Sono sincero, non me l'ha chiesto nessuno: non esco quasi più
Voglio essere sincero. Eccetto impedirmi di poter andare all’università e presenziare, a parte costringermi a prendermi lo sbatti di seguire le lezioni online, a parte permettermi di uscire solo per le necessità primarie riconosciute dallo Stato, il Coronavirus non ha fatto molto per condizionarmi la vita.
Fondamentalmente conduco la stessa esistenza di prima. Non vedo i miei amici, ok, ma anche prima li vedevo di rado, per mia scelta o per mia pigrizia/indolenza, conquistate in anni e anni di solitudine, in mancanza di qualcuno che mi ritenesse abbastanza figo per uscirci. Mi sono abituato per anni ad accettare passivamente di dover spesso rimpatriare, nella mia casa, ma principalmente in me stesso. Alla mia libertà non contribuiva il fatto che mia madre, per buona parte dell’infanzia e dell’adolescenza, non mi facesse uscire per delle sue paranoie. Ma non voglio perdermi in piagnistei e accuse, e non intendo eleggermi o farmi eleggere il Pink della situazione, con la madre iperprotettiva.
Tornando al discorso Coronavirus, la mia vita non è stata intaccata gravemente, devo ammetterlo. Lo ammetto perché sento di doverlo a coloro che veramente stanno patendo, e stanno provando sulle loro pelli la sofferenza vera di dover accettare di veder morire, o star male, un figlio o un fratello, o una fidanzata. Io neanche ce l’ho la fidanzata. E forse sono fortunato così. Mi scoppia il cazzo per la voglia di scopare, ma la stessa voglia, poco meno intensa, ce l’avevo anche prima; non avevo una ragazza prima, non ho una ragazza adesso; non ci provavo prima, a maggior ragione non ci provo ora.
Di cosa mi dovrei lamentare? Ho due genitori, separati ma ce li ho, e stanno bene. Ho una nonna, degli zii, dei cugini, e, come dicevo prima, ho degli amici, che non vedo, ma non per causa del Coronavirus. Ok, quando frequentavo le lezioni, li vedevo, ma erano incontri fugaci, erano guizzi – non si usciva veramente mai. Solo con un mio amico specifico, a cui sono molto legato, mi vedevo spesso.
Sono lontano dal focolaio di contagi, anche se ci si protegge anche qui da me, in centro Italia, non importa in quale città. Per come sono fatto, essendo cioè sfacciato, nonostante non sia un Cuor di Leone, non ho paura del Coronavirus – forse proprio perché non ho visto la gente morire, o non ho avuto notizia di persone a me care cadute vittima del virus, o reduci da esso.
Quando esco, per necessità primarie riconosciute dallo Stato e dal buonsenso, mi sento libero. Anche quando, talvolta, sono uscito per esigenza mia, di respirare e di vedere un po’ di mondo, per non impazzire, con la mia macchina, a finestrini chiusi, vagando per la mia zona, senza una vera meta, con la musica alla radio (che il cd nell’autoradio fosse dei Suicide o di Mike Oldfield poco importa), mi sono sentito libero – e mi sono detto “Che si fotta Conte, che si fotta la quarantena!”. Poi però mi sentivo in colpa, perché pensavo a quelli che avrebbero voluto uscire, ma restavano in casa, nonostante avessero plausibilmente molti più problemi di me, sia interiori che esteriori.
E io me ne andavo in giro per la mia zona, in macchina, ascoltando musica a volume medio-alto, giustificandomi che ne avevo bisogno. Ok, mi lavavo, e mi lavo, tutti i giorni, il corpo, le mani, la faccia; mi disinfetto; se devo scendere dalla macchina, mantengo le debite distanze; mentre viaggio tengo i finestrini chiusi, e se fa anche solo leggermente freddo, accendo il riscaldamento per uccidere il più possibile i batteri, oltre a riscaldarmi.
Ok, non ero – e non sono – un totale anarchico che se ne strafotteva della situazione intorno, però a volte mi son sentito profondamente usurpatore, qualcuno che si prendeva delle libertà proprio perché altri se le negavano. Proprio perché la maggior parte degli italiani rimanevano nelle proprie case, io me ne uscivo – in sicurezza, ma il punto è che uscivo – e prendevo le strade dove ero abbastanza sicuro che la pula non mi potesse fermare, e dopo una mezzora/un’ora d’aria, me ne tornavo a casa, tranquillo, come se avessi fatto una cosa punk.
Perché vi dico tutto questo? Forse perché, come avrete capito, è da qualche giorno che la voglia di uscire, e di infrangere più o meno legittimamente la legge, anche solo quel poco, non ce l’ho più. Mi sto dedicando alla scrittura, alla lettura, allo studio, a tante cose. Guardo film, leggo, ascolto musica, come ho sempre fatto.
Riuscirei a fare questo oggi, se prima non mi fossi preso certe libertà? Non lo so! Conoscendomi, probabilmente no. Ma non per questo ero più giustificato di altri a uscire, come non sono più giustificato di altri a rimanere in casa. Siamo tutti sulla stessa barca, ma non voglio scadere nella retorica che ci troviamo in un mare di merda. Ci trovavamo nella merda anche prima, solo che adesso la dobbiamo affrontare: non la possiamo evitare. Non possiamo voltare la testa. L’ho capito anch’io, che fino a giorni fa, nonostante la preoccupazione e la rabbia, cercavo dei modi per evadere, per far finta che fosse tutta un’invenzione quella che mi martellava il cervello, attraverso le voci della tv, di mia madre, di mia nonna via telefonica, dei miei amici.
Continuo a non avere paura del virus, ma rimango a casa, perché so di dovermi dedicare a ciò che mi piace e a ciò che mi tocca fare, e soprattutto, se continuassi a uscire, lo farei solo per ozio, e non per la necessità di respirare e di non farmi prendere l'attacco di panico. Se uscissi ora, mi sentirei veramente un coglionazzo punk wanna-be che, dietro la facciata di duro, ha ancora nella testa le canzoncine di Natale di quando era bambino.