Quiet please performance in progress...

Nel  1996 a New York è già iniziata la politica del sindaco-sceriffo Rudolph Giuliani, anzi lo stesso è a un anno dal termine del suo primo mandato. La città, dopo una decade di yuppiana leadership sul resto d'America e del mondo, si è finalmente trasformata nell'inferno post-moderno di tanti romanzi e di migliaia di films. Dal punto di vista politico, sarebbe proprio grazie a questa fiorescenza di criminali che New York divenne, di fatto, uno stato a parte, uno Stato Disunito D'America: la sua politica di sicurezza è riconducibile ad una guerra camuffata, lo stato mentale è uno stato di polizia, lo stato sociale è uno stato d'allerta. Ad oggi, se quel rimedio fu migliore o peggiore del male riteniamo non ci sia dato di sapere, considerando la vicinanza temporale di quegli eventi e prendendo visione di quante e quali cose resero e continuano a rendere New York la città degli stravolgimenti, da "Sex And The City" all'undici settembre 2001.

Ma siamo rimasti a quel 1996: New York non è più da tempo la città del sogno americano, il capitalismo è spietato ed autoreferenziale, la gente comune ha paura a relazionarsi ed a vivere: un decennio usa e getta ha distratto le coscienze. Un tempo si moriva (o s'ammazzava) per un ideale, adesso si può morire (o ammazzare) per un frigorifero: così, più o meno, troverete scritto in "La Porta Proibita" di Tiziano Terzani, solo che la grande città che il grande Tiziano raccontava non era la New York della decadenza dello yuppismo ma la Pechino della decadenza del Maoismo: l'abbassamento del valore intrinseco delle ragioni per cui trovare morte è l'indice del deterioramento delle civiltà, non importa se capitaliste o socialiste o chissà cos'altro. Anche a New York si poteva uccidere per un furto in un appartamento (il frigorifero, però, è un po' difficile da trafugare)  oppure si poteva finire ammazzati da un poliziotto-tollerante zero per aver commesso o provato a commettere quel reato.

Come in tutte le dolorose fasi di un'inevitabile metamorfosi, gli intellettuali e gli artisti, gli animi più sensibili e le menti più allenate, captano il cambiamento, accusano più forti i sintomi del doloroso processo, e ne soffrono maggiormente. Infondo, però, meglio imparano a convivere col dolore. Ric Ocasek, yuppie che gli anni ottanta li ha cavalcati fino all'ultimo mese utile, uomo, come troverete scritto da qualche parte, molto incline all'avanguardia ma che ad essa ha sempre preferito le charts, non ha più i vent'anni di quando aveva con sé i Cars. Letteralmente stufo di andare in perenni tournées, aveva quasi del tutto abbandonato anche le sue suggestioni pop rock e plastico synth beat per dar vita ad una forma d'autorato serioso, cupo, freddo. Egli porta a questo progetto in esame e dedica alla sua città delle liriche ermetiche ed iperlucide, delle musiche - più che altro basi - gelide e/o danzerecce ma al suo stile facilmente riconducibili. La sua attitudine è quella di fotografare l'istante, sviluppare il dettaglio, ingigantirlo, e farne cogliere il senso. Se sono i dettagli che fanno la differenza, allora egli è il freddo, analitico documentarista di quello stato delle cose. Abituato ad una New York in perenne fermento creativo, discepolo di Andy Warhol, surfista sulle onde della musica di largo consumo negli ottanta, poeta minimalista, newyorkdipendente, non riesce però a non far trasparire,  come un realista che non riesce a trattenersi, quella lieve ma incessabile disperazione per come la città s'era ridotta. Dentro al booklet del suo disco più cupo ed estremo, "Negative Theater" scriveva che agli inizi della sua carriera passava le notti di casa in casa, di nuovo amico in nuovo amico, adattando i suoi due metri ossuti dentro alle loro vasche da bagno. Riprovare nel 1996 a fare quella vita a New York è improponibile. Ric, che dalla filosofia dell'U.S.A. e getta ha avuto tutto, ricchezza, fama, una supertop model per moglie e se non erro cinque figli, osserva dal suo apartment  in cima al grattacielo, spia le vite, prende appunti per ogni angolo di marciapiede, ma non approfondisce gli aspetti più evidenti, più effettistici ma alla lunga più prevedibili: vuole il dettaglio, lui che è così minimal che i suoi due metri pesano si e no cinquanta chili. E se ne resta lì, ad osservare quelle formiche laggiù che si dichiarano guerra per delle briciole, e ne parla sottovoce come farebbe il documentarista nella savana tra le belve.

