmi, ma non posso determinarne il corso. (12)

Gli Irlandesi sono i più negri d'Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: "Sono un negro e me ne vanto!"(1)

In un paese degli appennini un racconto circola spesso. Di quella notte d’estate in cui una persona stava rientrando a piedi in hotel con un amico e venne fermata da un signore in macchina che aveva accostato al marciapiede col finestrino abbassato. Potevano essere le tre. Il tipo, un uomo di colore, aveva il fare circospetto dei piccoli corrieri degli alcolici durante gli anni del proibizionismo. Gli domandò sottovoce, cortese ma deciso, se in città ci fosse un bar ancora aperto perché “Mr. Pickett” – e accennò con la testa al passeggero sul sedile posteriore – “vorrebbe bere qualcosa”. Il nottambulo non sa dire. Prova a lasciare a Wilson Pickett e al suo valletto un filo di speranza, come si fa in questi casi: “In fondo alla strada ce n’è uno, ma forse sta per chiudere”. “Many thanks, good night” gli risponde l’altro, ripartendo con l’auto. Ha già capito che la serata finirà all’asciutto. A questo punto l’amico lo afferra per un braccio e gli dice: “Un momento, questa scena l’ho già vissuta. E anche tu!”. I due ci pensano bene, è un déjà vu che hanno incontrato al cinema, nelle scene finali di The Commitments. L’incrocio notturno con The Wicked Pickett resterà stampato nella memoria dei due tiratardi, che nel corso degli anni torneranno a narrare l’episodio a un nuovo pubblico, senza ricamarci sopra né aggiungere dettagli inediti, perché la storia rimane sempre quella (5).

Ho fatto un sogno, in cui tutto ciò che volevo sapere ed in ogni posto in cui andavo ascoltavano la mia canzone. Sì gente, voi non la sentite ora? (2)

Parole di:

Massimo Cotto (4), Ivano Fossati (3), Bruce Springsteen (6), Antônio Carlos Jobim (7), Bob Segar (8), Ringo Starr (10), Bill Whithers (9), Bob Dylan (11), Robert Plant, Jim Morrison, Eric Clapton, U2, Peter Gabriel, David Bowie (12), Edoardo Fassio (5), Jimmy Page (2), Jimmy Rabbitte (1).

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editoriale di perfect element

Djianhe si aggiustò la mascherina, con un riflesso spontaneo la alzò sul viso e la strinse attorno
al naso.
Un odore rancido di vecchio cibo incrostato e muco gli avvolse la gola, non si era mai abituato a
calzare quella pezza di carta e cotone, ma, come tutti, non se ne lamentava e si convinceva che
fosse indispensabile.
Il caldo di maggio gli imperlava la fronte e l'eccitazione del momento faceva sudare anche
buona parte del resto del suo corpo.
Alzò lo sguardo sul bel palazzo che gli stava di fronte, cinque piani candidi di intonaco coloniale,
intasato di vecchi fregi, balconate vuote e stucchi eleganti.
Attraversò la strada deserta, solo una vecchia con una logora borsa ricavata da un tappeto da
preghiera s'allontanava da un lato.
L'androne odorava d'alcool denaturato e di stracci vecchi d'ammoniaca, non un granello di
polvere copriva il bel pavimento di marmo e, alla sua destra, una lucida e maestosa scalinata,
incorniciata da una ringhiera di ferro, muta saliva con dolcezza verso i piani superiori.
Djhanhe sentì il suo cuore perdere un battito e avvertì un tremore alla mano destra, non si spaventò, gli capitava sempre quando aggiornava il software che il Buon Pastore aveva
pensato per lui e per tutti; anzi era un effetto collaterale piuttosto comune ed era un piccolo
disagio che tutti tolleravano senza troppo interrogarsi.
Riprese fiato, abbassò la mascherina e l'odore d'alcool e ammoniaca sembrava quasi migliore
del lezzo di capra cotta del cotone marcio che era obbligato a tenere sul muso.
Con coraggio prese le scale ed iniziò a salire con passo costante. Occhi lo guardavano dalle
porte chiuse, ma non se ne curava, nessuna macchina del Buon Pastore l'aveva seguito o
ammonito per strada, e anche all'interno del bel palazzo nessun drone, volante o strisciante,
l'aveva disturbato.
Si convinse, una volta di più, che la Super Intelligenza che tutti seguivano, di cui si fidavano
ciecamente e che amava farsi chiamare Buon Pastore, stava benedicendo i suoi immacolati
sentimenti.
Djianhe non dovette nemmeno bussare alla porta, lei gli aprì nel momento esatto in cui lui
appoggiava i piedi sullo zerbino consunto che un tempo era stato un bel tappeto.
Entrambi non ricordavano più come avessero fatto ad arrivare fino a quel preciso istante, e non se
ne curavano affatto.
Forse una noiosa ora passata in coda a distanza legale per comprare un po' di caffè, forse lui
aveva timbrato una giustificazione per lei, o aveva atteso di poter pagare un conto allo
sportello in cui lei lavorava; non era più importante, tutto il tempo e il mondo era solo lì, adesso.
La pelle bianca di lei rifletteva la bella luce di Maggio, mentre quella nera di lui la assorbiva con
la stessa grazia.
Entrambi brillavano di nervoso sudore.
Djianhe sentì per la prima volta dopo tanto tempo quella scossa elettrica che dalle base della spina dorsale passa
sotto i testicoli e fa fiottare il sangue ossigenato in avanti e che gli provocò un'erezione; era
felice.
La sensazione durò poco e la sua mano destra iniziò a formicolare, scoppiò in lacrime mentre
proprio quella mano si alzò sulla gola di lei, strinse e pianse e cercò di non pensare.
Quando la vide a terra senza respiro, la stessa mano gli si calò dolce sul viso, le lacrime erano
finite e la mano, indipendente dalla sua volontà, si alzò sulla fronte e, come due entità separate,

ballarono all'indietro fino alla bella balaustra di ferro battuto del pianerottolo.
Si appoggiò sereno sul marmo dopo dodici metri di volo, pensando a lei e a quanto fosse bella.
Solo pochi secondi di ronzio dei ragni pulitori del Buon Pastore turbarono la sua ultima visione del paradiso.

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editoriale di Taddi

La tenacia, quella voglia di non farsi sopraffare dal destino, quel desiderio di mostrare il dito medio alla vita e di non mollare mai appartiene a pochi uomini e donne.

La tenacia può avere una caratteristica, ad un certo punto ti ripaga. Non capita sempre, certo, ma quando capita capisci il senso di tutti i sacrifici. Voglio raccontarvi una storia, quella di Steven Bradbury. In rete esiste un video della gialappa’s in cui Steven viene volgarmente perculato, ma prima di guardarlo continuate a leggere.

Lo short track è una gara di velocità su ghiaccio con pattini, senza corsie dove si raggiungono velocità di oltre 50 km/h. Dovessi paragonarlo ad un brano musicale, chiederei ad Arianna Fontana, la medaglia olimpica italiana più giovane (meno di 16 anni), “cavaliere” e pattinatrice di short track. Rimanendo sul Deba chiederei aiuto sicuramente a Lorenzo, a me viene in mente Guerrilla radio… Ma non divaghiamo.

Steven è nato a Sidney, 14 giorni prima di me ed ha sempre amato la velocità, sia sul ghiaccio che sulle auto. Lui si impegna, partecipa ai mondiali di short track vincendo un oro nel 91, bronzo nel 93 e argento nel 94, gareggia alle olimpiadi di Lillehammer del 1994 (partecipò anche un certo Alberto, mio concittadino) e riesce a portare a casa un bronzo nella staffetta. Strada in discesa? A 21 anni sei nel pieno vigore fisico, nulla ti può fermare, nulla tranne 111 (centoundici) punti di sutura a causa della recisione dell’arteria femorale durante una gara, conseguente perdita di oltre 4 litri di sangue, con alte probabilità di morte.

Sopravvive, ma passa i successivi 18 mesi in riabilitazione. Lentamente ricomincia, torna a gareggiare, ma non è più lui, la magia è scomparsa. Nel 2000 un altro incidente (frattura del collo) lo blocca per altre sei settimane. Steven però ha un sogno, gareggiare ancora alle olimpiadi per l’ultima volta, a Salt Lake City nel 2002. Ha quasi trent’anni, ma riesce ugualmente a qualificarsi per il suo paese, non certo famoso per i suoi ghiacciai e parte senza nessuna speranza di conquistare una medaglia. Gli sport invernali non sono molto praticati in Australia…

Non credo ai miracoli, ma nello Utah qualcosa di simile è successo. Steven nella batteria 1000 metri short track riesce a qualificarsi per i quarti, acciuffando l’ultimo posto disponibile. E’ già felice così, gareggerà i quarti di finale olimpici dello sport che ama. Si qualificano i primi due alla semifinale, arriva terzo. Fine, si torna a casa.

No, non è finita, viene squalificato il giapponese, viene ripescato. E’ sua la semifinale. E’ inutile di cercare di capire cosa prova Steven, ve lo lascio immaginare.

La semifinale la corrono in cinque, tre cadono per colpa del quarto che viene squalificato. E’ in finale!

Accanto a lui ci sono i mostri sacri dello short track, il commentatore italiano prima della partenza dice: “Fuori dalla lotta, quasi certamente c’è solo Steve Bradbury” Franco Bragagna.

Steven non sta bene, gli fa male la gamba operata, parte malissimo, viene subito distaccato dagli avversari, ma all’ultima curva succede qualcosa di incredibile, un groviglio di corpi distesi sul ghiaccio e lui che li evita. L’americano si rialza, tenta il recupero, ma Steven, sgomento passa per primo il traguardo.

Primo oro australiano nella storia delle olimpiadi invernali. A fine gara, intervistato disse: Non ero sicuro se avessi dovuto festeggiare oppure andare a nascondermi in un angolo. Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario.”

Steven Bradbury.

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editoriale di stampaestera3

Pubblicato – il 25 maggio 2020 – il nuovo romanzo, La ragazza degli oceani (PlanetEditori, pag. 288). L’autore è Mimmo Parisi, e proviene dal mondo del cantautorato. Insomma, il fascino della pagina scritta ha in questa occasione avuto la meglio sul mondo del pentagramma. Tuttavia, vale la pena segnalare che si tratta di una sortita sentita come momento di ampliamento del proprio orizzonte creativo. È la cognizione che a volte occorrano più dei tre canonici minuti della canzone, per dire la propria. Quindi, si chiede al lettore un tempo di attenzione maggiore.

