Una vicenda corale ambientata tra Marocco, Giappone e Messico, con attori di quasi tutte le etnie, quasi a voler rimarcare che siamo nell'era della globalizzazione, e tutti siamo capaci di influire (bene o male) nel corso degli eventi. Alejandro Gonzalez Inarritu e l'innovativo sceneggiatore Guillermo Arriaga a quattro anni dal bizzarro montaggio di "21 grammi" tornano a raccontare una storia di destini incrociati nella Babele contemporanea, dove ognuno fa parlare soltanto la propria frustrazione.
Tutto parte nel deserto, dove un pastore marocchino acquista da un amico un fucile per allontanare gli sciacalli che attentano al suo gregge e lo dà in consegna ai suoi due figli, poco più che bambini. I due fratelli, Ahmed, il più grandicello, e Yussef, il più sveglio, decidono di provarlo puntando un pullman che avanza a un chilometro di distanza. Caso vuole che sia un pullman di turisti americani, e che la pallottola colpisca Susan (una travagliatissima Cate Blanchett), in vacanza, forse riparatrice di una mezza crisi matrimoniale, con il marito Richard (Brad Pitt). Questo evento sarà al tempo stesso l'inizio e il punto di raccordo di una serie di accadimenti a sfondo tragico.
Ci spostiamo infatti in California dove Amelia, tata messicana dei due figli piccoli di Susan e Richard, viene telefonicamente avvertita del dramma, e privata del permesso di andare in Messico al matrimonio del figlio. Amelia decide di andare comunque contravvenendo alla proibizione di Richard e si porta appresso i due bambini, scortata dal tamarro nipote Santiago (Gael Garcia Bernal). Da qui ci si sposta in Giappone, dove seguiamo le vicende di Chie-ko, post-adolescente sordomuta alle prese con un lutto non elaborato e la sua voglia di essere accettata dall'universo maschile.
Se gli scenari messicani sono immediatamente chiari nel loro collegamento alla vicenda marocchina di Susan e Richard, ci si impiega di più a capire cosa c'entri la ragazzina giapponese e le sue vicissitudini con i maschi. Tuttavia il film è pervaso di un realismo che rende il tutto organico e credibile, tre storie (quattro se consideriamo i retroscena sui pastorelli marocchini) che in comune oltre al colpo di un fucile hanno l'impossibilità della comunicazione nel mondo post-11 settembre.
E' lampante infatti l'incapacità di comprendersi, quando i compagni di viaggio di Richard vogliono abbandonare lui e l'agonizzante Susan perché "é poco sicuro fermarsi in un villaggio sperduto, la televisione ha detto che..."; quando lo stesso Richard non vuole sentire le ragioni di Amelia che si vede costretta a rinunciare al matrimonio del figlio; quando la polizia marocchina picchia selvaggiamente il pastore che ha venduto il suo fucile all'amico... In tutto ciò Chie-ko, che è la più "privilegiata" quanto a spazio geografico e situazione contingente, non può comunicare normalmente e porta questo fardello cercando di fare come se niente fosse e andando oltre, senza comunicare neanche con sé stessa.
Quanti più strumenti abbiamo per comunicare, sembra che tanto meno ci si riesca a capire. E quando si sacrifica la comunicazione per la sicurezza allora domina l'assurdo, e il dolore. Come quando la polizia ingaggia un conflitto a fuoco con i due pastorelli asserragliati dietro le rocce del deserto (metafora di quest'assenza di comprensione) mentre cercano di fuggire col padre. O quando il guardiaconfine americano ammanetta e tratta alla stregua di un terrorista la disperata Amelia che ha perso i bambini nel deserto (stavolta quello messicano). Non è un caso che alla fine a pagare il prezzo più alto saranno i più ingenui, ovvero Ahmed, colpito a morte dagli spari della polizia, e Amelia, espulsa in seguito alla stupida reazione di Santiago che, ubriaco, tornando dal matrimonio forza il posto di blocco al confine con la California.
Un film molto ben fatto, perfetto dal punto di vista tecnico e toccante nel suo messaggio. Grande prova di recitazione di Brad Pitt, mai così tridimensionale, e scene veramente intense, come la riappacificazione con Susan, che ferita e moribonda si rende conto che le incomprensioni che li hanno portati fin lì erano sciocchezze. La scena finale, con la ragazza giapponese nuda che osserva il panorama notturno sul balcone del suo grattacielo esprime al meglio la solitudine dell'era contemporanea, che rinunciando alla comunicazione autentica trasforma semplici incomprensioni in vere tragedie.
Inarritu realizza così un film bellissimo, uno di questi nuovi ibridi mexico-hollywoodiani che raccontano al meglio ansie e tensioni del vivere odierno, cosa che con "21 grammi" era riuscita soltanto parzialmente. Una menzione particolare alla colonna sonora dello stesso autore di quella di "Brokeback Mountain". Un film da vedere, sia per gli scenari etnici veramente suggestivi che per l'intensità e l'attualità del tema trattato.
Carico i commenti... con calma