Che Chris Martin abbia definito gli Arcade Fire la band migliore del pianeta, come campeggia da mesi sul sito dell'evento, non ce ne può fregar di meno. A noi importa finalmente vederli dal vivo, dopo che due anni fa perdemmo il loro esordio italiano perché in funesta concomitanza con una vieppiù funesta Milan-Liverpool. E visto che l'album di quel tour si chiamava "Funeral", c'era da toccarsi i coglioni sul serio. Stavolta tutto liscio: Milan-Liverpool è andata alla grande, nessuna sovrapposizione con altri eventi, niente ielle da scacciare. Gli Arcade Fire a Ferrara, punto.
Il palco è nella declinante e acciottolata Piazza Castello, fronte al Castello Estense. Menzione per il gruppo spalla: A Classic Education di Bologna. Dei Maximo Park/Franz Ferdinand de noantri. Very british. Menzione anche per il pubblico (numeroso, ma senza riempire la piazza): italiota da ogni dove, scarsamente yankiezzato, scarsamente turistico.
Gli Arcade Fire attaccano alle dieci, stessa cifra dei componenti sul palco. Lo sfondo è un enorme telone bordeaux, molto teatrale. Sulla sinistra, dietro la postazione rialzata dell'organista, c'è un'istallazione che riproduce un organo di chiesa. Cinque piccoli schermi sono distribuiti lungo il palco: vi saranno proiettate prospettive varie del concerto e altre amenità. Sullo sfondo campeggia, rossa, la bibbia al neon dell'ultimo disco. Davanti, sei mega-ceri fosforescenti fanno da divisorio tra pubblico e band. Scenografia molto chiesastica: God is a dj and the dj is Win Butler. In realtà, nessuna deificazione: lo show è preceduto dalla proiezione di immagini di una predicatrice-bambina intenta ad addottrinare una folla immensa. Per dire: non fate anche voi la folla pecorona. È difficile dirlo a un pubblico che è venuto qui per te. Come è difficile cantare "My Body Is A Cage" di fronte alla gente che ti fa festa: "I'm standing in a stage of fear and selfdoubt, it's a hollow play but they'll clap anyway". Ha senso? Forse sì.
Il fatto è che i canadesi hanno pubblicato due dischi diametralmente opposti l'uno all'altro. Quanto il primo è variopinto, festoso, spumeggiante, estroverso, tanto il secondo è rabbuiato, autistico, compunto, incupito. Difficile accostare i due stili sullo stesso palco, ed è inutile dire che stasera è il secondo ad avere la meglio. Si comincia con "Keep The Car Running", con Régine alla ghironda. Gli strumenti usati dalla band sono i più improbabili. I cambi e le sostituzioni sono difficili da seguire: tutti suonano tutto, con l'eccezione delle due fedeli violiniste. In tre canzoni Régine suona la batteria (?). Tra queste, "Ocean Of Noise" è la più intima e scura. Uno dei momenti più abissali.
La prima parte lascia molto spazio al nuovo disco, che viene suonato nella sua interezza con la sola esclusione di "Windowsill". Spiccano, direi, una "Neon Bible" quasi sussurrata, una "Intervention" davvero epica e una "(Antichrist Television Blues)" da brividi, con il medesimo finale fulmineo e fagocitante del disco. I pezzi di "Funeral" sono distribuiti qua e là, più fitti nella seconda parte: subito "Haiti", con largo spazio ai cori del pubblico, "Laika", e i grandi classici: "Tunnels", con una disco-Régine alla batteria, e in coda, unite tra loro nella fase più esaltante del concerto, "Power Out" e "Rebellion". Bis con "My Body Is A Cage" e "Wake Out".
La voce di Butler, che su disco sembrerebbe più insicura di quella di Régine, dal vivo, invece, rende molto di più. Régine spesso si perde, e ha bisogno (letteralmente) di un megafono per bucare l'ammasso di strumenti. È l'unica pecca, direi: voce spesso sommersa. Quanto ai musicisti, nulla da dire. Spicca il folle chitarrista rosso Richard Parry, che ogni tanto va a suonare un contrabbasso riverniciato color argento. Durante "Laika" si mette a suonare un casco (?), picchiandolo con le bacchette per un paio di minuti con somma convinzione, ma lontano dai microfoni. Anarchico a suo modo.
Altre due piccole considerazioni: sobrio il rapporto col pubblico, in stile neonbiblesco. Poche parole tra un pezzo e l'altro. Butler dichiara che il verso "Don't lick your fingers when you turn the page" in "Neon Bible" è preso da un passaggio di Umberto Eco. L'indie letterato si stupisce. Régine dichiara il proprio amore per Ferrara, visitata il giorno prima con gli organizzatori del concerto. Forse parole di circostanza, forse no: la città è bella davvero, e la location è senza dubbio suggestiva come poche.
Ultima cosa: vale la pena godersi anche lo spettacolo del soundcheck. Bello, verso le sei, beccarsi Win e il rosso che improvvisano "Personal Jesus", con il rosso che fa le percussioni sul contrabbasso argentato. Chicca. Anche perché la piazza era ancora aperta, e si era fermato più di qualche vecchietto ferrarese che guardava incuriosito e chiedeva chi fossero quei ragazzotti ai pochi seguaci sparsi. A un vecchio inconsapevolmente indie con la polo a righe orizzontali una tizia risponde sicura: un gruppo americano (e agli Arcade saranno venuti i brividi di orrore). E lui, con spiccato accento locale: ah, son troppo difficili da pronunciare. Orgoglio e spirito ferrarese. Il vecchio è stato lì un po', poi è rimontato in sella alla bici e chissà dove è andato: da Chris Martin, forse, a dirgli che aveva ragione?
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