I libri di questo artista trattano i temi più diversi, ma sempre in un’ottica dove il fulcro principale passa attraverso l’individuo, con un’attenzione a un umanesimo post novecentesco. I romanzi che meglio rappresentano Mimmo Parisi hanno titoli come, Sono tornati i Braccialetti rossi (2017), Il figlio del drago (2018), Ti voglio bene come nei film (2019), La stella di Geq (2019). Inoltre, il suo interesse per il mondo del rock – dalla quale proviene – non manca quasi mai nelle sue narrazioni. Infatti, nel 2017 è vincitore del premio ILMIOLIBRonline con un libro che si chiama, con chiarezza di intenti, In nome del rock italiano.

Storia del romanzo

Il protagonista è Remo, un nome facilmente associabile al contesto cittadino dove è agito il racconto, Roma. Mentre il primo decennio del nuovo millennio avanza, il ragazzo si accorge che le possibilità sociali offerte a gente come lui – giovane di borgata – non sono poi tante. Diversamente da una certa retorica che aveva predicato un miglior destino per tutti, in periferia tutto rimane uguale. Ma Remo ha dalla sua un ottimismo incrollabile. Frequenta un gruppo di amici che gli riempiono la vita. Essi non hanno un orizzonte speciale da raggiungere. A loro basterebbe superare l’esistenza barcollante delle loro famiglie. Quindi nel degradato scenario urbano di estrema periferia, il gruppo di coetanei rivolge l’attenzione alla preparazione scolastica: pensano a un titolo accademico da poter spendere nella società. Ma il futuro dei giovani non riesce ad accendersi. Pur essendo titolati, non ci sono grandi occasioni per assicurarsi un normale stipendio. Tuttavia, il destino è pronto a premiarli. Il fato decide di palesarsi nelle vesti di Felipe Ortega. Anche quest’ultimo è un ragazzo, ma con una qualità decisamente invidiabile: è un milionario.

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editoriale di sfascia carrozze

Il piccolo Mariolino ha due piccoli pappagallini in gabbia che gli son stati regalati qualche giorno addietro dal papà per il compleanno.
Sono uno rosso e uno verde.

Un bel giorno Mariolino mentre gioca vicino alla gabbietta, inavvertitamente urta l'asta sulla quale è appesa e questa prima oscilla e poi cade di schianto liberando di colpo i due uccellini.

I due poveri volatili non essendo più abituati dopo qualche metro di volo incerto e zigzagante poggiano le proprie esili zampettine sui rami più alti dell'albero di mele piantato proprio di fronte alla finestra.

[LO SO CHE NON STATE ANCORA RIDENDO A CREPAELLE: ABBIATE PAZIENZA E, SOPRATTUTTO, FEDE]

Mariolino, disperato e singhiozzante, chiama a gran voce la sorellina più grande, Mariolina!

[PORCO BOIA! NON E' COLPA MIA SE I GENITORI NON SONO MOLTO FANTASIOSI COI NOMI]

"Mariolina! Presto.. son scappati i pappagallini! Sono volati nell'albero di mele!
Per favore, ti prego, ti supplico, aiutami a prenderli prima che volino via!
"

Mariolina invero un po' seccata (giocava con Barbie e Ken, nonostante i suoi 33 anni) prende la scaletta e la appoggia all'albero.
Saliti gli ulltimi pioli sparisce per qualche istante in mezzo ai rami.

Dopo un po' scende velocemente i gradini della scala e porge a Mariolino solo uno dei due pappagallini.

Mariolino:
"Ma.. perchè hai preso solo quello rosso? L'altro dov'è? E' volato via?"
Mariolina:
"No, Mariolino, vedi, ti spiego una cosa che quando diventerai grande capirai: l'altro, quello VERDE, era ancora acerbo!"

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editoriale di Martello

Tanto tempo fa (mica tanto in realtà) andavo al liceo, non avevo i capelli lunghi e ero fissato con la musica. Chi ha la fortuna di essere del Valdarno saprà dov'è San Giovanni Valdarno (indovina un po' dov'è? Non l'avrei mai detto). Ecco, io andavo lì a scuola e ogni giorno per tornare a casa mia (che era sempre nel Valdarno, ma un po' più defilata) dovevo prima prendere un autobus che mi avrebbe portato a un autostazione per poi aspettare mezzora per prendere un altro pullman che passava per le strade più defilate d'Europa, dove paesi sconosciuti quali Comugni, Campogialli e soprattutto LA TRAIANA passavano come passavano le madonne del conducente. A volte capitava che quell'autobus che mi avrebbe portato all'autostazione lo perdessi miseramente e che dovessi aspettare il prossimo (che di solito arrivava dopo una quarantina di minuti). Non avendo mezzo posto dove sostare un attimo, tra panchine delle fermate strapiene e bar dove faceva un freddo bestia, l'unico posto dove potevo e volevo sostare era un negozio che vendeva strumenti e CD: ora come allora porta il nome di Musicomania.

Quella era la mia palestra, dove mi sono formato musicalmente: il proprietario mi conosceva da tempo e anzi fu lui a istruirmi sull'idea di musica (per esempio al fatto che il CD sia superiore al caldo LP, per la qualità del suono) ed è lì che comincia a formarmi una mia identità musicale e a spendere i miei primi soldini in CD e LP. Il primo credo sia stato uno di Frankie hi nrg (se non erro Ero un autarchico), poi col tempo andai a scoprirmi Bersani, Silvestri, Litfiba, De Andrè e di recente anche gli Eugenio in via di gioia (ascoltateveli tra l'altro, sono fantastici). Poi man mano che andavo avanti a CD e soldi spesi, comincia a girare anche altri luoghi in cerca di altri negozi in cui vendessero atri CD (che Musicomania stava cominciando a scarseggiare per i CD), ma per quanto mi sforzassi nel Valdarno non riuscii a trovare nient'altro. Fu un periodo buio, vuoi per la pressione scolastica, vuoi per la mia ossessione non placata, ero disperato (si ok, allora c'erano sia discogs che amazon, ma non avevo nessuna carta di credito e se i miei scoprivano che avevo usato la loro erano cazzi amari). E nel momento di massimo sconforto fisico e spirituale, ti ritrovi a pregare Gesù Crì per un segno, un luogo dove poter stare fuori dal mondo per un quarto d'ora e dedicarsi alla propria passione. Ben presto arrivò la risposta.

Era gennaio circa ed ero ad Arezzo con degli amici a prenderci qualcosa da mangiare e magari una birra se non ci sgamavano (allora avevo un amico maggiorenne e che quindi poteva bere alcolici, io invece avevo l'apparenza di un maggiorenne). Fu in un attimo, un momento fatale e meraviglioso che mi risvegliò: una vetrina strapiena di CD, LP e una scritta che recitava CORY MUSIC. Abbandonai i miei amici al loro destino e entrai come Berlusconi sarebbe entratonella figlia di Mubarak e lì trovai il paradiso: all'interno una marea di musica in tutti i formati possibili. Fu lì che scoprii la magia dei Queen, i capolavori dei Pink Floyd e le parole fuori da tutto di De Gregori. Era una miniera d'oro che ancora non ho ancora finito di spolpare e con molta probabilità ho speso più soldi lì che in bollette. I miei amici ovviamente mi avevano mollato per andarsi a prendere un caffè a un bar lì vicino, ma volta per volta che ci tornai anche loro lo esplorarono con me e si rivelarono molto curiosi riguardo ai formati vari e ciò mi ha veramente stupito: per me ha significato la vittoria dei musicomani, che la musica è un concetto universale e che riguarda tutti, anche i più scettici e i più idioti.

E per formare il triangolo amoroso tra me e la musica arriva un terzo negozio, situato nel centro di Firenze. E' arrivato il momento di parlare del leggendario DISCHI ALBERTI. E' lì che ho trovato una catarbia di CD, anzi ha tutt'ora un catalogo più vario rispetto altri due. E' grazie a quel negozio che ho comprato i dischi a cui sono più legato, in primis Fotoricordo di Jannacci che tutt'ora reputo il miglior disco italiano, ma è anche il luogo dove ho scoperto il progressive grazie a un CD dei Perigeo che porta il leggendario nome di La valle dei templi.Lì ho fatto anche la scoperta di uno dei miei gruppi italiani preferiti, gli Zen circus: mi ricorderò per sempre quel momento in cui ho visto la copertina di Andate tutti affanculo e istantaneamente i era già nella mia mano.

Ora che ho finito di scrivere queste righe in cui principalmente parlo di quanto io sia impazzito per la musica, mi viene in mente come allora avevo forza di volontà da vendere: a quei tempi c'era già amazon che consegnava pacchi in tempi brevi e ora come allora mi rifiuto di comprare su quel sito, perchè alla fine amazon vende di tutto e non si basa solo sulla musica, invece decido di dare i miei soldi a un negozio, che esso sia in un vicolo a San Giovanni,in una strada di Arezzo o nel centro di Firenze ci guadagna vendendo questi supporti e con l'arrivo della musica digitale questi negozi hanno meno clienti e col tempo probabilmente chiuderanno e tutti saremo costretti a usare internet per acquistare musica. Questo è il messaggio: ora che potete andate nei negozi, comprate la musica che vi piace e lasciate stare internet per i vostri acquisti (oppure potete anche comprare su discogs, i negozi vendono anche lì).

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editoriale di zaireeka

Da un po’ di anni, per chi ancora non lo sapesse, sono un appassionato (dilettante) di “scienza e filosofia della coscienza”.

E allora ne voglio un po’ parlare anche qui, direttamente, lo ho “minacciato” ed ora lo faccio, cominciando dalla cosa fondamentale che penso di aver capito.

La coscienza è come la musica, musica per pianoforte.

Anzi, è il pezzo più straordinariamente complicato da suonare al piano che sia stato mai concepito.

