Fratelli.

Sei sempre stato silenzioso e riflessivo, fin da piccolo. Ma eri anche allegro, e sarcastico fino alla cattiveria, un po' vendicativo ma anche dolce ed estremamente empatico.

E con pochi amici, scelti e fedelissimi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Mi faceva incazzare, la mamma, mi costringeva a portarti con me, quando uscivo. Ma fu così che scopristi la musica.

Odiavi quella che facevo io col mio gruppo, la new wave, ma amavi i dischi di Zappa e dei Beatles che ti passavo.

A quattordici anni ti sanguinavano le dita dopo le nottate passate a provare i passaggi e le svise di Jaco.

A sedici suonavi in un gruppo jazz dove gli altri componenti avevano tutti più del doppio della tua età.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Poi ti sei perso, poi la naja, poi non proprio una gran voglia di lavorare, perlomeno non di fare quel che non ti piaceva, perché i lavori che ti appassionavano li facevi benissimo, ci mettevi cuore e cervello, come in quei giri di basso velocissimi e vorticosi che facevano ammattire il tuo batterista, come il modo in cui ti prendevi le ragazze che volevi, solamente guardandole, quelle che volevi.

Io lo sapevo.

Eri mio fratello.

Abbiamo passato l'infanzia e l'adolescenza insieme, io che ti parlavo di tutto e non tralasciavo un particolare, tu che dicevi tre parole e ti esprimevi a meraviglia.

Poi ci siam persi di vista per quindici anni almeno e, quando sei tornato, abbiamo ripreso il filo da dove avevamo smesso.

Poi la tua malattia, le sacche di sangue, le flebo, il mostro che ti consumava, da dentro, le energie e la forza.

E poi quella mattina, dopo una notte di sofferenza, tu che ci dicesti, a me ed al nostro fratellino più piccolo: "Ciao, ragazzi, io vado...".

Una parvenza di sorriso, addirittura.

Mi manchi da diciassette anni.

Ciao, Marchino.


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