Berlino, Tokyo, Nairobi, Rio, Helsinki. Il professore. Non è una lezione di geografia, sono i personaggi protagonisti di questa bella serie tv spagnola. Il colpo del secolo, si potrebbe dire. Ma La casa de papel è molto altro e molto di più. Pescando a piene mani da alcuni degli esempi più alti di genialità “votata al male” vista in tv, come Breaking Bad e Death Note, unendola all'impostazione da trincea di Inside Man e alcuni spunti puramente originali, riesce a costruire un'opera estremamente affascinante, ostentatamente enfatizzata e massimalista in tutto e per tutto. Al vaglio scrupoloso, rivelva alcuni passaggi poco credibili, episodi non propriamente realistici, coincidenze miracolose e tempistiche che potrebbero lasciar perplessi. Ma sono le sbavature necessarie per dare vita a un'opera mastodontica, un tour de force di quindici puntate che su Netflix sono diventate ventidue.

[Da qui in avanti ci sarà qualche piccola anticipazione]

Il professore. Un genio autistico che non può non ricordare Walter White o il maniacale Kira: stessa intelligenza che sa prevedere, stessa finezza nel costruire un piano complicatissimo, tentacolare, ipertrofico. Con una differenza non trascurabile. Il professore non accetta la violenza come estremo rimedio a situazioni difficili. O meglio, la utilizza come deterrente, ma non accetta che qualcuno perda la vita. La sua figura si avvicina, pur con modalità diverse, a quella di Light Yagami perché mentre costruisce la sua cattedrale di crimine puro, fraternizza con le forze dell'ordine, penetra la base di comando. Penetra, soprattutto.

La sua squadra, intanto, lavora nella zecca di stato spagnola. Tanti ostaggi e la necessità di guadagnare tempo per stampare più denaro possibile. Nel frattempo la vita dei criminali si intreccia inesorabilmente con quella delle vittime. Le dinamiche sono diverse e variegate, come in una sottotrama quasi sentimentale in una fiction crime. I meccanismi emotivi si intersecano - con puntuale sagacia da parte degli sceneggiatori - con quelli della rapina. Allo stesso modo, fuori dalla zecca le azioni dell'ispettore Raquel Murillo, del suo braccio destro Angel, dell'ex marito e capo della scientifica, della madre che risponde al telefono e prende appunti, si riverberano sempre nei loro rapporti personali. E poi c'è il colonnello Prieto con i suoi modi ricattori, c'è l'opinione pubblica, i giornalisti.

La sensazione che emerge dopo un po' di episodi è quella che tutto può succedere, ma bene o male i nostri se la cavano sempre. Si percepisce poca spietatezza rispetto ai personaggi, a cui forse gli sceneggiatori sono troppo affezionati. E li si può capire, la galleria è davvero ricca, le figure a tutto tondo, con alcune vette altissime come quelle rappresentate da personaggi come Berlino (il migliore senza dubbio), il professore stesso, o Raquel. Col tempo questa eccessiva affezione viene superata, ma solo in parte. Chi finisce male lo fa con gran dispiegamento di onori, seppur diversissimi tra loro.

Gli ultimi quattro o cinque episodi sono legati in modo strettissimo e si sfrangiano addirittura su tre fazioni, con alcuni ribaltamenti non del tutto credibili ma decisamente gustosi, freschi, originali. Perché mai come in questo caso i cattivi rapinatori sono i buoni, stando a quanto spiegato dal professore: “Non rubiamo, facciamo un'iniezione di liquidità. Come quella fatta alle banche”. Una tesi un filo superficiale, ma innegabilmente simpatica. I partigiani, la resistenza, con le loro tute rosse, stampano denaro ex novo, non lo rubano a nessuno, e non uccidono.

Narrativamente, i flashback la fanno da padrone, sia per raccontare i preparativi del colpo, sia per chiarire i rapporti tra i vari personaggi. Alla lunga, e soprattutto in certi passaggi, diventano un po' stucchevoli e didascalici. Però la fluidità del racconto non risulta mai compromessa, solo a volte un po' zavorrata. Notevole comunque la rifinitura caratteriale dei protagonisti; sono proprio pochi quelli che restano bidimensionali. Nessuno uscirà dalla zecca uguale a come ci è entrato, i sequestratori, ma anche qualche ostaggio.

E se a volte si scade nella celebrazione delle donne forti, sono Berlino e il professore a dare il taglio più interessante dal punto di vista culturale e sociale. Un cinico, caustico, definito “stupratore”, insultato, più volte minacciato di morte dai compagni, Andrés de Fonollosa - Berlino è una figura narrativamente gigantesca, un mosaico di durezza e agrodolce ironia, un uomo senza futuro che rispetta rigorosamente le regole dettate dal professore e si eleverà nel finale quasi a guru, vera guida filosofica della rapina.

Il professore è un puro galantuomo, impeccabile nella costruzione del suo labirintico piano eppure semplicissimo dal punto di vista umano. Un bambino al primo amore e un genio del crimine, ma con una sua filosofia in qualche modo coerente.

Mi sono piaciuti molto gli attori, che ben impersonano donne “con le palle” come Tokyo e Nairobi, o comunque donne furbette e scaltre, come Mónica Gaztambide e Alison Parker. Requel Murillo oltre a essere un personaggio incredibilmente tridimensionale, è anche interpretata con profonda convinzione dall'attrice Itziar Ituño. Una donna di cui si percepisce quasi il sudore che scende per la tensione della rapina o per la passione di fronte a un uomo incredibilmente gentile.

Manca qualcosa per potersi confrontare con le opere serialità di primo piano assoluto. Manca quel tocco più raffinato nella regia, nelle musiche, nel montaggio. Da questi punti di vista, La casa di carta è un'opera semplice, quasi troppo semplice. Giusto qualche sequenza amplificata con musiche tonanti e il resto è tutto dialogo, costruzione diegetica con poca filigrana estetizzante. Poco male, una visione la merita sicuramente.

7/10

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