E, come per i pezzi più complicati di Liszt o Rachmaninov, una volta imparati, l’unico modo di eseguirli è, mentre li si suona, abbandonare le mani sulla tastiera senza pensare razionalmente alle note sul pentagramma e ai tasti da premere, o a qualunque altra cosa sia relativa alla difficoltà del pezzo, così per la coscienza, se la si vuole continuare a “suonare”, bisognerebbe evitare di porre attenzione (razionale) sui suoi passaggi più ardui, le sue fughe, i suoi segreti, le sue magie.

Però gli scienziati (e i filosofi) della coscienza, specialmente alcuni, sono testardi e senza paura, per cui…

Qual è la differenza fra un triangolo e un rettangolo? Come facciamo a capire che un poligono è un triangolo e non un rettangolo?

Il primo ha tre lati e il secondo quattro.

Qual è la differenza fra il rosso e il verde? Come facciamo a capire che una cosa è rossa e non verde?

Non lo sappiamo. Semplicemente lo capiamo.

Ha senso dire che due cose sono diverse se non riusciamo a capire perché sono diverse?

Ha senso dire che una cosa esiste ed ha una sua identità se non riusciamo neanche a definirne l’essenza?

E fra queste ci posso mettere tante cose, moltissime di quelle che popolano abitualmente la nostra coscienza, per primi i colori, non ultima l’amore...

I colori, però, hanno un piccolo problema fondamentale.

A differenza dell’amore che è una cosa astratta, frutto, come direbbe Piergiorgio Odifreddi, di una “reificazione”, evidentemente un'idea umana, tutte le cose del mondo materiale sono colorate, da sempre, ma non esiste nessuna proprietà della materia ed in particolare delle superfici che possa essere lontanamente identificata con il colore.

Qualche esempio di vera proprietà della materia?

La durezza è una proprietà della materia, la conducibilità elettrica è una proprietà della materia.

I colori non esistono in se, nel mondo.

Quello che noi percepiamo come colore è la nostra reazione soggettiva a particolari configurazioni di stimoli esterni sul nostro corpo (sul nostro apparato visivo), stimoli esterni trasportati dalla radiazione elettromagnetica proveniente dagli oggetti del mondo (la foglia di un albero, una goccia di sangue), o da altro..

Più configurazioni di stimoli esterni, anche diverse tra loro, possono causare in noi lo stesso colore (provato mai a chiudere gli occhi premendo con forza sulle palpebre e ad osservare lo spuntare di un bellissimo violetto nel campo visivo, che non si sa da dove spunti?).

Questa reazione soggettiva e qualitativa, che i filosofi hanno battezzato “quale" (in questo caso di colore), è ineffabile per gli altri ma anche a noi stessi che ne facciamo esperienza.

Ineffabile perché se dovessi provare a descrivere a parole, agli altri ma anche a te stesso, cosa provi a vedere il rosso, cosa è il rosso (o il violetto, nell'esempio sopra), avresti grandi difficoltà..

Comunque sia sei convinto (non è vero?) che questa “sensazione di rosso”, per come la provi tu, il colore rosso, la conoscano anche tutti gli altri.

Al contrario dei qualia gli stimoli esterni sono, insieme alle loro reazione sul corpo, oggettivamente osservabili dall’esterno.

Il dualismo (quello filosofico, quello cartesiano) afferma che entrambe le cose, qualia (sensazione interna e soggettiva di rosso, sensazione di verde, sensazione di blu, ecc) e stimoli esterni, esistono entrambi in mondi separati e siano indipendenti.

Un po’ come da un lato, su un computer, due porte usb, e, da un’altra parte, in uno scatolone, un mouse e un disco esterno.

E a piacere puoi prendere dallo scatolone il mouse e collegarlo sulla prima usb e poi prendere il disco esterno e collegarlo sulla seconda, oppure viceversa.

Oppure lasciare computer da una parte e scatolone dall’altra, due "mondi" separati.

Da questa convinzione deriva che in linea teorica il quale del rosso (la sensazione di rosso) può essere causato in me dalla configurazione di stimoli esterni che in te è causa del quale del verde (che in te provoca la sensazione di verde).

In pratica se guardiamo entrambi una goccia di sangue e la foglia di un albero entrambi diciamo che la prima è rossa e la seconda verde (perché entrambi dall’inizio abbiamo chiamato così quelle nostre sensazioni soggettive) ma in verità i colori che percepiamo sono invertiti (oh, mio Dio, che incubo..).

Tale ipotesi (inversione dei qualia) viene rigettata dai filosofi materialisti come la conclusione di una reductio ad absurdum per rigettare in toto il dualismo.

In pratica è per loro la dimostrazione che non può esistere un mondo esterno e materiale (quello degli stimoli fisici e delle reazioni ad essi, oggettive e osservabili sul corpo) e dall’altro lato, separato, quello mentale, interno e “spirituale” cui appartiene l’anima umana (quello a cui appartengono i qualia e le sensazioni soggettive).

A ben pensarci, non esiste, ad una analisi introspettiva, nessun confine fra i due mondi.

Parlando del gusto, se dopo un po’ di anni ribevo una marca di birra che mi piaceva tanto ed ora non mi piace più, riesco a capire e ad essere certo, senza fare indagini presso la fabbrica di birra, se è la birra che è cambiata o sono i miei gusti che sono cambiati?

Il confine a pensarci bene non esiste.

Per cui stimoli esterni (la birra sulle papille gustative) e reazioni soggettive (il gusto percepito della birra) devono appartenere necessariamente ad un unico mondo, che, se non si vuole credere che sia tutto un sogno (oh, mio Dio, no..), deve essere quello materiale.

Ma i qualia, come un pesce che messo fuori dal mare, che rappresenta il suo mondo naturale, è destinato a morire, una volta messi fuori dal mondo mentale allo stesso modo sono destinati a scomparire.

I qualia quindi, i colori, i sapori, gli odori non esistono, del resto non siamo stati mai capaci di definirne l’essenza..

O, meglio, aggiungo io (e qui la cosa si fa un po’ difficile, per cui chi vuole e chi è arrivato vivo fino a qui può saltare direttamente all'ultima riga..), i qualia esistono, ma esistono solo di un esistenza minore, non assoluta, in quanto servono a trasportare all’interno della coscienza solo “asettica” informazione “relativa” sul mondo fisico, che è quella che serve a noi essere umani…

In pratica il verde è il verde solo in quanto diverso da tutti gli altri “colori”.

I colori servono solo a tracciare e riconoscere forme, confini delle cose all’interno del mondo.

Se ne esistesse solo uno non sarebbe possibile.

In pratica se il mondo fosse meno complesso, o meglio, se noi avessimo la necessità di percepire il mondo a un livello minore di complessità, forse “esisterebbero” solo due colori, bianco e nero (senza alcuna scala di grigi).

Quindi sarebbe come una mappa di 0 e 1.

E l’informazione contenuta in questa mappa non cambierebbe se si invertissero 0 e 1.

Se si invertissero bianco e nero.

Ma lo stesso discorso vale se i numeri non sono solo 0 e 1, se sono molti di più 0,1,2,3,4, infiniti per quanti i colori del mondo.

Se si scambiassero di posto un certo insieme di colori del mondo, se il cielo senza nuvole di mezzogiorno diventasse rosa e la pelle della modella sul giornale di moda diventasse azzurra, dopo un po’ di tempo non noteremmo più nulla di strano.

Gli occhi rosa di quella attrice che abbiamo sempre amato ci ricorderanno sempre i colori del cielo senza nuvole di mezzogiorno, perché sta la il "significato" dei colori, ricordarci cose.

E dopo un po’ troveremmo di nuovo naturale chiamarli azzurri.

Questo è quello che asserisce certa moderna scienza (e filosofia) della coscienza, nelle figure di alcuni suoi eminenti esponenti (Daniel Dennett, Thomas Metzinger, Douglas Hofstadter, ed altri).

Sarà vero?

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editoriale di zaireeka

Quale è il segreto della felicità?

Non sono uno scienziato e neanche un filosofo di professione, ma voglio immaginarla.

Pensare sempre e solo al presente e al futuro nella speranza e convinzione di trovare in esso la ragione e la “causa” di tutta la tua vita.

A differenza di una pallottola argentata sparata dal mare in direzione del cielo, destinata prima o poi a fare il viaggio di ritorno e a perdersi nuovamente nell’oceano.

Guidata solo dalla gravità, senza altra causa del suo percorso che non sia la gravità stessa ed il modo in cui è stata sparata.

In questo siamo diversi, per dono divino, o del caso, da tutti gli esseri viventi.

Ed il passato perso, gli anni andati?

La pallottola, se lo desidera, può tornare indietro seguendo il percorso inverso, fino al momento in cui ha spiccato il volo, senza violare nessuna legge fisica.

Ma questo fa parte della felicità della pallottola, non della nostra...

Noi possiamo e dobbiamo solo ricordare, senza esagerare, con nostalgia a volte amara, intrisa di rimpianti e rimorsi, a volte dolce, ma mai avvelenata dal rancore che tarpa le ali a quel che resta del nostro volo, il cielo che abbiamo attraversato.

Noi siamo semplici esseri umani.

“Più simili ad arcobaleni e miraggi che ad architravi o macigni, sospesi fra l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, siamo imprevedibili poemi che scrivono se stessi, vaghi, metaforici, ambigui, e a volte straordinariamente belli” (B. Pascal/D. Hofstadter)

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editoriale di Bubi

Cari miei, vi racconto di una passeggiata sulla spiaggia di tirrenia il ventisei luglio dell ottantadue. Non svelerò se quello che accadde era reale, magico o immaginario. Dove sono adesso non si applica la logica terrena. Qui non c'è il bene e non c'è il male. Non c'è niente. Anche il tempo non ha alcuna importanza, scorre, ma calcolarlo non serve a nulla. Perché qui, cari miei, non è un bel posto, qui, devo tener conto della morte ogni momento. Però può anche diventare un posto leggero, desiderabile addirittura, certi momenti, mi sembra incantevole. Succede quando aggiungo invenzioni romantiche ai miei ricordi tristi. Poi, quando le racconto, mi perdo in quelle storie, mi commuovo, gioisco, provo meraviglia, sento brividi, percepisco mille sensazioni. Vivo di questo, di passioni immaginate che addolorano o danno felicità. Reinventare il mondo, trasformare fantasie in emozioni, mi serve per non morire completamente, per continuare, in qualche modo, ad esserci. Se racconto di una passeggiata sulla spiaggia, la faccio diventare un viaggio carico di esperienze emotive, se penso ad un temporale, lo immagino come l'opera d'arte d'un pittore. Vengo al racconto. La spiaggia era battuta da un temporale e...

