Meteopatico e soggetto a cambiamenti d’umore piuttosto bruschi, devo confessare che l’Autunno è sempre stata una stagione, non solo atmosferica, che stimola in me carotaggi personali che si susseguono con una certa sistematicità. In queste esplorazioni interiori, spesso vane, cerco di portare alla luce cose, sensazioni e situazioni “dimenticate” da tempo ed asciugarle al sole della mia maturità (quanto meno anagrafica) per trovare, se non un senso, almeno un ingarbugliato o parziale fil rouge della mia storia personale.


In Francia, nel 1892 e dunque nel pieno autunno del Simbolismo, comparve una piccola raccolta di poesie di un autore poco più che ventenne, allora semi-sconosciuto. Queste composizioni, facevano il paio con l’esordio in prosa di un anno prima, “I Quaderni di André Walter”, ed hanno rappresentato, oltre ad un completo fiasco commerciale, i primi vagiti poetici di quello che diventerà uno dei letterati più fini ed influenti della prima metà del ‘900.


Personalità inquieta ed errabonda, fervente ed introspettiva, di rigidissima educazione puritana che andò puntualmente a sbattere contro un’ identità sessuale ambigua e che il poeta stesso per molto tempo faticò ad accettare, André Gide, trasferiva nella scrittura i laceranti e spesso insanabili contrasti che portava dentro di sé.


Tutte queste inconciliabilità, che sono state il pungolo costante della sua opera, sono presenti in nuce anche qui, nelle “Poesie di André Walter”. Composizioni dimesse e disadorne da ogni fronzolo intellettualistico, queste venti poesie paiono gocce di rugiada che lentamente scavano all’interno di Gide; pagine di un diario dove le opposizioni ombra/luce, meditazione/azione, carne/spirito cercano di accordarsi in uno spartito che possa alleviare le pene del poeta. Un Esistenzialismo ante litteram dove si abbevereranno i vari Sartre o i vari Camus.


I simboli, depotenziati da ogni carica mistica ed evocativa, sembrano riflettere piuttosto la stagnazione spirituale di Gide, impantanato fra dubbi e scrupoli. I colori usati per dipingere questi acquerelli, sono quelli pallidi della luna e quelli soffusi di morenti lampade ad olio. L’innamorata con cui il poeta si confronta, risulta essere una specie di suo doppio, una sua emanazione che allarga le crepe del suo scricchiolante dogmatismo religioso.


Poesie atonali ed inespressive, dove Gide sembra quasi soffrire di un eccesso di coscienza e dove le impercettibili oscillazioni del suo spirito, scandiscono un ritmo interiore in totale sottomissione ed in parziale dissonanza da quello austero ed indifferente della Natura. Personalmente, per eleganza stilistica, per immobilità d’ambientazione e per solipsismo reiterato, questo libro mi ricorda il secondo atto de “Il Giardino dei Ciliegi” di Cechov, dove i personaggi, riuniti al limitare dell’atavico giardino, pensavano a voce alta e, rispondendo ciascuno alle domande degli agli altri, facevano attenzione solamente a quello che loro stessi stavano dicendo.


Nonostante il Gide maturo abbia scritto opere di caratura molto superiore a questa (penso alla vorace ricerca di sé de “L’Immoralista” o agli equilibrismi stilistici de “I Sotterranei del Vaticano”), a mio modo di vedere, riavvolgere il nastro e ritrovare il capo del filo, è un’operazione necessaria non solo per quel che riguarda noi stessi, ma anche per conoscere il percorso di certi grandi artisti.


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