Una bella copertina (una volta aperto anche il retro) di Neon Park, quello delle cover dei primi Little Feat, introduce il secondo lavoro dei 38 Special (anno 1978) assai simile al primo: stesse qualità, stessi limiti. Il canto solista è affidato ancora esclusivamente al timbro cordiale e country blues del frontman Donnie Van Zant, ma è l’ultima volta prima che venga affiancato, e ben presto sopravanzato, da Don Barnes uno dei due chitarristi.
I pregi del disco sono il bel suono deciso ma equilibrato e pulito, la spinta della sezione ritmica, la competenza e affiatamento dei due chitarristi Barnes e Jeff Carlisi. I difetti sono la… mediocrità dei contenuti, beninteso largamente sufficienti ma insomma lontani dal suscitare entusiasmi.
Metto a fuoco qualcosa su ognuna delle otto canzoni presenti: l’apertura “I’m a Fool for You” è un saltellante boogie con subito in evidenza l’ospite Billy Powell pianista dei Lynyrd Skynyrd: tutto giusto, ma la melodia è banale. Su “Turnin’ to You”, col ritmo in up-tempo, vi è un riff scontato ma un bell’assolo di Barnes. Viene da ascoltare più le chitarre che la voce… Donnie non ha il carisma del fratello, è di un’altra specie, meno attrattiva e carismatica.
“Travelin’ Man” è nuovamente boogie, allegra e sincopata, col solito testo scontatissimo sul viaggiare, sulle lunghe strade eccetera: molto fighe le chitarre soliste in armonia. “I Been a Mover" è noiosa, ma giunge bellissimo dopo uno stop l’attacco solitario del solo di Carlisi, tramite un vibratone gigante sulla corda del SOL pieno di passione. Si avverte, pur se ancora leggermente, la deriva verso un southern rock adulterato ed accessibile; ne è testimone l’arpeggiata ed avvolgente “What Can I Do”, in sostanza una semi ballata.
Il boogie pulsante della Florida ritorna con la compatta “Who’s Been Messin’”, guarnita di cori femminili e con un breve duello di chitarre soliste; al solito, è la linea vocale ad essere semplicistica, peccato perché chitarre basso e batteria ci danno dentro in grande stile. In “Can’t Keep a Good Man Down” soffia assatanato nel sax l’albino Edgar Winter, altro ospite di riguardo.
La finale “Take Me Back” prende le strade del lirismo, iniziando con l’arpeggio di una 12 corde e il pianetto di Powell che abbellisce e scava nei sentimenti. Poi tutto si assesta in una ballata pienamente ortodossa ma, nuovamente, prevedibile e stereotipata, specie nei cori gospel che impazzano, da metà alla fine, con quel vibrato negroide assai di maniera.
“Special Delivery” è un buon passo avanti rispetto al lavoro d’esordio, ma ancora non siamo nell’eccellenza, nella peculiarità. Per parecchi oltranzisti, quelli da “sangue, sudore e merda”, quest’album e quello d’esordio sono il meglio di questa band. Per me sbagliano di grosso… i 38 Special troveranno pienamente lo stile personale, nonchè l’alta qualità, facendo un passo indietro rispetto al sanguigno southern rock propriamente detto, introducendo robusti intarsi di hard rock melodico ma soprattutto mettendo a fuoco riff, melodie vocali, suoni ed arrangiamenti di classe ed inventiva.
E questo avverrà subito, seccamente, con il disco successivo a questo ossia il già accennato “Rockin’ into the Night”, che li farà entrare nelle classifiche ed imposterà saldamente tutta la carriera successiva.
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