... dopo la pioggia la spiaggia era come una cartolina in bianco e nero. Spessi strati di nubi tingevano il paesaggio di tonalità scure. Alcuni raggi di luce si erano fatti strada attraverso le nuvole, rivelando la bellezza dell'eterno spumeggiare delle onde, definendo i bordi della Gorgona. Un vecchio fissava il mare, ma non godeva della vista, piangeva. Una ragazza seduta a gambe incrociate, passava il rossetto sulle labbra stando bene attenta a fare un contorno senza sbavature, una donna teneva una borsa in mano e, sotto braccio, un libro. Nel mare, galleggiavano pigramente centinaia di bagnanti, i ragazzini sollevavano schizzi. In un attimo la spiaggia si animò e prese colore. Se guardate bene, vedete Isabella che gioca con un cane nero. Poco distante ci sono io, sto in mezzo all'acqua inginocchiato fino al l'ombelico. Non bado né alle nuvole né allo spumeggiare delle onde, le mie labbra sono incollate a una bottiglia di sambuca nascosta in un sacchetto di plastica. Finisco lo schifoso contenuto dolciastro in un fiato. È disgustosa ma non importa. Piscio nel mare e lascio bottiglia e busta a galleggiare sulle onde. Poco a poco comincio a non capire più un cazzo...

Per diversi minuti la pioggia riprese intensa e su quella miracolosa cartolina rimasi con Isabella, il cane e una signora che camminava sulla riva. Una bella signora con la pelle liscia e bianca. Uscii dall'acqua e raggiunsi Isabella che stava giocando col cane. Mi sedetti vicino. Dissi: «Ci vieni con me a Tangeri?» Isabella scosse la testa: «A Tangeri? Perché Tangeri? Comunque non potrei, soffro di cuore.» Confrontai mentalmente i fianchi e le gambe di Isabella con quelli della signora. Continuai: «chi soffre di cuore non può volare con l'aereo?» lei sorrise: «A quelle altezze... che guardi?» «Niente, guardavo se c'era un bar, qualcosa... Se l'altezza non va bene, diciamo al pilota di volare basso...» Conclusi sorridendo e lasciando la frase sospesa. «Ma sei spiritoso!» ribatté impermalita. Isabella mia, Isabellona mia, Isabella che, chissà perché, volevi essere la mia. Dolce Isabella che tenevi sempre il cuore nel luogo sbagliato e non lo capivi. Intravidi di nuovo la signora. Gli occhi corsero alle sue deliziose gambe. Muoveva le anche come non avevo mai visto fare a nessuna.

Era una giornata magica. La pioggia aveva smesso di cadere. C'era il sole, la spiaggia si animava e si svuotava. Era in bianco e nero, subito dopo prendeva colore. Era come i miei pensieri e i miei stati d'animo e tutto quello che attraversava la mia vita, ora bianco, ora grigio, ora luminoso, ora senza speranza. La spiaggia era di nuovo popolata da migliaia di persone e, immersa tra tutta quella gente, Isabella stava carezzando il cane. La signora dalla pelle bianca era tornata sui suoi passi, si era seduta sul gavone d'un pattino a pochi metri di distanza. Trasse dalla borsa un arancia avvolta in un foglio di stagnola, accavallò le gambe ed iniziò a sbucciare il frutto. Cercavo di costringermi a non guardarla, ma non era possibile. L'immaginavo in intimo nero. Lentamente le tolsi le calze, il reggiseno, infine, finalmente, la smutandai. Aveva la fica bionda e due bei capezzoloni grandi. Il corpo era morbido e la chiavavo come Dio vuole. Le bocche si trovarono, le lingue si sfiorarono più e più volte, la carezzavo, la stringevo. Gustavo tutti i suoi sapori. Che bello, mi suonavano i campanellini in testa.

La signora mi notò, ripose l'arancia nella stagnola e andò via. La guardai allontanarsi, finché, sculettando meravigliosamente, svanì nell'archivio dei miei ricordi belli. Non la vidi più. Isa aveva smesso di giocare col cane, mi veniva incontro. Ero ancora eccitato e il costume era gonfio. Dissi a me stesso: «Brutto stronzo che non sono altro, non posso andare avanti così.» Prima che Isabella mi raggiungesse, mi gettai di nuovo in acqua. Quando riaffiorai, salutai con la mano ed esclamai: «vieni è calda!» allo stesso tempo pensavo: «di cosa sto parlando?... Devo trovare due o tre birre.» Uscii dall'acqua prima che lei potesse considerare una scelta. Con gli occhi cercai un bar. Isabella era in piedi, ferma a qualche metro di distanza, mi guardava. Cercai di capire cosa stava pensando ma era impenetrabile. Mi incamminai sul bagnasciuga e Isa mi seguì. Mi vedeva barcollare mentre cercavo di tenere una linea dritta, continuò ad osservarmi anche quando mi accasciai esausto sul bagnasciuga. Non sapeva cosa fare. S'inchinò e mi guardò con affetto. Forse, avrebbe voluto farmi una tenerezza. Invece lasciò che vivessi a fondo il malessere e aspettò che tornassi fermo sulle gambe e fossi passato dal pensare: «Mi sento una merda,» ad uno stato diverso. Una condizione che mi permettesse articolare parole con un senso. In spiaggia tutto stava al posto giusto, le signore che leggevano settimanali sotto l'ombrellone, l'ambulante col frigo portatile a tracolla. In quel quadro non ci combinavo un cazzo. Che tristezza, era tutto molto triste.

«Bella vero?» «Chi?» «Chi? Lo sai benissimo, quella signora, quella che passeggiava vicino a noi, quella che si è seduta sul pattino...» «Eh?» «Eh? Fai finta di non capire? Non sono scema... non c'è bisogno che rispondi... non stai bene, si vede, riprenditi và...» Isa socchiuse gli occhi. Si figurò che quella situazione fosse un invenzione. Immaginò che eravamo amanti insieme ad altre coppie innamorate. Che stavamo a flirtare in un bar di Marina di Pisa. Si sorseggiava una tazza di tè freddo e si chiacchierava d'amore e di cose futili. Pensò che il discorso cadesse su quando, all'inizio dell'estate, seduti su una panchina di marmo, ci baciavamo. Che tra un bacio e l'altro, le avevo detto: «sei il mio amore e lo sarai per sempre.» Per qualche istante fu presa da un infinita tristezza. Un grosso lacrimone le corse giù per una gota. Stava piovendo di nuovo ed erano gocce portate dalla provvidenza. Col viso coperto di pioggia e lucciconi che le tremolavano tra le palpebre, Isa si rasserenò e continuò a guardarmi amabilmente. Il suo sguardo mi avvolgeva come un caldo abbraccio. La sfiorai e lei si strinse a me. Rimanemmo così a lungo. Senza parlare. Mi sentii sollevato ma la tristezza non se ne andava. Uno stato d'animo misto di ansia, paura e sofferenza mi consumava e non mi abbandonava mai. Il volto era segnato da durezza, nello sguardo non c'era espressione, non mostravo né felicità né sconforto. Non usciva nulla, tutto era controllato. Gli occhi, i miei occhi, non conoscevano lacrime, mai erano riusciti a bagnarsi.

Avevo un gran bisogno di riposare, volevo dormire stretto a lei. Non dovevo cercare lontano. Era lì. Fragile e incompiuta. E non cercavo di figurarmi che eravamo fatti l'uno per l'altro. Con lei non volevo qualcosa di speciale, ci stavo bene e questo era abbastanza. Era il mio riparo e, adesso, dopo molto tempo, mi sono convinto che amore sia trovare un rifugio e saperlo dare. Ero incompiuto anch'io. Le mie cose dell'amore non funzionavano e non funzionava neanche tutto il resto. Mi consumavo in una ossessiva ricerca di appagamento sessuale. Due seghe al giorno erano la regola, ma me ne facevo quasi sempre un paio in più. Cercavo il piacere senza sapere cosa fosse, cercavo la felicità senza averla mai provata. Credevo fossero nel godimento e nello sballo. Nel mio cazzo di vita, aveva un senso, era inevitabile, direi. Non conoscevo altro. Con Isabella sarebbe stato diverso. Forse. Però non mi suscitava pensieri erotici, niente da quel punto di vista. Non pensavo nemmeno di scoparla, non mi si sarebbe alzato, già lo sapevo. M'ero fatto un paio di sciagattate tra i venti e i ventitré, sempre ubriaco e pompando col solo scopo di venire, senza piacere, solo per dimostrarmi che lo potevo fare. E poi, gli altri e gli amici lo venivano a sapere, e questo, era più importante di tutto. Col tempo, però, diventava sempre più difficile. Quando lo facevo, mi passavano per la testa un infinità di pensieri che non avevano niente a che fare con: fare l'amore. Non era fare l'amore, non c'era alcun tipo di coinvolgimento, non si comunicava un cazzo, si faceva e basta. Quando si finiva stavamo abbracciati, abbracciati e soli. Meglio una sega. Se mi concentravo su una fantasia erotica funzionava alla grande. Però l'amore non c'era neanche lì. Quello lo volevo da Isabella. Assolutamente. L'avrei voluta sempre vicino a me, ma per passarci un pomeriggio insieme e non andare in crisi, dovevo sbronzarmi. Era assurdo, lo so, ma che vuoi farci, ero così. Passavo le giornate con una donna che non volevo scopare perché l'amavo. Il pensiero di portarmela a letto mi faceva venire un'ansia terribile. È possibile anche questo. Però, stati d'animo belli come quelli che avvertivo vicino a Isabella, mai li avevo provati. Con tutto ciò, le mie fantasie erano per donne che non conoscevo, donne che mi interessavano solo per avere orgasmi. Donne immaginarie che erano esattamente come piaceva a me. Con Isabella non poteva essere esattamente come piaceva a me. Con lei, potevo vivere la relazione solo come decidevano le emozioni provate da entrambi, per quello che accadeva. Non potevo metterle parole in bocca e farle sentire i sentimenti che preferivo. Questa era la mia vita, tenere fantasie romantiche, alcool e seghe. Non sapevo cosa fosse vivere da "normali," e, per loro, i "normali," ero un povero demente. Sicuro. Però, se hai il superalcolico a portata di mano, te ne freghi di critiche e problemi, non ti arriva nulla. Vivi a testa di cazzo, cerchi altre teste di cazzo e passi il tempo a far niente a sperare niente e dire cazzate. Poi ti addormenti. E quando sei di nuovo sveglio, la prossima bottiglia di roba di merda sta già aspettando. Lo so, non è una buona soluzione, era la mia soluzione.

