E' una parola necessariamente poco usuale, ed è meglio così, di questi tempi. Sono situazioni dove appare così fuori luogo, talmente tanto da doverla appena accennare, come un pezzo di storia che si vuole o si è costretti a dimenticare. L'immagine che mi viene in mente è una anziana signora, che sussurra tristemente a un bambino: "Una volta c'era il rock", e prova vergogna nel dirlo perché sa che quel bambino non potrà sapere mai cosa sia stato.

Sono passati gli anni, e dopo il miraggio della musica libera e senza confini, abbiamo assistito alla decadenza. Lo chiamano Post-rock, perché nasce in periodi bui che vedono un rapido allontanamento di quella corrente. Si inscena insomma il giudizio universale della musica, il punto d'arrivo dei nostri sogni, la resa dei conti.

(Ci ha lasciati soli, ma dei raggi di luce ogni tanto onorano gli angoli delle nostre stanze)

Finita l'apocalisse non si ha altra scelta che raccogliere i brandelli, i superstiti, le esili cose che ancora ci circondano e farne tesoro inestimabile.

Le epiche suite dei Godspeed You (!) Black Emperor erano l'ultimo sprazzo di vitalità, prima di abbandonare il mondo alla sua completa rovina. Finito anche il Post-rock, cosa resta? Solo questo. A Silver Mount Zion, col suo primo disco, può essere considerato l'unico caso di post-Post-rock.

Tutto ciò che siamo riusciti a salvare è un vecchio violino malinconico, un basso e una chitarra che adatteremo con l'archetto di riserva. E' tutto finito, ma utilizziamo quel poco che ci resta per cantare. Non lasciamo che la musica si spenga prima di noi.

Una corda rotta può suonare un poco.

A Silver Mount Zion è poesia dell'essenziale, elogio alla sopravvivenza nel dolore più profondo, nell'abbandono e nel silenzio. Non abbiamo più nulla, ma quella luce che entra dalla finestra sa darci speranza, è la nostra gioia e la custodiamo gelosamente. Siamo vivi, e tanto basta.

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