Chi scrive questa recensione non è particolarmente amante dell'elettronica, né tantomeno di certe (e a dir poco controverse) soluzioni timbrico-strumentali che hanno caratterizzato gran parte della musica prodotta negli anni '80. Analoga diffidenza è stata palesata da molta critica, ed ha finito col condizionare (in negativo) il giudizio complessivo espresso sulle "nuove proposte" di quegli anni; "anni di regressione", si è detto, e guardando a certo (pessimo) Mainstream Pop del decennio sarebbe difficile ribaltare una simile considerazione, ampiamente comprovata e giustificata dalle tonnellate di "immondizie musicali" (faccio mie le parole di Battiato in "Bandiera Bianca") prodotte, purtroppo, anche da artisti d'un certo rilievo. Del resto, dire "elettronica" equivale spesso a dire "freddezza", "impalpabilità", "banale e ripetitiva sequenzialità"; istintivamente si è portati a pensare alla scontata iterazione di ritmiche binarie, ai "quattro quarti" canonici e ossessivi divenuti religione per schiere di musicisti senza tecnica né fantasia. Io stesso, tecnicista per filosofia (il che non sarà ritenuto un pregio da tanti), ho più volte pensato che molti di quegli pseudo-musicisti avrebbero fatto meglio a scegliere altri mestieri, tanta e tale la pochezza denunciata dai prodotti di un periodo che, al contrario, attende oggi una seria rivalutazione. Una rivalutazione che tenga finalmente conto di quelle proposte artistiche cui, all'epoca, non furono (o lo furono solo in parte) tributati i giusti meriti, bollate dell'etichetta di "alternative" e di gran lunga più interessanti, proprio perché estranee all'oscena serialità imposta dall'industria discografica e da un culto dell'immagine ormai imperante, pervasivo, onnipresente.

Di fatto l'elettronica non "uccise", non cancellò quanto di buono i decenni precedenti avessero espresso: fu sì arma micidiale nelle mani di tanti giovani ignoranti di musica e poveri di idee (il Punk aveva diffuso la concezione per cui tutti, ma proprio tutti, potessero imbracciare uno strumento), ma quando incontrò l'astrale ed irraggiungibile genialità di intelletti "superiori" seppe produrre risultati di un lirismo, di una sensibilità ed autenticità straordinarie; inevitabile scomodare monumenti del livello di David Sylvian (con e dopo i Japan) e di Ryuichi Sakamoto, ma la presente recensione la voglio dedicare ad uno dei tanti progetti partoriti dalla mente di un musicista fenomenale, meritevole di rientrare nella mia personalissima categoria dei "cinque artisti più influenti degli ultimi trent'anni"; musicista sostanzialmente autodidatta in quanto a formazione, instancabile e vorace ricercatore per filosofia, lontano da un'interpretazione puristicamente accademica delle forme musicali come anche dal più rigido intellettualismo "di laboratorio": parlo di Arto Lindsay, esponente di riguardo della scena avanguardistica newyorkese anni '80, chitarrista e cantante ma soprattutto "teoreta" di proposte sorprendenti per modernità e qualità d'insieme. 

Qui non ci interessa il Lindsay dei DNA, né quello dei Lounge Lizards o dei Golden Palominos, che pure ho in programma di discutere nell'ambito di ulteriori contributi, ma il Lindsay più controverso ed elettronico degli Ambitious Lovers, disinvolto ed intuitivo utilizzatore delle moderne tecnologie nonché intelligente interprete d'eccezione delle tendenze dell'epoca; inizialmente nato come trio vocale con la partecipazione di David Moss e Mark Miller, il gruppo si amplia con gli ingressi del tastierista Peter Scherer e di Anton Fier, batterista che non necessita di presentazioni. Con loro, il Nostro dà forma a una singolare dialettica della sintesi, in cui ad assumere un ruolo determinante sono quegli elementi "etnicamente connotati" di musica brasiliana destinati a diventare il marchio di fabbrica dell'occhialuto chitarrista, che in Brasile ha trascorso diversi anni quand'era giovanissimo; "Etno-Funk" sul modello di David Byrne, si è (a ragione) detto, pur senza trascurare il contesto, marcatamente Synth-Pop, in cui i pezzi si sviluppano. Largo (e inevitabile) spazio a programmazioni e batterie elettroniche, ma anche a strumenti peculiari della tradizione percussionistica brasiliana come l'agogo, il pandeiro e il surdo: non a caso in "Envy", album di debutto della nuova formazione datato 1984, ad accompagnare Lindsay sono anche quattro musicisti di Bossa Nova (Reinaldo Fernandes, Toni Nogueira e i fratelli Claudio e Jorge Silva).