La pioggia cadde più volte prima che facesse buio. Ero ancora disteso a terra e Isa si sdraiò accanto a me. Tutt'intorno picchiettavano gocce d'ogni colore. Cadevano sulla sabbia, sull'acqua, su pacchetti di sigarette gettati via, su flaconi di crema solare dimenticati, sulla carcassa di alcuni cani morti, su bottiglie e buste di plastica. Acqua, colori e luce, creavano sulla costa piena di immondizia, la stessa magia della pioggia che bagnava rami e foglie, nel bosco di pini descritto dal D'Annunzio. Col viso rivolto al cielo, in silenzio, ascoltavamo il ticchettio regolare delle gocce, sembrava una sinfonia, anzi, uno strumentale rock, pareva d'ascoltare: One of These Days, dei Pink Floyd. Le stille di pioggia scendevano regolari e pennellavano colori su ogni cosa. Si era formato un paesaggio nuovo, mi sembrava d'essere dentro una stampa di Banksy. La spiaggia scottava sotto il sole rovente e l'aria era carica dell'odore di terra marcia e animali putrefatti. Pensavo che la natura fosse a disagio con quel sudiciume sparso addosso, che sentisse il dovere di prendere le distanze da ciò che era in contrasto con la bellezza che da sempre aveva creato. Ora non penso più che la natura capisse il bello. Nemmeno che sia, in qualche modo, partecipe delle cose cui noi diamo importanza.

Isa ed io ci lasciavamo inzuppare continuando a stare col naso all'insù, abbagliati dal sole e dalla colorata apparenza di quel mondo di fantasia. «Cosa ti piaceva di lei? Le gambe? Come muoveva i fianchi o il culo? O tutti e due? O le tette? Avrà avuto... quaranta? Uhm, una quarantina tutti, ma, poteva averne anche di più, anche cinquanta. Era messa bene, davvero. Complimenti signora! Perché non ti sei avvicinato e non gliel'hai detto? Meglio di no, vero? Sei un timidone, guardarla e farsi le fantasie è più facile...» Ombre e luci si davano il cambio assumendo il colore delle nostre sofferenze e delle nostre gioie. Quelle gocce che ci bagnavano erano le nostre emozioni. Il vento ce le disegnava addosso in mille sfumature di colori e toni. Stavamo stretti stretti e molti sentimenti si alternavano: entusiasmo, noia, euforia, tenerezza. La pioggerellina li dipingeva sulla carne con magiche pennellate di rosso, lillà, verde, blu. Isa sembrava un dipinto surreale. Le gocciole si erano combinate su tutto il corpo formando un complesso intreccio di linee e macchie colorate. Bizzarrie cromatiche che parevano disegnate da mani d'artista. Sembrava una bellissima maschera di carnevale. Provate ad immaginarla coi suoi grandi occhi gialli, il viso dipinto da fantasie colorate, i capelli arruffati, bagnati dalla pioggia multicolore. Era l'incanto dei sensi. Mai avrebbe voluto abbandonare quel travestimento variopinto. Invece, poche ore dopo, lavò via i colori e quello che generavano nella mente.

Non sapevo se quello che stavamo vivendo fosse vero o la creazione di una mente, la mia, impazzita per i troppi eccessi. Non sapevo se pioveva o se era bel tempo, ma presto mi fu chiaro che nelle stille di pioggia c'erano tutte le emozioni che è possibile provare. Mi piovevano addosso e mi avvolgevano. Che bello. Mi piaceva essere preso da stati d'animo colorati. Una sensazione mai sentita mi attraversava e mi faceva stare bene. Era la sensazione della libertà dalle droghe, della percezione dei sentimenti e stati d'animo, della presa di coscienza della propria fragilità. Proprio io, che credevo di non provare niente. Se affoghi tutto nell'alcool, inevitabilmente, quello che più desideri è proprio ciò di cui l'alcool ti priva. A quel tempo non percepivo niente. Adesso si, ora so anche amare, ma qui, non ho la possibilità di esprimere stati d'animo. L'unico modo è sentirli dentro. Ci riesco inventando racconti di fantasia o ricordando quelli infelici, veri. Stando qui, nonostante la mia condizione, ho imparato i sentimenti. Non potrei capire né me stesso né gli altri se non li conoscessi. So perché originano, li sento e comprendo facilmente chi li ha. C'è anche chi vive senza averli e chi non li manifesta perché non sa gestirli. Io tanti anni fa, ad esempio. A quel tempo, amarezze e gioie erano uguali. Affogavano nel liquore che stavo bevendo e andavano via ancor prima di arrivare. Poi, sparivano anche dalla memoria. Ma qui molte cose sono cambiate, ho anche imparato a piangere. Mi capita spesso. Poi rifletto. Su tutto, più che altro sui casi della mia vita, cerco di capire quello che al tempo mi ero precluso e come mai. Cosa sarebbe potuto essere se. E piango di nuovo.

Isa era tutta bagnata e sorrideva, ma c'era un velo di amarezza in quello sguardo. Ed io, avevo una gran voglia di capire cosa c'era dietro quella infelicità nascosta. «Non riesco a detestarti» «Perché?» «Perché... non è colpa tua se sei così, lo sei diventato. Da piccino, eri di certo anche un ragazzino sveglio... se ora sei diventato... un cretino, si, perché lo sei, se no, non berresti e non faresti tante altre cose che fai, tipo, mancarmi di rispetto...» «Mi dispiace...» «Ti dispiace? Se una cosa ti dispiace davvero, non la fai...» «Va bene, non...» «Non so se crederti, mi lasci senza parole. Prima mi manchi di rispetto e poi dici che ti dispiace... ma, si ripeterà, ci scommetto. E la prossima volta ti dispiacerà di nuovo.» «Isa... è una cosa che... come posso dirlo... non so spiegare adesso...» «Certo, la prossima volta se starai bene, ti farai capire. Vale, la prossima volta sarà domani e starai male di nuovo. Stai sempre male. E come mai stai male? Perché c'è chi si preoccupa per te. Quello che vuoi, lo ottieni stando male. Così hai trovato chi ti vuole bene perché si preoccupa per te. Se qualcuno si preoccupa per te, ti basta. È il tuo modo di sentirti amato. Credo che non ne conosci altri. E allora, non cerchi nemmeno di cambiare, continui a fantasticare e vivere di questo amore raccogliticcio.» Mi guardò rammaricata, continuò: «Scusa, davvero, non voglio essere cattiva, ma non voglio nemmeno essere ipocrita, ti dico solo quello che penso, senza avere la presunzione di essere meglio di te, davvero.» Con gli occhi bagnati, disse ancora: «Io non sono meglio di nessuno, e non sono nemmeno quella che può dire cosa sia l'amore e come si fa per essere amati. Una cosa però, la posso dire, nascondendosi dietro ad una sbronza, puoi al massimo ottenere la compassione di qualcuno. L'amore mai.» «Ti faccio pena?» «Vale ti considero molto di più di quello che nascondi nell alcool.» Tacque alcuni istanti per asciugare la gota bagnata, poi continuò: «Però, ora, invece che dei tuoi problemi, per una volta, parlerò di me e di cosa desidero per me. Per una volta.» sottolineò. Poi avvicinò le labbra al mio orecchio: «Sai che? Vorrei mettere il mio cuore nel posto giusto, e... ho molta paura a metterlo nelle tue mani...» Ecco, mettere il suo cuore, la sua vita, nelle mie mani, diceva. Lei aveva paura e io mi sentivo angosciato. Non credevo di essere all'altezza. E poi, non volevo responsabilità, nessuna, quella, meno che mai. Interruppi: «Isa, sei infelice o felice, ora?» «Non lo so, spero solo che il futuro non porti altra infelicità... ma, adesso, no, non sono infelice.» Di nuovo le si bagnarono gli occhi, era facile al pianto e la invidiavo per questo. Avrei voluto prenderla in braccio e sorriderle dolcemente, darle un segno, ma non riuscivo a farlo. Adesso, dopo mille altri avvenimenti, so che l'aveva capito. Sapeva che il mondo di sogni e illusioni vissute fino ad allora, mi avevano portato a vivere in una sola dimensione, quella di non saper esprimere niente nel mondo reale. «Guarda sono tutta macchiata, quella strana pioggia...» «Non sei macchiata sei colorata e quella pioggia ti ha dipinto addosso l'abito più bello, un abito che cambia ad ogni istante e ti fa più bella ancora.» Biascicai con la bocca impastata. Isa sgranò i suoi bei occhi rossi e sorrise. Continuai: «Se la bellezza è data dall'armonia e dal colore, sei la più bella di tutte.» Si girò dall'altra parte, non voleva essere vista quando si commuoveva. Non appena le passò, mi guardò e mi donò un sorriso radioso.

Continuava a piovere e cercavo goffamente di rimettermi in piedi. Proseguivo a pensare che dovevo fissare le labbra ad una bottiglia. Ero convinto che avrei camminato per sempre sulla strada del l'infelicità, che mai sarei riuscito a crearmi una vita dove le vicende scorrono in modo naturale. Che avrei continuato a far finta che, in fondo, le cose non andavano poi così male. Ma ero il ritratto del l'infelicità. Eppure, bastano sincerità e coraggio, per vivere senza temere lo sguardo degli altri. Ma come potevo, allora? Sincerità e coraggio, certo, ma quanto è difficile tirarli fuori se non l'hai mai fatto. E non sarebbe bastato farli miei per un'ora e neanche per vent'anni. Son cose che devi imparare presto e puoi permetterti di perderle solo il giorno che ti calano nella fossa. Non si può vivere in un mondo fatto di bugia e paura.

