Tornando sui 4/5 dei Doors...
Qualche anno fa, quando era da poco iniziata la mia avventura sul sito, avevo pubblicato una recensione piuttosto critica sul primo album dei Doors. Venni naturalmente subissato da improperi perché, principalmente, secondo chi credeva di saperne più degli altri, avevo osato non dargli un voto pieno. Nulla da eccepire sulla qualità del disco assolutamente altissima ma, il voto monco aveva una sua spiegazione: mi domandavo, sperando in una risposta esaustiva da chi ne sapesse più di me, quale sarebbe stato il peso specifico di Morrison senza i Doors. Qualcuno, non senza malafede, fece il bullo dicendo che i Doors senza Morrison (io mi interrogavo sul contrario) avevano scritto solo la pietosa “No me moleste mosquito”. I Doors erano un gruppo e non solo Jim Morrison. Lo ribadisco. Ognuno non poteva fare a meno dell’altro. Punto.
Allora mi domando ancora, chi era Jim Morrison? Morrison aveva talento da vendere, una personalità molto complessa a volte inerte o ad azione inerziale, vampirizzata da chi poteva trarci una qualsiasi forma di profitto. Era un ragazzo bellissimo che si trovò nel posto giusto e al momento giusto in una America martoriata dalle pessime notizie provenienti dal Vietnam e che sentiva la necessità di evadere, pur in modo stupefacente. Era fondamentalmente schivo, insicuro, caratterialmente debole ma molto passionale. I suoi pensieri, profondi, immortalati su montagne di taccuini, venivano molto spesso declamati (anche bene) ad un pubblico di pochi estimatori che riuscivano a coglierne il senso. Sapeva mescolare sesso e poesia, droga e misticismo. Un perfetto animale da palcoscenico che sapeva estasiare il pubblico con furiose danze sciamane, urla selvagge e brucianti provocazioni. In quegli anni ci poteva stare tutto. Anche quegli “inviti” al parricidio e ad un edipico incesto, molto spesso abbonati dalla feroce ipocrisia del bigottismo a stelle e strisce. I Beatles per molto meno furono crocifissi in sala mensa dal Ku-Klux-Klan e i loro album fecero la fine di Giordano Bruno. Un miserevole tentativo di arginare la “British Invasion”? Mah… Ci poteva stare tutto. Anche i voli d’angelo sul pubblico trepidante e i crolli sul palco tutte le volte che veniva fucilato dal Milite Ignoto. Però Morrison era anche una irriducibile testa di cazzo, oltre al fatto, fondamentale, che senza gli altri Doors non sarebbe mai diventato il mito tuttora vivente. E adesso non venite a dirmi che non è vero.
Morrison, forse, voleva essere un nuovo Lenny Bruce o un “poeta maledetto” e fu Manzarek, vero collante del gruppo, a cogliere per primo l’intensità dei suoi scritti, convincendolo a musicarli. Altrimenti, tutte quelle canzoni che ancora resistono ai tempi dell’attuale e indecoroso pattume musicale circolante, non sarebbero mai state scritte. Paul Rotchild, produttore e rollatore di canne da competizione, era uno che ci aveva visto giusto e giocò le proprie carte. Cosa sarebbe stata “Light my fire” senza l’abbrivio d’organo di Manzarek, l’assolo centrale di quest’ultimo che passa la palla ad un eccellente Krieger, il commento percussionistico sporco ed efficace di Densmore? Cosa sarebbe stata “People are strange” senza il riff di Krieger e l’intermezzo da piano-saloon di Manzarek? E quell’accordo echeggiante che chiude il brano infrangendosi sullo “…strange” distorto di Morrison? Fenomenale. La tastiera onomatopeica di “Riders on the storm”? L’assolo che brucia l’incursione di Mr. Mojo in “L.A. Woman”? Chapeau. E meno male perché nella versione presente sull’album omonimo, Morrison, innaffiato d’alcool, canta come se avesse una zolla di terra tra le tonsille. E il riff spagnoleggiante di “Spanish Caravan”? Le corde accarezzate per l’effetto straniante di “The end”? L’incursione di “Roadhouse blues?” E l’incipit di “Love me two times”, “Break on through”? “Strange days”, a mio avviso la più bella canzone del gruppo, racchiude tutto il potenziale dei Doors, impreziosita da una lisergica parte cantata, dalle percussioni tribali di Densmore e dal basso di Doug Lubahn. Certo, ovviamente senza Morrison tutto ciò non sarebbe mai stato creato. Quando ci stava con la testa, con il cuore e (non me ne vogliate), con il gioiello eretto, Morrison faceva emozionare. Senza di lui nessuna delle canzoni citate avrebbero beneficiato della stessa anima, così come senza gli altri le stesse non sarebbero mai diventate tali. Purtroppo, tranne l’album di debutto ed “L.A. Woman”, gli altri andarono piuttosto maluccio. Morrison pativa molto il successo fulminante dei Beatles e, alla faccia dello Scaruffone, li ammirava. Esiste una versione di “Tomorrow never knows” improvvisata con Jimi Hendrix, mentre Krieger, spesso e volentieri suonava le note di “Eleanor Rigby” nell’intermezzo di “Light my fire”. Nel 1968, su invito di George Harrison, Morrison fece visita ai coleotteri durante le sessioni del “White Album”, dove con tutte le probabilità partecipò ai cori di una delle tracks di “Happiness is a warm gun”.
