Quarte voci, le chiamavano.
A ben vedere, delle altre voci presentavano alcuni dei tratti caratteristici: voci bianche, ma ricche di armonie e di registro femminile, eppur generate dalla potenza vocale di un uomo.
Quello dei castrati è un mondo ormai remoto, figlio di un’epoca che non esiste più. Il nome, forse un po’ denigrante per i nostri tempi, indicava una categoria di cantanti lirici che nella giovinezza, prima della pubertà, subivano per il volere dei genitori nel tentativo di assicurare ai figli una carriera musicale di successo – l’asportazione dei testicoli (se già la maturità sessuale non fosse compromessa di suo per disfunzioni congenite) al fine di preservarne la voce fanciullesca.
Alcuni di loro diventavano delle vere e proprie stelle della musica del ‘700 e del ‘800, fino ai primissimi anni del ventesimo secolo, quando papa Leone XIII ne proibì l’utilizzo all’interno delle attività della Chiesa ed il suo successore Pio X, nel 1903, pose definitivamente fine alla storia di questi cantanti, giudicando illegale (anche a causa della sua pericolosità per la sopravvivenza degli infanti) la pratica di castrazione*.
Alessandro Moreschi non fu il più grande tra i castrati (il ruolo spetta indubbiamente a Carlo Broschi, detto “Farinelli” – peraltro, basandosi su testimonianze d’epoca, per non pochi intenditori è anzi considerato il miglior cantante di sempre della lirica tout court**), e nemmeno fu l’ultima fra le evirate celebrità di primo piano, che invece fu probabilmente Giovanni Battista Velluti. Fu semplicemente l’ultimo dei castrati (almeno nell’ambito della Sistina); non solo: fu anche l’unico a tramandare la propria voce.
I diciassette brani che compongono la raccolta nota come “The Last Castrato” – nome invero poco dignitoso – vennero registrati tra il 1902 ed il 1904 (purtroppo un po' presto per la superclassifica di Sorrisi) nella Cappella Sistina e spaziano tra classiche arie sacre e brani di lirica allora più recenti, sempre a tema religioso; la registrazione è di importanza storica enorme: è, infatti, l’unica testimonianza a noi pervenuta di quella che poteva essere la sensazione data dal canto di questi eunuchi del diaframma. In conclusione è stata inserita una registrazione dello stesso papa Leone XIII che impartisce la sua benedizione.
Certo è che il peso degli anni (più di un secolo!) si fa sentire: le registrazioni sono un tripudio di fruscii, suoni bassi e sacrosanto rumore analogico; cosa che però non disturba, ma trovo anzi conferisca ancor più fascino a tutto l'ambaradan (che senso avrebbe un residuo dei secoli passati nel suono quasi perfetto e per certi versi fastidiosamente pulito del supporto digitale?).
Tra i brani, cito l’“Ave Maria” di Gounod (secondo me il brano più identificativo di quanto detto, anche per la familiarità dell’aria e l’immediato confronto con altre versioni più “canoniche”), il canto gregoriano dell’”Incipit Lamentatio” e l’“Hostias Et Preces” di Terziani; ma sono presenti anche un brano di Mozart (“Ave Verum Corpus”) ed il “Crucifixus” di Rossini. La mia conoscenza della materia, molto risicata, non mi permette certo colte digressioni sul valore artistico dei singoli brani; ma del resto non è per essi che scrivo questa pagina.
La protagonista è ovviamente la voce di Moreschi; limpida, altissima, evocativa, eppure così straniante – quasi imbarazzante per noi uomini del duemila – se associata alla sua pingue immagine. Forse non perfetta, come mi par di notare in certi passaggi, l’abilità canora di Moreschi – definito a volte un mediocre cantante – è stata spesso criticata; può essere che invece erano proprio questi gli standard qualitativi dell’arte dei castrati, almeno sul finire della loro parabola storica. Probabilmente, come è stato suggerito, la performance magari non esaltante dell’artista laziale può essere imputata al senso di smarrimento di dover esibirsi non davanti ad un pubblico, bensì in un apparecchio tozzo ed ingombrante qual era un fonografo (o quel che l’è, insomma). O forse la Maionchi gli ha detto che, secondo lei, Alessandro non c'aveva il fattore X.
Vero anche che, con buona probabilità, il cantante in quegli anni si avvicinasse al viale del tramonto (anche qualitativo) della sua carriera, che comunque sarebbe durata ancora qualche anno. Moreschi, solista del coro della Cappella Sistina per 30 anni, si ritirò infatti dalle scene nel 1913 (i provvedimenti papali non si estesero ai castrati già in organico nelle strutture ecclesiastiche più importanti) e morì, purtroppo in povertà e dimenticato da molti, nel 1922, all’età di 64 anni.
Di lui, e di un’intera storia antica e gloriosa, non rimane che in fondo una gracchiante testimonianza (il castrato molto farinellesco della fiction con la mantella scarlatta interpretata da Garko e da quella gnocca della Coppola non conta, neh) ascoltata per caso e commentata*** per chissà qual motivo.
Ma tant’è; mi pareva giusto considerare in questo contesto musicale cibernetico quello che è, in fondo, tra i primissimi album della storia, unico lascito artistico dell'arte dei castrati, stele di rosetta delle voci degli angeli.
* Prima di vedere comparire qualche Uh! Oh! dei miei stivali, lo dico subito, mi sono decisamente servito di wikipedia; contenti?
** Osando un po’ di greve sarcasmo, lo si potrebbe davvero definire un artista con i coglioni.
*** Il voto chiaramente non ha senso, non essendovi alcun termine di paragone per l’opera in questione.
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