Le atmosfere prodotte da questo singolare e variegato ensemble sono pervase dalla consueta, alienante negatività del movimento "No-Wave" che aveva avuto in Lindsay uno dei principali animatori ed interpreti, e l'approccio strumentale si ispira ad un minimalismo "deviato", ossessivo, apparentemente dissimulato da soluzioni timbriche familiari all'"easy listening" radiofonico ma in realtà radicale, estremo, così da rendere l'ascolto dell'album tutt'altro che agevole e lineare. Momenti di scheletrica ed inquietante (oltreché riflessiva) rarefazione si alternano a squarci di brutale, animalesca aggressività, in cui naturale complemento al nevrastenico chitarrismo del leader sono le particolari modulazioni della voce, anch'essa "strumento" nel pieno senso del termine e aperta a inusitate contorsioni e stravolgimenti. Il tutto è sottoposto all'opera di devastazione di un'estetica deformante, isterica, disfattista, capace di destrutturare la canonicità delle regole compositive e (ma è forse superfluo sottolinearlo) le tradizionali linee di confine fra generi. Definire semplicemente "Post-Punk" il lavoro in questione, come pure si è fatto, non è solo riduttivo, è soprattutto offensivo; e non perché io attribuisca al Punk una connotazione necessariamente negativa, ma perché è difficile non tener conto dei riferimenti a certa Fusion elettronica e alla nascente World Music, pur nella consapevolezza dell'innegabile relatività di simili etichette: più che la New Wave elettronica di matrice inglese, io sento echi di quello che saranno, di lì a poco, il Miles Davis elettronico di "Tutu" e lo Zappa tecnologico di "Jazz From Hell".

L'uso di synclavier e programmazioni digitali nell'iniziale "Cross Your Legs" non lascia dubbi: il Funk è solo uno dei tanti ingredienti aggiunti nel calderone di stili che si ascolta, nell'ottica di uno sviluppo movimentato, quasi "ballabile" che improvvisamente incontra il concitato turbinio di una sezione percussionistica; "Trouble Maker" si evolve fra pulsanti linee di synth-bass e un delicato "continuum" tastieristico capace di richiamare certe intuizioni "afro-oriented" della coeva Fusion di Al Di Meola, mentre anti-convenzionale, furiosamente dissacrante è l'uso della voce. Il Samba "carnevalesco" di "Pagode Americano", cantata in portoghese, introduce al triviale sperimentalismo di "Nothing's Monstered" e alle spettrali asimmetrie di "Crowning Roar". Eccellente, finissima è l'attenzione per i dettagli micro-ritmici della torbida "Too Many Mansions", con le sonorità del basso modulate a creare un suggestivo effetto "simil-Fretless" fra i singhiozzi vocali di Lindsay, così come irresistibile è l'Elettro-Funk sincopato di "Let's Be Adult". Seguono due brevi parentesi ("Venus Lost Her Shirt" e "My Competition"), nonché un brano per sole percussioni ("Badù"), prima di quello che è senz'altro il momento più intenso dell'intero disco: la straordinaria (e personalissima) rilettura di "Dora", canzone brasiliana scritta nel 1945 e qui riproposta in un'emozionante versione dominata dalle sonorità del piano elettrico e dalla voce, più che mai ispirata, di Lindsay. Nuova parentesi percussionistica ("Reberibe"), prima della concitata e iper-elettronica chiusura di "Locus Coruleus", impressionante sequenza di evoluzioni ritmiche molto "zappiane".

Quattro stelle per un album da cui difficilmente gli amanti del personaggio, e non solo, potranno prescindere.  

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