Ma cosa voleva essere Morrison? Attore? Poeta? Cantante? Perché rifiutò il poderoso trampolino offertogli da Andy Wahrol? Perché riuscì a farsi bandire dall’Ed Sullivan Show? E Michael McClure? Francois Truffaut? Incomprensioni? Forse. Ma anche perché era una testa di cazzo. Mi dispiace dissentire da Manzarek quando questi si dolse con Oliver Stone per aver dipinto Morrison, nel film su di lui incentrato, come un pazzo e un ubriacone. Purtroppo e sottolineo purtroppo, lo era. Film che, tra l’altro, a parte qualche enfasi di troppo per questioni di romanzatura, lo descrive fin troppo bene e non solo sotto il profilo peggiore come alcuni critici sostengono. Nelle quasi 600 pagine della biografia di Stephen Davis, non esagero se in almeno 2/3, Morrison risulta completamente ubriaco, strafatto o entrambe le cose. Gli eccessi hanno contribuito fattivamente a consumarlo così rapidamente sul palcoscenico della propria vita. Cosa sarebbe diventato Morrison con qualche eccesso in meno, qualche rifiuto in meno e qualche ragionamento in più? Negli spettacoli dal vivo, niente di meglio per esprimere al massimo le proprie virtù artistiche come invece fu per Jimi Hendrix, sarebbe bastato abbandonarsi alle innovative performances di cui sopra: 7 volte su 10 veniva lasciato da solo, anche perché era difficile stargli dietro, dagli altri membri del gruppo, (Densmore ne risentiva moltissimo) sorretto esanime dall’asse del microfono o addirittura abbandonato dal pubblico tediato da sconclusionate e biascicate “Celebrazioni del Re Lucertola”, altrimenti suggestive se fosse stato quantomeno sobrio. Per non parlare delle volte in cui venne cacciato dagli organizzatori o trascinato giù dal palco e arrestato (11 volte) dalla polizia. Non si contano le volte che veniva ritrovato collassato sulle panchine o privo di sensi tra i cespugli di un parco dopo aver vomitato sui passanti. Spesso veniva sorpreso ad urinare in pubblico sul primo muro a disposizione o disprezzava esplicitamente le persone di colore etichettandole con il razzistissimo “Negri!”. Se la memoria non mi inganna ne fece le spese anche Arthur Lee dei Love ma come riassume chiaramente Davis:“Jim'spoteva tracannare due dozzine di bicchierini di whisky e una dozzina di birre senza darlo a vedere. Poi però bastava un altro bicchierino per trasformarlo in un barcollante, psicotico ubriacone che gridava – Negro! - per le strade…”. Spesso fu anche violento e non sono poche le donne che hanno assaggiato le mani (o le bottiglie) di un Morrison completamente stravolto da alcool o droghe, dove anche Janis Joplin, presa per i capelli ma non picchiata, ne seppe qualcosa.
Anche la Courson, una eroinomane dalla mutanda allegra, contribuì attivamente e passivamente alla sua distruzione. Le litigate per motivi di gelosia sono state molteplici e furenti con relativo e reiterato scambio di conifere: lui con giornaliste o cameriere, lei con spacciatori o amici del momento. Più divisi che uniti dicevano di amarsi, anche se la presenza di lei si materializzava puntualmente quando sfasciava una macchina che lui prontamente gli ricomprava, quando doveva provvedere all’inventario di costosi capi d’abbigliamento di una improbabile boutique e quando doveva andare ad abitare in sontuose villette in affitto. Fino al triste epilogo, quando lo lasciò galleggiare imbolsito e pietosamente gonfio, in una vasca da bagno in Rue de Beautreillis a Parigi. Aveva 27 anni e ne dimostrava più di 40.
Qualche anno fa ho avuto la fortuna di visitare il dedalico cimitero di Père-Lachaise, non senza una mappa quasi inutile e una buona dose di pazienza. Quando sono riuscito a scovare la sua tomba, dopo essere inciampato su quella di Chopin e di Jacques-Louis David, ci sono rimasto male. Nessun pellegrino. La vecchia lapide divorata dai graffiti è stata sostituita e cautelativamente transennata, all’ombra di qualche quintale di gomme masticate. L’ho salutato e gli ho reso doveroso omaggio. Ma gli ho anche detto che era una testa di cazzo. E non venite a dirmi che non è vero.