Gillian McCain, ad oggi chissà che fine avrà fatto ma molto nota negli U.S.A. per un libro eccezionale che fotografò il punk col giusto distacco e con la massima completezza, al contempo però utilizzando le stesse dichiarazioni dei suoi protagonisti di vertice, con un collage spericolato di dichiarazioni rilasciate dalle stars non a giochi fatti ma a fenomeno in corso, lei è nella sua casetta di mattoni rossi in periferia, ed una volta la puoi trovare in cucina e l'altra in camera da letto. Se per Ocasek ogni uomo dovrebbe aver preso lezioni di autodifesa, per Gillian i maschi sono fluidi: seme, saliva, sudore, sangue, birra, gasolina... La sua è una lirica interiorizzata, digerita ed evacuata. Parole che nutrono, ma che immagino marce, e pensieri putrefatti come cibi scaduti. Ed ancora sfoghi, invocazioni, diarismo, confessioni. C'è quasi sempre un occhio sull'aspetto sessuale, sul significato doloroso del dover metabolizzare tutte le sconfitte del mondo, di doverle inglobare a sé, e la donna newyorchese non può non farlo attraverso quel varco.

E se Gillian cerca il trascendente per affrancarsi, o per tentare invero di riconciliarsi, per maledirlo come per chiedergli aiuto, Alan Vega... Beh Alan Vega è sempre lui. Dopo "Listen Up, Saint Francis", ovviamente della McCain, arriva lui che con l'umore tutto all'opposto esordisce con "Messiaaaaa? Yu-uh Messiaaaaaaa?" quasi a volerlo provocare, quasi a dirgli "perché non ti fai avanti?", come un nuovo squilibrato nemico senza paura per l'ennesimo superbuono bello e banale. Vega prolifera dunque dove Ocasek s'aggira scafandrato e munito di sistemi di rilevamento e dove la McCain s'immerge vestita d'un lenzuolo bianco come una virginale martire, nascostamente promettendosi la pace eterna e la gloria di dio o di un suo superiore.

Ed allora Vega ti invita a respirare a pieni polmoni l'odore della guerra, a scatenare l'inferno nella tua vita, a dichiarare la tua ostilità a questo mondo e ad ogni altro mondo possibile. Il risultato è uno spleen saltellante, quasi sempre danzabile, quasi mai contemplativo ma azione pura, quasi sempre indirizzato al correre incontro a questa fine, dato che sarebbe inevitabile.

Ocasek è il cervello, McCain  il bassoventre e Vega è la pancia.

Il genere musicale si chiama "spoken word", genere che vanta alcuni esempi di livello, per esempio i restanti Doors quando misero in musica le poesie di Morrison, ma quasi tutto nelle mani di Ocasek, che ne propone esemplari ad ogni disco sin dai tempi del lontano "Candy-O" e di Vega, crooner danzante come un satiro sopra ai ritmi più sghembi ed alle geometrie più piranesiane, sin dai tempi della no-wave coi Suicide. La McCain si limita perlopiù ad una ben più tradizionale recita sopra un tappeto di rumori e suoni Ocasekiani.

Lo spaccato di un est in declino, con degli artisti fuori dal giro dei grandi numeri che stanno lì a nutrirsi delle proprie ossessioni e delle storielle che si raccontano da soli, loro che son finiti a far parte di una élite e che pertanto non sanno ricongiungersi alle masse, e molto probabilmente non sanno nemmeno più riconoscerle. Un rollercoaster dentro a ad un tunnel dell'orrore scavato sotto una città che, smesso di crescere, comincia ad autofagocitare.  Una scarrozzata dentro a un inferno nero lucido.

Get  Your Ticketz!!!

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