Alice, Alice canta Satie, Fauré, Ravel. Mélodie passagère, 1988, Emi

Costretti da un virus recalcitrante a un ricovero coatto tra le quattro mura della nostra avita magione, proprio oggi, compulsando parte della nostra sterminata discografia, abbiamo potuto constatare, con stupore appena dissimulato, che in essa risultano unicamente opere di autori bianchi (a parte qualche risibile eccezione: rare suppellettili aborigene e qualche carabattola amerindia, tenute lì più che altro per esigenze di buona creanza). Tout se tient. La organicità, la compattezza e la integrità etnica della nostra pletorica collezione è quindi garanzia, riteniamo, di un giudizio equilibrato sui rapporti tra musica e civiltà; questi caratteri, peraltro, furono a suo tempo provvidenzialmente salvaguardati dalla palingenetica cessione a forfait (agli stravaganti bancarellieri di P.zza della Repubblica) di una nutrita silloge di demistificatori jazzisti: umanamente suggestivi, tecnicamente dotati, financo utilissimi per un’apericena snob alle pendici del Monte Soratte, ma –ci duole ribadirlo— culturalmente letali.

In effetti, la grande tradizione europoide, prima di accartocciarsi nelle alienate decostruzioni di qualche balordo senza arte né parte (il nemico è interno! Altro che negri…), produsse, come febbrile canto del cigno, partiture che introiettavano, sulla base di un delicatissimo gusto melanconico che già profetava il collasso di Occidente (inscritto, d’altra parte, nelle stesse parole: nomina omina), l’intimismo minimalistico che poi, coll’apocalittico volgere di Kairos in Kronos, diverrà maniera presso molteplici miserabili mestieranti. Una sorta di “Ultima Thule” che, con processo alchemico subdolamente e surrettiziamente rovesciato, trasfuse l’oro colato della Tradizione nel piombo di una usurocrazia sonora per monadi archeofuturiste.

Poco dopo il sensazionale “Park Hotel” (1986), e subito prima dei magnificamente definitivi “Il sole nella pioggia” (1989) e “Mezzogiorno sulle Alpi” (1992), Alice, la più sensibile cantautrice italiana di tutti i tempi (non le si può però perdonare la recente collaborazione con il luciferico Tiziano Ferro, su cui stenderemmo un velo impietoso), prosegue pei suoi leggiadri percorsi di nicchia gnostico-elegiaca, nei quali stratifica con sobrietà inconcussa una sensibilità che attinge al miglior postromanticismo, integrandola e riformulandone gli afflati con notazioni e architetture solo superficialmente classiche. La dialettica forma-sostanza qui mostra tutta la sua vacuità, anche in senso metafisico.

L’innegabile, proverbiale integrità dell’itinerario in primis estetico di Alice è analogica rispetto alla compiutezza della nostra collezione; e da questa trae spunto la nostra meditazione su quella. Ferro può esser allora considerato alla stregua di una episodica chute, che nella nostra enciclopedica silloge è rappresentata dalle sporadiche corbellerie etniche, pure utilizzate, con sovrano distacco, a mo’ di eccentrici ammennicoli.

Il titolo del magnum opus della graziosissima chanteuse di Forlì è tratto da un verso del sommo praghese R.M. Rilke (infinitamente meno popolare del suo concittadino, l’impiastro psicanalitico F. Kafka, che alcuni tuttora si ostinano a definire un uomo di lettere); la materia arditamente ritradotta è tratta da tre fondamentali compositori francesi, E. Satie, G. Fauré, J.M. Ravel, in certo modo musicalmente affini e vissuti nel medesimo arco temporale (seconda metà del XIX-prima metà del XX secolo; è lasciato fuori C. Débussy, forse per i suoi eccessi simbolistico-decostruttorii); il fine del discorso metamusicale –ulteriore, sacrosanto e sfumato dileggio alla barbarie quantitativa della modernità-- è quello di restituire e trasfigurare i quasi imperscrutabili movimenti dell’anima occidentale, colta, nel momento del suo esiziale tramonto, a contemplare le rovine “culturali” delle terre avite; l’esito, pur sempre e per sempre in itinere, è immacolato (nella accezione escatologica del lemma).

Tra le romanze dell’opera, acquarelli per voce e pianoforte spesso appena accennati, si segnalano “Elégie”, da Satie, che manifesta un limine esistenziale già patentemente incrinato: “Le seul remède sur la terre,/à ma misère, est de pleurer”; “Après un rêve”, da Fauré, più sostenuto, con bei vocalizzi e subitanei passaggi di tono della forlivese; ovviamente, la inquietante “Gnossienne n. 4”, da Satie, riletta con zelo rigoroso, ma non filologico; “Spleen”, da Satie, minuta e raccolta, ma quasi esplosiva nella resa vocale; “Chanson médiévale”, da Satie, con un lontano sentore di malinconica speme; “Kaddish”, da Ravel, con testo tradizionale ebraico un poco stucchevole, ove Alice sembra quasi una L. Gerrard senza fisime primitivistiche (ecco la differenza tra l’avere i natali in Romagna o in Australia); ancora, le sublimi inquietudini della “Gnossienne n. 1” da Satie; ed il gran finale con la eccelsa “Pie Jesu”, intelligentemente posta in clausola, tratta dalla “Messa di Requiem Op. 48” di Fauré: “Pie Jesu Domine/Dona Eis Sempiternam Requiem”. Alcuni scherzi centrali, con un ché di grottesco, si potevano forse evitare.

La sonorizzazione di un recesso cruciale della storia come dramma micro- e macrocosmico, l’epica del destino e l’elegia della forma: l’Europa, sconfitta nelle espressioni transeunti del divenire, trionfa per sempre nella metastoria.

Carico i commenti... con calma