Passarono le ore, passò la sbornia e la sera eravamo ancora vicini, sdraiati sulla sabbia. Faceva freddo e non riuscivamo a dormire. Quella sera c'era una luna piena che mi incantava. Ma in quell'occasione, fu crudele. I suoi raggi risvegliarono tutti gli stati d'animo che ci erano piovuti addosso nelle gocce colorate. Rancore, noia, gioia e invidia si erano svegliati nello stesso momento. Volevano essere vissuti. Cercai di dare espressione simultanea a tutte quelle le ansie che mi assalivano, ma non si può. Istintivamente chiusi gli occhi. Caddi in una disperazione che mi portò a rivivere in pochi istanti, immagini, odori, attimi vissuti ed emozioni provate nel passato. I raggi di quella spietata luce mi avevano portato via anche il resto della mia poca forza. Stavo steso a terra, esangue, privo di armi e coraggio. Isabella era seduta tenendo le mani sulle orecchie. Immobile, isolata, tratteneva il respiro e tremava. Anche in lei si era destato il vissuto segreto. Tutto quel dolore risvegliato, le bruciava dentro le composizioni colorate e le procurava dolorose lacerazioni sul corpo. Le guardava atterrita senza avere il coraggio di toccarle. Fu presa da sudori freddi, vertigini, nausea. Si strinse nelle braccia ed a bassa voce, quasi implorando, disse: «aiutami.» Non feci in tempo a rispondere che già era sotto la doccia. Fece scorrere l'acqua e lavò via gli insopportabili motivi multicolore. Le lacerazioni erano scomparse, si rilassò e tornò a sdraiarsi vicino a me. Mi strinse una mano e in poco tempo il sonno la raggiunse. Per un paio di minuti lasciai la presa, corsi al mare, mi gettai tra le onde, mi feci un bagno e cancellai quei dannati arabeschi.

In breve rientrai nel solito stato di torpore, di nuovo tutto era come prima. Andai a sdraiarmi. Subito cercai la sua mano e guardai la luna e il cielo stellato. Immaginavo che la vita fosse facile, che quella sera tutto era possibile. C'era un gran silenzio, non si udiva nemmeno lo sciacquio delle onde sulla battigia, vedevo il cielo cliché e sentivo la presenza di Isabella, vicino. Potevo dormire. Come il vecchio Santiago, desideravo sognare di stare in spiaggia e giocare coi leoni. Sognai che ero al mare, ma i leoni non c'erano. C'era Isabella che giocava con un cane nero. Io stavo in mezzo all'acqua, reggendo una bottiglia di sambuca. Bevvi il ripugnante contenuto in un fiato, pisciai nell'acqua e lasciai la bottiglia a galleggiare sulle onde. Poco a poco cominciai a non capire più un cazzo. A quello aspiravo. Guardavo Isa giocherellare col cagnolino e mi sentivo innamorato più che mai. Dei leoni neanche l'ombra, però sul bagnasciuga c'era una signora che camminava in disparte. Una bella signora dalla pelle bianca. Senza rimpianti, tornai nel mio guscio abituale. Nel mio universo delle emozioni travolgenti, superficiali, solitarie.

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editoriale di TataOgg

Su questo sito siamo davvero poche donne, credo sia dominio pubblico, pure un sasso lo noterebbe. Anche un cieco lo vedrebbe.

Abbiamo interessi differenti, ascoltiamo musica differente, parliamo in maniera differente, commentiamo cose diverse e interagiamo con utenti diversi.. ma quando ci incontriamo è un vero piacere. Credo sia lo stesso piacere che provano i sardi quando si incontrano fuori dai confini dell'isola...

Andiamo, ajò! A chi di voi è capitato di andare a un concerto in piazza e non vedere una bandiera dei quattro mori sventolare e in breve non trovarci radunato sotto un bel gruppo di isolani che non si erano mai visti prima, che bevono mirto e ichnusa insieme, tanto che a volte sembra la sfilata di Sant'Efisio?

A Nessuno di voi è capitato perchè non è mai successo che due sardi sconosciuti non si scambino due parole se si incontrano sul continente. Siamo un milione-e-sei e sembriamo un miliardo. Ma siamo e restiamo quattro gatti.

Come le donne su Debaser.

Perchè non ci sono donne su Debaser?

Forse le donne non amano la musica? Forse le donne non guardano i film? Forse le donne non leggono? Forse le donne non scrivono?

Perchè su Debaser le donne son così poche?

Perchè è necessario fare una rassegna di “musica solo al femminile” per ri-scoprire le donne musiciste? Perchè scopro solo ora che le donne nella musica elettronica sono state storicamente importanti? Perchè è necessario fare una classifica di musica al femminile, non bastava quella di musica mondiale? Perchè non si fa mai una classifica di musica al maschile? Perchè la classifica di “musica al maschile” fa ridere solo a pensarlo? Perchè certe donne si fingono uomini per essere accettate quali scrittrici? Perche le donne regista sono poche? Potrei davvero continuare all'infinito.. Ma pare che abbiamo vinto, noi donne.

Questa settimana ho avuto modo di confrontarmi con qualcuno di voi sul femminismo. Una mia battuta rivolta al redattore di una recensione nel quale viene menzionata la parola “POMPINO” (scusate il maiuscolo ma sono una reduce della lettura del libro di Lenny Bruce e non riesco proprio a trattenerlo, è colpa tua Dolce Nobile!) viene interpretata quale accusa verso il recensore stesso, come se lo tacciassi di maschilismo. Fa più ridere il fraintendimento della mia battuta che la mia battuta, scritta male – lo ammetto- ma, letto e compreso il testo della recensione non avrebbe dovuto lasciar spazio a interpretazioni vaghe. Tant'è.

Quello che non fa ridere per nulla è quello che segue.

Scopro infatti di essere stata trollata dal femminismo.

Scopro che il femminismo ha vinto (grazie car_, non sapevo dell'esistenza del “redpill”, o forse la mia mente non reputandolo importante l'ha rimosso tempo fa... non so, ho la memoria selettiva, è un mio limite), scopro che l'uomo è vittima della donna, scopro in pratica che buona parte degli utenti ha una gran confusione mentale riguardo determinati temi.

Ora non voglio perdere tempo a citare articoli, perchè quando un tema è complesso non si può leggere un articolo e capire un argomento in poche righe, così, dall'oggi al domani, e farci un editoriale su Debaser.

Per chiarire faccio un paragone: Mi sono laureata e in cosa consista esattamente la professione che esercito grazie al mio titolo di studio lo scopro ogni giorno, ogni giorno è nuovo, ogni giorno devo aprire un libro e studiare, ogni giorno cambiano le leggi e le applicazioni-e-implicazioni sono tanto numerose che studio più ora di quando frequentavo l'università.

Come se non bastasse devo certificare il mio aggiornamento-costante, pena problemi legati all'iscrizione all'ordine professionale.

Allo stesso modo credo che per capire il movimento femminista oggi sia necessario un approccio lento e graduale ai temi trattati. Perchè per poterne seriamente parlare serve cognizione di causa, serve addentrarsi nei temi e serve capire le ragioni profonde che lo muovono e che lo fanno evolvere continuamente. Se credete che il femminismo si riduca a pochi postulati di colore “rosa” fidatevi, avete sbagliato tutto. Rivedete le fonti dal quale attingete le informazioni o almeno integratele.

Ed io è questo che faccio da anni, leggo.

E vivo sulla pelle certe discriminazioni di genere ogni giorno della mia vita, da quando sono nata, anche se lavoro e sono indipendente. Faccio un esempio: questa società mi vede strana perchè sono una donna e a quasi 40 anni non son sposata e non ho figli. Vi rendete conto?! No, non vi potete rendere conto se non siete donne e/o non siete discriminati per qualche vostra libera scelta/diritto.

Ma non voglio entrare nel merito dei cazzi miei (posso usare la parola cazzo senza essere considerata fallocentrica e scurrile, si? Mi è concesso? Si possono usare le parole? Tutte? Lenny ti amo, lo sai, e voglio bene anche a Lector) e risponderò a una sola delle cose suggerite dall'editoriale RedPill, e lo farò con qualche domanda (altre domande si, datele voi le risposte che siete bravi), tanto la verità in tasca non ce l'ha nessuno.

Volete vedere che a un uomo non è consentito tenere il proprio figlio dopo un divorzio perchè in una famiglia “tradizionale” è la donna che fino a ieri è stata relegata al ruolo di unica educatrice/nutrice? Volete vedere che questo “tenere” in casa la donna per secoli, in un rapporto davvero impari, vi si è rivoltato contro in una maniera di cui state - solo ora - cominciando a vedere i risvolti tragici? Volete vedere che non riuscite a dare un nome a questa cosa (si chiama discriminazione, benvenuti nel club)? Volete vedere che anche il luogo comune per cui “una coppia lesbica” forse-Si e “una coppia gay” Invece-Meglio-di-No, Non possono crescere un figlio in autonomia, fa parte di questo processo, di questo vicolo cieco in cui vi siete (ci siamo) cacciati?

Volete vedere che il machismo di cui vi fregiate da anni, come insensibili, donnaioli, gli unici che possono stare scapoli tutta la vita senza che si utilizzi un termine spregiativo come ZITELLA per definirvi, alla fine vi sta talmente stretto che state dando le colpe a noi? Volete vedere che, quindi, anche il machismo è una cazzata sovrumana?

Volete vedere che non c'è un corrispettivo maschile di “femminismo” perchè c'è già il femminismo che si occupa anche dei temi “maschili”, quelli per i quali soffrite anche voi? Si, è così. Non vi state aiutando demonizzandolo.

La battaglia “femminista” è iniziata anche con temi che oggi sembrano futili, ma ci sono stati anche dei temi importanti tuttora, come la pillola e l'aborto (ad esempio) che son state conquiste per TUTTI, donne e uomini compresi. E voi non potete negarli con un editoriale, con un commento sotto una battuta non capita sotto una recensione. Io non lo accetto e non sto zitta.

Se per voi sono femminista allora sappiate che io non reputo l'affidare il figlio al genitore di sesso femminile sia la miglior scelta, se la famiglia fosse flessibile e entrambi i genitori avessero lo stesso ruolo e importanza per i figli, allora i figli potrebbero stare indifferentemente con l'uno o l'altra, in base a scelte logiche e non supposte. Ed è quello che credono anche molte femministe come me (forse tutte, quelle vere almeno). Perchè vivo sul pianeta terra non sulla Luna.

