Se mai ci saltasse in mente di farlo, bisognerà assolutamente tenere a bada un eventuale tentativo di imboccare le nuove generazioni con le nostre – laddove per ‘nostre’ intendo quelle degli over 30 - pillole di saggezza musicale; il nobile proposito non riuscirebbe altro che a suscitare il riso o la compassione di chi mastica senza ombra di riluttanza, né conflitti interiori o indigestioni, quello che il music business ormai è riuscito a camuffare per innovazione o “geniale revival”.

E dire che di roba bella se ne sente ancora tanta a giro; ma perdonate al povero matusa che scrive queste righe la nostalgia del tempo in cui l’idea stessa di ‘mainstream’ appariva quasi oltraggiosa per l’artista che si considerasse tale a tutto tondo.
Ne sanno qualcosa quei pochi, ma tremendamente necessari, gruppi che hanno sposato a vita la causa della lotta alla ‘betise’ socio-musicale, senza peraltro relegare la propria produzione nello sterile e autoreferenziale contenitore della parodia in forma melodica. E il caso ha certo le sue regole se i più prelibati tra questi funghetti semi-velenosi hanno costellato i boschi dell’umida, malinconica, flemmatica terra inglese.

Il premiato quartetto Godley-Creme-Stewart-Gouldman, al secolo 10cc, non fa eccezione; fa anzi scuola nella fase più prolifica e densa di piccole meraviglie della loro produzione, quella che precede la trasformazione nel 1977 del poker in doppia coppia (Godley e Creme avviati ad una fortunata carriera solista e di produttori video, Stewart e Gouldman a tenere in piedi il nome del gruppo con lavori assolutamente da riscoprire, vedi “Bloody Tourists”, 1978).

L’incontenibile carica inventiva di “The Original Soundtrack” (1975) ne fa il vero e proprio ‘masterpiece’ di un pop-rock complesso, volutamente barocco e strafottente nelle intenzioni comunicative, ma sorprendentemente minimalista, romantico e introspettivo quanto a ricerca melodica. Basterebbero da sole le infinite sovraincisioni di voci nell’incredibile singolo apripista di questo irriverente polpettone (o meglio, per dirla con i suoi autori, “minestrone”) in vinile, quella “I’m Not In Love” che ha smesso presto di essere un tormentone da heavy rotation FM per diventare il gene stesso del fare pop con la P maiuscola. Un pulsante battito di cuore sintetico apre e chiude sei minuti di assoluto delirio vocale, farcito dalla presenza (deliziosamente sovrabbondante) di una tastiera simil-bubble (Stewart ne era maestro) che delinea una melodia essenziale quanto indimenticabile, uno dei grandi gioielli che la musica leggera ci ha saputo regalare.

Ma le proporzioni mastodontiche del primo singolo non gettano ombra su un disco che in tutti i suoi episodi trova un compiuto esempio di elegante trasfigurazione della forma canzone, a partire dalla straordinaria, gioiosamente estenuante mini opera cabarettistica dell’introduttiva “One Night in Paris”, dopo la quale i Queen possono anche buttarsi dalla finestra, e dalla sua piccola gemella “Brand New Day”. La perizia della produzione e degli arrangiamenti non può che nobilitare ulteriormente l'afflato comico-lirico dei pezzi in questione. E come pronunciarsi sulla grottesca cavalcata del secondo singolo, la trascinante “Life Is A Minestrone”, o sull’assurda psichedelia rock di “Flying Junk” e il prepotente e assatanato simil-core di “The Second Sitting For The Last Supper” e “Blackmail”? Per approdare poi al gran finale, farcito a suon di mandolini e bonaria italianità, nella spassosa “The Film Of My Love", sempre che si possa parlare di finale per un'opera dei 10cc.

La loro è un'avventura musicale che, sia pure tra alti e bassi, vede una nobile, incessante continuità in quel costante sberleffo a chi con supponenza e volgare menefreghismo soffoca l'arte melodica nell'angusto sgabuzzino dell'intrattenimento. Allora, e ancora una volta, 'chapeau' ai baronetti della musica come "food for thought".



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