Questo gruppo proveniente dalla Florida è fra i miei preferiti nell'ambito del rock sudista: il loro blues rock melodico, equilibrato, molto ben prodotto era riuscito ad un certo punto (negli anni ottanta, ad esempio proprio con quest'album) ad uscire dal ristretto ambito di genere e propagarsi verso fasce di ascolto più generiche e meno specializzate o esigenti, grazie all'accessibilità di certi ritornelli ed alla faciloneria dei testi. A me è comunque, da subito, saltata alle orecchie la buonissima classe della loro proposta musicale ed ho approfondito ben volentieri la conoscenza del loro repertorio, col personale risultato che un buon pugno di loro canzoni sono e rimarranno nel profondo del mio cuore.

Diversamente da molti altri loro colleghi della stessa schiatta musicale, tipicamente alle prese con caratterizzazioni o veri e propri eccessi di vario tipo (lunghissime improvvisazioni psichedeliche nel caso degli Allman Brothers, chilometriche battaglie fra chitarre soliste nei Lynyrd Skynyrd e nei Molly Hatchet, testi crudi e stradaioli per Blackfoot ad ancora Lynyrd Skynyrd, divagazioni nel soul e nel rhythm&blues per Wet Willie...) i nostri hanno scelto, da subito e per tutta la carriera, di puntare su compattezza e songwriting, su linearità ed un pizzico di sana ruffianeria, badando a inventare buoni giri di chitarra ed a tenere alto il ritmo, ma contemporaneamente rotondo e pulito il sound, senza esagerare in nessuna direzione: una specie di peccato mortale per una certa tipologia di appassionati di musica, specie quelle frange più sensazionaliste, immaginifiche e snob, alla costante ricerca del nuovo, dell'estremo, del pericoloso, del depressivo...

Questi qui fanno insomma del rock classicissimo e stra-americano (secondo proprio stile e sensibilità, ben distinguibili per chi segue il genere), senza messaggi, ma per il gusto di suonare, per l'ancestrale piacere che può procurare la musica a buon ritmo, forte volume e spiccata melodia. Le liriche sono messe lì in sostanza solo per far lavorare anche le voci, a risultato di una musica ben trascinante, perché suonata con convinzione e prodotta con grande professionalità. Il rischio è di non accontentare nessuno (specie dalle nostre parti): il metallaro alias punkettaro o in qualche altro modo caciarone vorrà sentire ben altre abrasioni soniche e testuali; il poppettaro o l'iper-romantico sarà, all'opposto, disturbato dalla potente insistenza delle (due) chitarre e dal determinato picchiare delle (due!) batterie, e così via.

Il sestetto dei 38 Special prevede dunque doppia batteria e doppia chitarra, ma anche doppio cantante perché uno dei chitarristi, Don Barnes, alterna la sua voce, fra una canzone e l'altra e qualche volta nell'ambito della stessa, con quella del frontman di ruolo Donnie Van Zant. Costui non è altro che uno dei fratelli del compianto Ronnie, carismatico leader dei Lynyrd Skynyrd, da non confondere però col terzo fratello Johnny, quello che effettivamente ha preso il posto di Ronnie nel celebre gruppo (altra liaison fra le due formazioni è rappresentata dal bassista Larry Junstrom, membro fondatore degli Skynyrd a fine anni sessanta, entrato nei 38 Special al momento del terzo album, più o meno nel 1979).

Il pallino in mano in questa banda l'hanno comunque i due chitarristi: Barnes è più compositore e riffeur, il collega Jeff Carlisi ha un solismo più ficcante ed entusiasmante. Non facile distinguere chi suona che cosa, essendo i loro due strumenti molto vicini timbricamente e molto ben amalgamati nel missaggio. Anche le voci di Barnes e Van Zant sono piuttosto vicine, prediligendo le stesse tonalità: diciamo che il chitarrista è più accorato e aggressivo, più rock insomma, Donnie invece più appoggiato e sornione, più blues, più sudista.

La qualità resta costante più o meno in tutti i nove pezzi che compongono quest'album: non c'è il capolavoro e non sembrano esservi riempitivi. A molti piacerà più di tutti il contagioso rock'n'rollin' della veloce "Twentieth Century Fox", che vede al centro della scena Carlisi intento a bombardare a destra e sinistra con assoli d'ottima scuola, mentre i due cantanti si scambiano continuamente il ruolo solista. Altri verranno conquistati piuttosto dal roccioso e stoppatissimo riffone di "Back Where You Belong", composta dal misconosciuto songwriter canadese Gary O'Connor e resa al meglio dal vocione di Barnes. Altri ancora opteranno per le atmosfere più jazzy ed appoggiate di "Long Distance Affair", oppure per la compattezza e la ruffianeria rock-pop dell'apertura del disco "If I'd Been The One", od infine per i volumi a picco di "Undercover Lover", messa in chiusura.

Buon disco di genere, questo sesto di carriera (1984), anche se non il migliore a mio parere (riservo questo giudizio al quarto della serie, quel "Wild Eyed Southern Boys" uscito tre anni prima). Bellissima, come si può vedere, la copertina.

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