Ciao ragazzi, oggi volgiamo lo sguardo a Sud.

Continuando la nostra, ormai crescente, rassegna del cinema italiano "minore", mi sembra infatti opportuno soffermarmi sul prodotto più noto, e probabilmente più riuscito, del melodramma partenopeo, avente saldi addentellati nella tradizione della capitale vesuviana e portato sul maxischermo in questo ottimo film del 1980, per la regia di Adolfo Brescia.

Intendiamoci, innanzitutto, sul concetto di melodramma: si tratta di racconti drammatici, in cui il centro dell'intreccio è sovente rappresentato da conflitti generazionali e familiari, dal dissidio fra individui e tradizione, oppure ancora fra figli e genitori, spesso con parentesi relative a storie d'amore contrastate e disturbanti, direi quasi diaboliche nel senso tecnico del termine, nel senso che determinano una divisione fra l'innamorato ed il suo mondo, i suoi affetti precedenti, la sua stessa vita, suddivisa in un "prima" ed in "poi".

L'aspetto "melò" attiene essenzialmente al tocco italico che distingue queste messe in scena, la forzata caricatura dei personaggi, il frequente ricorso al cliché che, da un lato, fidelizza il pubblico e spinge i più a riconoscersi nei personaggi, dall'altro dona una chiara ed inconfondibile patina di kitsh alle storie raccontate.

Come possono intendere i lettori, si tratta dunque di una versione minore e localizzata delle grandi tematiche sottese ad ogni dramma e tragedia, dalla Grecia classica al Bardo inglese, qui condite di un tocco all'italiana, direi quasi impepate e speziate dalla rilevanza dei meccanismi familistici nel nostro Paese, e nel suo Sud in particolare.

A ciò si aggiunga il possente ruolo che la musica riveste in questi film, spesso tratti dalla sceneggiatura (di qui il volgare ricorso al termine "sceneggiata") di singoli pezzi, tipicamente tratti dalla tradizione partenopea. Ciò spiega, del resto, come sovente i protagonisti di questi melò siano cantanti di professione, prestati al cinema.

Come già osservato, "Zappatore" rappresenta l'apice del genere, compendiando il meglio ed il peggio del melodramma alla napoletana e costituendo, per i neofiti o per gli scettici, un ottimo bando di prova per comprendere le caratteristiche di questo cinema e di questa cultura, tanto amata nell'area napoletana quanto negletta, se non addirittura disprezzata, nel resto del Paese, e, soprattutto, nelle Regioni del Nord.

Il film ci narra di un contadino - appunto lo Zappatore della canzone di Libero Bovio - che si sacrifica per far studiare il figlio, giungendo pure a contrarre debiti con uno strozzino, emancipandolo dalle proprie origini meridionali e proletarie. Il figlio, tuttavia, oltre a compiere con successo gli studi si distacca dalla famiglia, fino a rinnegare il proprio passato, le proprie origini, ed in ultima analisi anche se stesso e le proprie radici. Il ripensamento, ed il nuovo incontro con il padre, sarà occasionato dalla malattia della madre e dal forzoso ritorno a casa.

Come appare evidente, troviamo ben descritta in questa trama l'essenza stessa della tragedia: l'armonia iniziale, anche se caratterizzata dalla povertà (tesi) - l'emancipazione verso studio, cultura, ricchezza in terra straniera (antitesi) - il necessario confronto con il proprio passato, il ripensamento, ed il superamento delle divisioni (sintesi). Il tutto condito dalle ineffabili e potenti melodie di un Merola mai così protagonista e salmodiante, nel rappresentare l'anima tradita della Napoli - o di tutto il meridione - che fu, di fronte alla sfida della modernità e, se vogliamo, del tradimento del proprio figlio e dei propri valori.

Il messaggio del film appare tanto potente quanto ambiguo, e tale da non poter liquidare "Zappatore" come una semplice epitome di certo trash all'italiana: si coglie, infatti, da un lato, la volontà di emanciparsi da alcune tradizioni sentite come negative, o comunque limitanti, che spesso si infrange con un certo conservatorismo di fondo, con un attaccamento alle proprie radici che, da un lato, ha l'effetto di rassicurare l'individuo, facendolo sentire come la parte di un tutto (la famiglia, la comunità), dall'altro tarpa le sue ali, la sua creatività e la possibilità stessa di trasformare e migliorare il reale.

Trovo, francamente, che quanto rappresentato ben descriva i drammi di tanti ragazzi, del Sud ma non solo, che spesso avvertono profondo, in sé questo dissidio fra voglia di andarsene (magari all'estero) e necessità di rimanere saldi a casa, o nei dintorni di essa: se ci pensiamo, è un po' il mito dei bamboccioni, ritornato di prepotente attualità nello scorso autunno, ma assillabile a quella che gli esperti definirebbero come una vera e propria "invariante" del mos italicus.

Vabbè, lasciando i sofismi e soffermandomi sull'aspetto tecnico del film, non posso che rimarcare una certa approssimazione del lavoro, cucito sul protagonismo debordante di un Merola, ed al contempo la grande presenza scenica del bravo cantante partenopeo, oggi giustamente rimpianto. Attorno al caro Mario spiccano le presenze di caratteristi di lusso, come Aldo Giuffrè e Regina Bianchi, oltre ad una Mara Venier ancora non presaga dei successi che la avrebbero arriso nel decennio successivo. Nella media la regia di Alfonso Brescia, ovviamente tesa ad assecondare l'evoluzione della storia e la performance dei protagonisti.

In sintesi, un film da 4/5 nella mia classifica ideale, da 2/5 abbondante anche nella scala obiettiva che mi impongo di seguire a scopo dei lettori.

Alla prossima!

 Specialmente Vostro

 Il_Paolo

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