Se per caso un giorno vi venisse l'insana idea di legare vostra sorella ad un palo ed appiccare un rogo con l'intento di degustarvi la sublime visione della mal capitata che, ardendo, strepita e s'agita disperatamente fra le fiamme, vi consiglio, come degna colonna sonora per le vostre gesta, questo "Cantar de Procella", mattone gotico che non potrà non alimentare lo spirito inquisitorio che brucia latente in voi.
Gli Arcana, progetto punta dell'etichetta svedese Cold Meat Industry, sono i figliocci oscuri dei Dead Can Dance: Peter Pettersson (sintetizzatori, tastiere, percussioni e voce) e Ida Bengtsson (voce) ripercorrono assai fedelmente le orme di Brendan Perry e Lisa Gerrard, tanto che a tratti pare di trovarsi avvolti nelle atmosfere dell'insuperabile "Within the Realm of a Dying Sun". Ma invece di librarsi alti nel cielo e compiere spericolati voli metafisici, i due svedesini preferiscono volare bassi, strisciare nel fango dei borghi medievali, scendere scale umide ed addentrarsi in angusti sotterranei infestati da ragnatele e strani arnesi.
Nelle segrete di un castello, lontano dalla grazia di Dio (ma molto vicino al suo rigore), si materializza la musica degli Arcana, corridoio nel Tempo che intende portarci lontano, in luoghi privi di speranza, dove forse (dico forse) non incontreremo la Morte, ma di certo sentiremo asfissiante e minaccioso il suo incombere. Il brivido del mistero, il fascino dell'arcano, l'agonia dell'attesa: dodici quadri lungo una galleria lugubre attraversata da un polveroso tappeto rosso vermiglio e scortata da screpolate pareti di pietra. Un sentiero sepolcrale che intende condurre nei luoghi del Destino, terribili stanze in cui consumeremo la nostra prigionia.
"Cantar de Procella", licenziato nel 1997, supera di gran lunga il medievaleggiante debutto "Dark Age of Reason", approssimandosi ulteriormente al dark-ambient di Peter Andersson (mente dei Raison D'être e padre-padrone della Cold Meat Industry), ma senza perdere la vena gotica che da sempre contraddistingue il duo.
Gelidi sintetizzatori, suoni ripetuti in loop, il battito secolare dei tamburi, i lenti rintocchi delle campane. La ruggine e il gelo delle catene che ci imprigionano e ci raschiano la pelle: dodici fosche liturgie che s'insinuano ipnotiche nella nostra mente, come dense gocce d'acqua putrida che, filtrando dalle fessure un tetto fatiscente, picchiettano, una dopo l'altra, sulla nostra testa. Profanandola, perforandola, penetrando fin dentro l'anima.
Dodici supplizi che ci vengono inflitti con la metodicità di una tortura. Gesti e sguardi e parole che crescono in intensità, o indulgono immoti nella loro severità, al fine di strapparci una confessione.
O condurci alla morte.
I sintetizzatori di Pettersson vanno ad ergere acuminati punteruoli di ghiaccio, fiati tremebondi e archi minacciosi che scavano nella pelle e nell'anima come un coltello in una ferita ("The Opening of the Wound"), talvolta ammorbati dalla gelida voce del pianoforte ("Gathering of the Storm"), dal macilento marciare del clavicembalo ("La Salva de Profundis"), dall'organo maestoso e tonante di una chiesa che cade a pezzi ("Aeterna Doloris").
I mesti gorgheggi di Pettersson, che ama le sovra-incisioni e così ricreare desolanti cori di inamovibili agenti dell'Inquisizione, travolgono l'ascoltatore attraverso formule e salmi ripetuti fino all'ossessione: nenie immortali che ci ammoniscono, che disegnano desolanti canti di malinconia, che gravano sulle nostre spalle come condanne a morte.
O atroci torture.
Relegati nello sfondo gli svolazzi eterei della Bengtsson, un esile soprano sempre pronto a ricamare sui cori polifonici di Pettersson, ma che saprà tuttavia ritagliarsi suggestive parentesi da protagonista: come la toccante "The Song of Solitude (The Cry of Isolde)", un breve intermezzo a cappella, o la monumentale title-track, che, arricchendosi progressivamente di voci ed orchestrazioni, finisce per divenire, strato dopo strato, un ammaliante mantra dall'infausto potere ipnotico (provate a guidarci di notte senza distrarvi, se ci riuscite!).
O come la struggente "The Tree Within", chiamata a chiudere i 47 minuti di questo "Cantar de Procella": un'opera che potrà sì farvi dannare per la monotonia (lo schema, più o meno, si ripete in tutti i pezzi, e tutti i pezzi reiterano le medesime, sconsolanti atmosfere), ma che non potrà non rapirvi, estraniarvi e condurvi altrove, via da questo mondo, con la mente e con il cuore.
Gli Arcana affineranno negli anni la propria arte, ma a noi piace, come primo passo, consigliare questo secondo lavoro, forse ancora un po' rozzo, ma che ancora non pecca di manierismo e che già è in grado di palesare quella maturità e quella professionalità che, di lì a poco, garantiranno al duo (non più duo) l'accesso ai piani alti della musica gotica dei nostri giorni.
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