Poi 'n'artra cosa: ce l'avemo 'na Bibbia?
Ma sei credente?
So' sperante...

Stefano Cucchi sta morendo e si confida a una volontaria di cui sente di potersi fidare. È stato arrestato qualche giorno prima per “spaccio e detenzione”. L'hanno picchiato i carabinieri, poi guardie, medici, primari e familiari non si sono accorti che stava morendo, e lui se n'è andato in punta di piedi, senza disturbare nessuno.

Le forze dell'arma ovviamente si sono indignate di fronte a questo film, dicendo che si tratta di fango su di loro pagato coi soldi dello Stato. Evidentemente non hanno capito davvero l'opera di Cremonini, che non vuole – e non può – essere un documento utile a fare chiarezza su un caso complesso e ancora irrisolto. Farlo oggi, quando tutto è ancora aperto, è una scelta programmatica. Non serve infatti stabilire con esattezza le cause della morte di Stefano per cogliere una verità più grande, vertiginosamente più grande di botte e lividi. E cioè che tutti gli ingranaggi dello Stato e della società hanno lasciato sfuggire via un figlio dell'Italia, non l'hanno saputo trattenere nel sistema per salvarlo. Le infinite maglie hanno fallito, non impedendo a quell'infimo granello di sabbia di seguire il suo percorso rovinoso.

Non c'è un colpevole qui, c'è tutto un mondo che non sa accorgersi della morte incombente di un uomo, troppo preso dalle sue procedure burocratiche di kafkiana memoria. Stefano scivola via dolcemente, senza fare rumore, mentre tutti si preoccupano soltanto di regole e responsabilità, scaricando sempre su qualcun altro il peso delle scelte e delle azioni.

Pugni, calci, attacchi epilettici, malnutrizione o disidratazione, non è tanto il come sia morto Cucchi a postulare un problema generale, ma il fatto in sé. Non conta (da questa particolare prospettiva) come siano stati provocati quei lividi spaventosi, ma il fatto indiscutibile che quei lividi ci fossero, ma pochi si fossero chiesti il perché. Tutti si focalizzano sulla colpa, dimenticando il bene primo: la preservazione della vita. Tutto il resto viene dopo.

E nella lentissima spirale di morte e abbandono, Stefano non è esente da colpe. In parte è lui stesso a farsi del male, non è un agnello immacolato. Questa tensione autodistruttiva non può che rafforzare la lettura universale ed esistenziale dell'opera, attenuando quella contingente e politica. L'esistenza in sé assume un forte connotazione autolesionista. Il Cucchi di Alessandro Borghi è troppo dilaniato dal dolore per cercare di salvarsi, si lascia morire piuttosto che cercare una risalita dall'apnea. Un dramma spaventoso e radicale, che guarda ben oltre i processi e le accuse ai carabinieri, per ambire a una visione squisitamente nichilista. Le tessere del domino sono chiare e scure, ma per risalire servirebbe una sterzata decisa e corale, ch'è invece zavorrata da labirinti burocratici, disinteresse, fuga dalla responsabilità. Ma anche la benevolenza è inutile, perché sottile, indecisa, pavida.

Una nenia straziante, ripetitiva, ossessiva, che si trascina per alcuni giorni di calvario. Negli sguardi di Borghi e nei suoi lividi c'è tutto il male esistenziale di quest'opera, che non si mantiene purtroppo di uguale qualità in tutte le sue parti. La scrittura non è perfetta, pur con alcune vette devastanti, la regia è semplice, ma regala delle inquadrature notevoli. Senza Borghi in scena la ricchezza recitativa ne risente non poco, togliendo un pizzico di splendore a questo quadro nerissimo.

7.5/10

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