E questo è solo un esempio tra i tanti introdotti dalla pillola rossa.

La cosa straordinaria è essermi scoperta femminista oggi, è da ridere proprio.

Il femminismo, quello vero, si batterà anche per voi.

Vi permettete certi atteggiamenti perchè qua siamo poche, non perchè il Deb debba diventare il Regno delle Amazzoni che combatte il Genere Oscuro Maschile, quello cattivo, ma perchè è facile fare i duri quando si è in maggioranza. Provate a mettervi nei miei panni e discutere di tutto questo da soli, con/contro tutti voi.

Io ho le spalle larghe, vi auguro lo stesso.

Ah, dimenticavo... a me gli Uomini piacciono molto! Tanto per chiarire ;)

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editoriale di iside

Cioè, avete presente nascere e crescere in un posto chiamato La Noia?

Già, ti è toccato crescere in un borgo dove nessuno capita per caso, sbagliando strada o cercando qualcos'altro, lì chi ci va ci va perché deve.

Che t'importa se la sera gli ultimi duecento metri devi farli al buio più assoluto e, nelle notti di luna piena la tua stessa ombra ti mette paura? Però è bello nelle sere d'estate sentire i grilli cantare e rincorrere le lucciole o al pomeriggio andare al fiume spogliarsi e fare il bagno. Ogni tanto l'acqua sembra diversa sarà per colpa della fabbrica di detersivi un po' più a monte, meglio! Così dopo a casa puoi cenare senza lavarti.

Hai quattordici anni non puoi stare chiuso in casa, ogni sera affronti la strada buia e vai al bar in paese, l'oratorio...

L'oratorio è l'unico locale nel raggio di 10 chilometri che ha il pingpong e il calciobalilla, resti a giocare con gli amici d'infanzia, che poi gli amici d'infanzia mica te li scegli sono solo quelli che han fatto le scuole con te, poi a casa ci devi tornare e ci sono quei ultimi maledetti bui e insidiosi duecento metri... Inutile chiedere a qualcuno di accompagnarti, sono tutti cagasotto, così come tutte le sere sei solo, dietro di te le ultime case del paese e davanti il nero della notte, allora corri, corri, CORRI!! Fino a sbattere il naso alla porta di casa.

Poi viene il giorno che la tua vita cambia, qualcuno (con un sorriso addosso*) ti dice: ti accompagno io a casa, qualcuno (con un sorriso addosso*) ti dice: giochiamo insieme dai*.

Di colpo non hai più quattordici anni, di colpo sei la troia del paese.

Eppure tutti ti ricordano come un ragazzo sorridente, sempre felice, quello che girava in bicicletta cantando a squarciagola "belle la vita se te la dà" parafrasando il Carrozzone di Renato, quello che quando gli davamo un passaggio in auto non aveva paura a dirci "stò andando al cinema a succhiare il cazzo ai vecchi, mai che venga qualche bel ragazzo come voi." Quello che quando gli davo mille lire lo sapevo che erano per l'eroina, quello che ebbe cinque minuti di popolarità quando andò a "Domenica In" e si mise a palpare il culo a Pippo, quello che voleva cambiare il nome del paese natio in "culobeato" perchè se lui avesse parlato trequarti dei bigotti del paese avrebbe dovuto divorziare.

Bella la vita!

Se te la dà!

*cit. Qualcuno Mi Renda l'Anima Renato Zero

C'è Un posto Caldo

forse nella foto c'è pure lui.

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editoriale di stampaestera3


Il Covid-19 non è riuscito a bloccarli, i libri sbarcano sul Web. Circa un centinaio di librerie in tutta Italia rappresentano, da ieri, il volto «offline» del Salone del Libro, che oggi apre la propria edizione «extra» con lo storico Alessandro Barbero (ore 19, diretta su salonelibro.it come tutti gli incontri in programma), in attesa della fiera che dovrebbe svolgersi in autunno. Il direttore, Nicola Lagioia, parla di «festa nazionale del libro» perché i librai hanno allestito le loro vetrine a tema Salone, mentre alcuni di loro, in altre città, trasmetteranno le dirette degli eventi come audio di sottofondo all’interno dei loro locali.

Libri su libri, insomma. L’esperimento online, però, potrebbe diventare un modello, che parte da Torino per estendersi, chissà, anche ad altre fiere e manifestazioni. "Questo è tipicamente torinese — dice Lagioia — perché Torino e il Piemonte sono un po’ i laboratori d’Italia". Fra i molti sostenitori della veste online – che si spera limitata solo a quest’anno... – trova posto lo scrittore bolognese Mimmo Parisi.

In questi tempi disabitati ho osservato, come tanti del resto, un mondo alieno. Comandato da alieni. Perché i virus provengono per forza da qualche parte che non ha un vero contatto con gli umani. Non ci si può arrendere a loro, ma la società dovrebbe fermarsi – cosa ampiamente successa, anche se per forza! – e interrogarsi sulle proprie priorità. Si è nella fase 2, ma non credo che il messaggio della pandemia sia arrivato. Non si è visto nessuno dei politici, dei grandi imprenditori, degli artisti ultra famosi, di qualsiasi individuo che detenga un grande potere economico sui suoi simili fare un vero gesto di solidarietà affermando, ‘Da questo momento si riparte davvero alla pari. Tutti, nessuno escluso, si avrà diritto a una vita dignitosa che passa, per esempio, dal livellamento degli stipendi . Perché uno statista non ha bisogno di ricavare 20mila euro al mese per essere uno statista... ‘ Nessuno ha voluto mettere fine agli egoismi. Peccato, è stata un’occasione mancata. Ma non bisogna disperare, il futuro è futuro perché quando arriva ti lascia a bocca aperta: chi si aspettava il Covid-19?"

Mimmo Parisi inoltre ha annunciato la prossima pubblicazione del suo nuovo romanzo, La ragazza degli oceani. Il libro ha come fil rouge un evento fantastico che cuce, con precisione, situazioni attuali come il tema del lavoro, e la speranza che il mondo possa e debba essere migliore di quanto prometta.

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editoriale di pier_paolo_farina

Non so a voi, ma a me il Coronavirus ha portato via tre amici e mezzo, e rischiato di portarmene via un quarto.

Il primo ad andarsene è stato Raniero. Mio compagno di banco in quinta liceo. Non so quanti compiti in classe di matematica gli ho passato, e quanti suggerimenti quando veniva interrogato.

Un po’ bullo, più grande di me di un buon anno e mezzo, con quella faccia senza paura e lo sguardo diretto, senza timidezza. Puntava le donne con naturalezza e ne conquistava parecchie, attratte dalla solita alea da maschio alfa, tosto e coraggioso. Poi se ne stufava subito, o forse erano loro a mollarlo non gliel’ho mai chiesto. Fatto sta che niente mogli e niente figli, solo una lunga fila di conquiste.

Tu non capisci un cazzo di donne…” mi aveva apostrofato solo un paio d’anni fa ad una cena di classe. Avrei voluto rispondergli cosa cazzo ne capiva lui che non aveva avuto mogli, cresciuto figli insieme a qualcuna, e probabilmente neanche mai il cuore spezzato per una di esse. Ma ho lasciato perdere… certamente si stava riferendo soltanto ai miei gusti estetici, e poi sarebbe stata un uscita da rosicone.

Ne ammiravo/temevo/rosicavo il coraggio di vivere, di aver affrontato quegli anni difficili e formativi fra i quindici e i venti a testa alta e sguardo fiero e calmo, periodo che io avevo vissuto con ben maggiori dubbi e prudenze e difficoltà. Ma forse anche lui a suo modo era preda di qualche insicurezza: si mangiava le unghie a sangue, ricordo… non aveva che mozziconi d'unghia in cima alle dita. Solo che non dava proprio a vedere le sue incertezze, era uno smargiasso naturale.

Da giovanissimo aveva cominciato a fare musica, era cantante in un complessino che girava i locali. Io all'epoca ancora mi baloccavo a casa con la chitarrina, senza grossi progetti se non di imparare a suonarla sempre meglio.

E’ stato lui che un giorno d’inizio terza liceo mi disse di lasciar perdere quei 45 giri pop che mi vedeva ogni tanto in mezzo ai libri, e di ascoltare per bene i 33 giri dei Led Zeppelin (e chi cazzo erano?), “i migliori del mondo”, che avevano al tempo fatto uscire il loro terzo album.

Sono passati cinquant’anni e il mio gruppo preferito sono rimasti quei quattro là. Grazie Raniero.

Giorni dopo, un altro mio compagno Enzo mi disse “…ma che Led Zeppelin, domani ti porto io un disco che spacca!”. Il giorno dopo mi mise in mano “Deep Purple in Rock”. Conoscevo già “Black Night”, ma la botta di quei quaranta minuti al fulmicotone mi lasciò basito.

Un mese dopo un altro mio compagno di classe, Attilio, mi allungò “Paranoid” dei Black Sabbath dicendomi il solito “sentiti questo!”. Conoscevo già “Paranoid” ma quando partì il riffone di “War Pigs” con tanto di sirena antiaerea mi venne il più forte dei formicolii alla nuca. Che tempi.

Raniero era un po’ stronzo, ma generoso. A diciott’anni aveva preso subito la patente e mi portò colla sua Mini di seconda mano, insieme a suo fratello Roberto (futuro pianobarista sui transatlantici, ora è in quarantena al largo del Brasile) e al suo batterista Tiziano, al mio primo concerto: Deep Purple al palasport di Bologna (alle tre del pomeriggio! Usava così).

Va su il gruppo di apertura certa Premiata Forneria Marconi e fanno solo cover (si erano appena messi insieme). Aprono con “21th Century Schizoid Man”, poi mi ricordo “Bourée” e “Gypsy”. Bravi!.

Poi arrivano Blackmore e soci. Magnetico l’uomo in nero… si attaccava agli amplificatori e grattava la Stratocaster sui bordi delle spie, e chi ha mai vito una cosa simile? Ho sedici anni... Non capisco ancora un cazzo di chitarra e di musica, percepisco solo il magnetismo del chitarrista e, curiosamente, mi resta impresso il suo mento estremamente sfuggente.

