Sarà che Takeshi Kitano mi ha commosso quasi fino alle lacrime con "Hana-Bi", o sarà che i giapponesi hanno sempre un faccione sorridente anche quando sono stati licenziati ed hanno perso un parente, sarà quello che volete, ma il cinema orientale mi ha sempre affascinato. Non è un cinema migliore o peggiore di quello americano (forse è solo un po' più indipendente), ma c'è sempre qualcosa in questi orientali che mi fa saltare sul divano e gridare al capolavoro. Pensate a "The Killer" di John Woo: era una continua serie di morti ed ammazzatine, ma aveva una forza, un ritmo, un'energia che dopo due ore quasi ti aveva annientato. E la cosa bella era che non venivano utilizzati nessun tipo di effetti speciali.

Il cinema orientale però, con tutto il bene che voglio a Kitano e Woo, ha origini nobili ed antiche. Tra i registi nipponici più famosi, precursori di un cinema oggi universalmente amato e riconosciuto, sono da citare almeno Yasujiro Ozu, Kenji Mizoguchi, Kon Ichikawa, Akira Kurosawa. Di questi, il più famoso e talentuoso fu Akira Kurosawa. Un regista straordinario, capace di spaziare di genere in genere, geniale nell'inventare tecniche cinematografiche poi abusatissime ("Rashomon" insegna), insuperabile nel miscelare antico e moderno. Amatissimo all'estero, scarsamente considerato in patria tentò di suicidarsi nel 1970 dopo un ingeneroso flop commerciale. Lassù qualcuno lo ama, e la morte è rinviata. Arriverà nel 1998 quando Kurosawa è ormai un anziano signore di 88 anni.

Tra i suoi film più belli impossibile non citare "Dersu Uzala", "Kagemusha", "Ran", ma quello che lo rese celebre fu "I sette samurai", un capolavoro del 1954, puntualmente in vetta in tutte le classifiche dei migliori film del mondo.

Quando si parla de "I sette samurai" non si sa mai bene da dove cominciare. Raccontare la storia è banale, decantarne le lodi pure. Ma questo film è eccezionale perché, pur essendo ormai vecchio di 53 anni, mantiene una freschezza ed una eleganza da far invidia a qualsiasi produttore hollywoodiano. In fondo, la storia in sé non è niente di che: un villaggio minacciato da alcuni fuorilegge, decide di chiedere l'aiuto di sette samurai per difendersi e combattere i nemici. Nulla di che, non fosse che Kurosawa condisce ogni scena con una spezia particolare: le imponenti scene di massa sono talmente ordinate e precise che fecero da spunto a tutti i successivi film made in Usa; le tecniche di ralenti sono ancora oggi leggendarie (colpi di spade, cadute nel fango); ogni sequenza andrebbe sezionata secondo per secondo per comprenderla a pieno. E poi c'è un discorso di fondo fondamentale: più di tutto, il film rappresenta la scontro di culture predominanti, quella semplice della povera gente di campagna e quella delle armi. La cultura medioevale si intreccia con quella moderna, la saggezza delle grandi parole dei vecchi saggi e l'inesperienza dei giovani vogliosi di combattere ed entrare nella Storia.

Un film d'avventura dunque, ma col passo della leggendarietà. Ogni samurai ha un proprio carattere, ed ogni samurai rappresenta una virtù come nella più tipica iconoclastia nipponica: la saggezza, l'astuzia, l'individualità, la generosità, la furbizia, la concentrazione. Ma anche il riscatto di una vita (esemplare, in questo caso, il personaggio interpretato da uno straordinario Toshiro Mifune), la grandezza di una civiltà a cavallo tra tradizione ed innovazione, lo spirito epico di battaglie che si tramanderanno di generazione in generazione, la disillusione di fondo (memorabile le parole pronunciate dal vecchio capo dei samurai dopo la vittoria sui fuorilegge: "Ancora una volta abbiamo perso... i veri vincitori sono loro"), la lotta contro la schiavitù del più forte, ed un messaggio fortissimo di libertà e voglia di vivere.

Dentro "I sette samurai" ci sono secoli e secoli di storia giapponese, ma c'è anche la grandezza di Kurosawa nel saper gestire e costruire un film: pressochè perfetti i vari registri narrativi, soluzione di continuità tra e scene di massa e sequenze intimiste, una classicità di linguaggio simile al teatro No (prologo, racconto dei fatti, dettagli, soluzione, scena finale, epilogo). Tanto che gli americani, invidiosi di tale successo, qualche anno dopo decisero di plagiarlo (a dire il vero non gli venne proprio malissimo) e realizzarono "I magnifici sette".

Se il Giappone è un po' meno sconosciuto a noi occidentali, lo dobbiamo anche e soprattutto a questo capolavoro, degno pioniere di tanti film d'azione che oggi ci rintronano le cervella. A dire il vero, bastava scrivere sotto il titolo la parola 'epico'. Bastava ed avanzava.

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