Siccome ero bravino a scuola e lui no, Raniero mi chiedeva sempre di andare a studiare a casa sua, con grande riconoscenza di sua madre che vedeva in me il ragazzo giudizioso e affidabile che a lei non era toccato. Un’oretta sui libri e poi, invariabilmente, lunghi ascolti dei suoi già numerosi dischi (gli giravano i soldi grazie alle serate nei locali) dallo stereo vicino al letto. Senti questi! Chicago… Senti questi! Atomic Rooster… dopo di che si finiva in cucina a mangiare la nutella a cucchiaiate (quando non c’era la madre).

La musica ha salvato la mia vita e Raniero è stato la persona più decisiva per farmi avvicinare ad essa.

Ora aveva sessantasei anni e un polmone quasi del tutto compromesso da tre pacchetti al giorno di Marlboro per quarantacinque anni. Il virus ha maramaldeggiato su di lui, che ha resistito in terapia intensiva per una decina di giorni prima di arrendersi, il dieci di marzo.

Come si è infettato? Facile: era andato a vedere le finali di Coppa Italia di basket di metà febbraio tutte nel palasport della sua città. Otto squadre fra lombarde, venete, emiliane, sarde, pugliesi, col loro seguito di migliaia e migliaia di tifosi, molti già belli infettati e che hanno invaso hotel ristoranti bar e pizzerie, inconsapevolmente seminando la strage qui da noi.

Raniero ed altri, ancora a febbraio pochi giorni dopo le finali di basket, si ritrovano tutti in un localetto vicino al porto. Suona il gruppo di Eugenio, il cui cantante Giancarlo a sua volta non s’era perso una partita al palasport nei giorni scorsi. Eugenio e Giancarlo sono miei amici: montavamo insieme ad altri futuri ingegneri sul direttissimo Milano Lecce delle sette e zero nove ogni mattina, per raggiungere l’università distante sessanta chilometri. Giancarlo zompava sul predellino e poi nel vagone, quelli col corridoio laterale. Apriva la porta del primo scomparto, ne usciva invariabilmente un tanfo misto di piedi, flatulenze, bucce d’arancia e allora lui gridava “Grisù!!” e passava al successivo. Finché ne trovava uno decente e provvisto dei quattro cinque posti a sedere che servivano a tutti noi.

Eugenio era una persona splendida: ingegnere elettronico, titolare della cattedra di musica elettronica al Conservatorio, progettista di sintetizzatori, compositore di musica elettronica, diplomato in pianoforte a diciannove anni, fantastico pianista jazz, suonatore di organo Hammond amico personale di Brian Auger.

Da lui si andava a studiare i primi esami del biennio. Quand'eravamo cotti a forza di risolvere equazioni e sviluppare serie e introitare leggi fisiche, ci si trasferiva intorno a lui seduto al pianoforte in salotto. Emerson, Elton John, Beatles, Debussy nei giorni più di voglia. Era di un altro pianeta.

Un giorno c’erano i Traffic in giro per il centro della nostra città. La sera prima li avevamo visti suonare al palasport. Jim Capaldi ci spiegò che era saltato il concerto successivo a Udine e perciò avevano un giorno buco senza impegni. Li portammo da Eugenio (non tutti, solo lui, Winwood e il percussionista Reebop), nella cantinazza delle prove. Eugenio si mise al piano Rhodes, Winwood all’organo, Reebop alla batteria. Qualcuno di noi al basso. Giancarlo (fluent English) alle relazioni pubbliche. Ci diedero dentro per due ore, poi Winwood chiese una chitarra. Qualcuno si scapicollò a casa e recuperò una Gibson per l’allora ventiseienne rockstar inglese. Ho una foto in cui mi si vede abbarbicato sopra un tavolo mentre sotto di me Winwood si strimpella la Les Paul.

Eugenio diversamente da Raniero non aveva patologie pregresse serie, che mi risulti. Sessantasei anni appena compiuti, fresco di pensione ma mi aveva appena spiegato che lavorava poù di priam, tutti lo chiamavano il Comune gli industriali gli ex allievi. Ma la forza del virus in quei giorni e in quei luoghi era infinita, ha resistito intubato per un mese buono fino al cinque aprile, poi se n’è andato facendomi piangere come un vitello perché, se c’era una persona che non meritava questa sfiga, era lui. Quante belle chiacchiere, quanta disponibilità, quanto talento, quanti ricordi, quanta riconoscenza! Mi manchi, Eugenio.

Giancarlo invece ce l’ha fatta: è stato una decina di giorni in ventilazione forzata e poi in qualche modo ne è uscito. Appena saputo che l’avevano rimandato a casa a finire la convalescenza, immaginando la sua situazione, le sue paure e forse i suoi rimorsi (seppure ingiustificati), gli ho solo whatsappato un bentornato e un ti voglio bene. M’ha risposto “Anch’io, amico mio” e bona lè, come dicono i bolognesi. Basta e avanza.

In quel cazzo di localino, a veder suonare Eugenio e Giancarlo, insieme a Raniero e a tanti altri, c’era anche Sergio, sessantaquattro anni, altro musicista sebbene dilettante (insegnante d’inglese il suo lavoro). Lui assai più naif… chitarra per lo più acustica ed esibizioni per lo più per strada, senza paura anche a sessant’anni. Anche in Australia, dove era schizzato da giovane per evitare il servizio militare che aborriva, lasciandomi in custodia la sua Gibson diavoletto, debitamente restituitagli un paio d’anni dopo al suo ritorno.

Anche lui buono e caro, un pezzo di pane. Meno affascinante del talentuoso Eugenio, dell’estroverso Giancarlo e del cazzuto Raniero, ma un giusto.

Quando decisi di imparare a suonare la chitarra lui già si destreggiava più che decentemente sull’attrezzo ed io gli stavo davanti con gli occhi di fuori a carpire qualche accordo e qualche posizione. Con gli anni, grazie al mio carattere più organizzato e alla mia costanza, ero diventato uno strumentista assai più completo di lui, ma gli sono grato per gli inizi, e gli ho sempre invidiato la forza e la sicurezza dello strumming colla mano destra… un vero ritmico, un verso busker da strada.

Il povero Sergio l’hanno rimbalzato fra Senigallia, Fabriano e Jesi, dove poi se n’è andato, il venti di marzo. Aveva la polmonite, ma il primo tampone era stato negativo e hanno perso giorni preziosi (e pericolosi per chi gli stava vicino!) a tenerlo in reparto normale. Poi l’hanno sbattuto già bello che intubato a destra e a sinistra in reparti specializzati Covid ma era troppo tardi e ci ha rimesso la pelle, solo e tapino.

Il suo dottore gli aveva prescritto antibiotici e tachipirina, lui se ne è stato una buona settimana colla febbre a trentanove prima di decidersi a correre al pronto soccorso. Viveva da solo, e non voleva rompere i coglioni a nessuno. L’umiltà non paga, in questo paese dove se non alzi la voce vuol dire che non esisti.

Sergio non lo meritavi neanche te. So io chi lo meriterebbe.

E per soprammercato, un giorno di aprile ho saputo che se n’era andato anche il mio antico vicino di casa e d'infanzia Massimo. Abitava al primo piano della palazzina dove io stavo al terzo ed ultimo. Insomma, a cinque sei sette otto anni giocavamo insieme a nascondino, a pallone, colle biciclette, coi fucilini, coi pattini.

Poi ci siamo persi per sempre di vista, io in un'altra città, lui a fare l’assicuratore in questa, mi dicono. Come cavolo si sarà infettato non ho idea… forse anche a lui piaceva il basket ed era andato in quel palasport pieno di cremonesi, canturini, milanesi, veneziani infettati.

Sono in lutto, ragazzi. Per me non è solo questione di mascherine guanti e distanze. Io ho i miei morti, e i ricordi della mia gioventù con loro, che ogni tanto m’intristiscono la giornata.

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editoriale di Ildebrando

Ho sottoposto ad un amico l'ascolto di "Il dilemma" di Giorgio Gaber e ne ho avuto una brevissima conversazione.

C'è da dire che mi sono arreso dopo le prime battute, constatando l'inutilità di ulteriori parole.

Un tempo, forse, sarei stato più entusiasta e avrei difeso le mie convinzioni, ma da tempo mi sono disluso e converso solo con chi credo mi stia capendo.

Volevo solo condividere questa breve esperienza, per rendere meno pesante la mia delusione.

AMICO: "Bellissime parole...ma sei minuti e mezzo per una canzone..."

IO: "Beh...credo che l'intensità non si possa sgranate come un melograno, con il rischio di frastagliarne la polpa. Ha bisogno di un tempo lungo e meditato; delle religiosità con cui si sgrana un rosario.

Abbiamo dimenticato la pazienza delle inquadrature e dei cambi di scena trascinati. Abbiamo dimenticato i lunghi primi piani che sfumano a fatica lasciandoci il tempo di meditare sulla scena appena vista. Abbiamo dimenticato il tempo prolifico del silenzio che scatena dubbi. Ci siamo abituati a film ed esistenze dalla inconsistenza da thriller dove la tensione è data dalla sola concitazione e dalla presa di sorpresa. Un rombo, un botto, un guizzo, uno stridio, un fulmine, un'esplosione...ansimare, scappare...

L'emozione, però, non sta in colpi di scena continui, non sta all'interno di brividi transitori.

L'emozione sta nelle sottotrame e nella capacità di leggere i simboli.

Ma nella centrifuga del "tutto e ora", del "fatela breve altrimenti mi annoio", non esistono sottotrame e simboli e le medesime trame vacillano.

Le belle parole hanno bisogno di essere contemplate. Perché sarebbero state anche in meno minuti, ma quante ne avremmo colte davvero?"

AMICO: "Non mi piace il melograno e non prego e mi piacciono i film tipo "Avengers" che durano tipo 8 ore"

Io non rispondo altro.

Penso ad Ivano Fossati e a quello che scrisse a commento di "Quando sarò capace di amare":

"Mi fa pensare alla fatica dei ragazzi, molti dei quali, nonostante tempi e apparenze sono alla ricerca continua di pensieri alti e adulti come questi. Spero che "Quando sarò capace di amare" attraversi anche la loro strada".

Poi penso ancora a Gaber:

La mia generazione ha perso...

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