La Fata Turchina, disperata, cerca Pinocchio e lo trova seduto sulla riva di un fiume, immobile e con lo sguardo perso nel vuoto. Gli parla tra le lacrime e il sorriso, dicendogli che il teatro e la compagnia sono la morte. Ma la Fata è incinta e viene sequestrata da un misterioso tizio che la porta a partorire in un casolare abbandonato, pieno di bare. Partorisce un feticcio di legno nero, accudito da una specie di strega-matrigna nera. Dopodiché Pinocchio, che come saggio consigliere ha un coniglio in marsina invece che un grillo parlante , affronta le tentazioni della vita da umani, sperimenta le voglie della carne e del sesso e impara una lezione che forse Collodi non avrebbe condiviso, ma che oggi come oggi sembra inevitabilmente assennata, benché foriera comunque di una inevitabile disgraziata fine. Solo i burattini sono felici: incarnarsi non è un buon affare e non vale la pena.
Armando Armand, regista torinese indipendente, già conosciuto per il controverso "La loggia" del 2014, realizza un mediometraggio a tinte forti e senza mezze misure, portando la figura universale del burattino collodiano in un girone infernale di algide periferie urbane e di sottili tour de force concettuali. Girato con un taglio che mescola artigianalità tangibile e visionaria improvvisazione, tra corpi nudi, sequenze lynchiane, deliri sadomaso e continui ammiccamenti alla cultura industrial, l'autore non si preoccupa di scalfire con l'unghia del grottesco una figura leggendaria e formativa che ha assunto nel tempo una levatura quasi cristologica. Pinocchio ovvero le umili origini e l'impossibilità di riscattarsi dallle malevole tentazioni del mondo degli umani, se non pagando il prezzo della propria vita. Solo che il suo sacrificio non salva l'umanità, non ci arriva neanche vicino a salvare dal peccato il mondo degli umani.
In superficie sembra che il regista abbia voluto sfruttare le tinte forti per tenere focalizzata l'attenzione dello spettatore. Ma la suggestione visiva del film è un tutt'uno con la lezione che voci fuori campo via via rivolgono a Pinocchio (il coniglio? Geppetto?). Una lezione non certo moralistica, forse provocatoria, ma sicuramente ineluttabile. Anche se poi lo spettatore difficlmente si libera dalla seduzione della carne e del sangue, lo spettatore che ben si vede rappresentato nella scena finale, quella nel teatrino dove Pinocchio trova in qualche modo la quadra - per quanto sciagurata - a tutti i dilemmi della sua sciagurata esistenza. Spettatori con il viso coperto da mascherine nere, pronti a emozionarsi e a scaricare i più biechi pruriti mentre filmano tutto con lo smartphone. Ma in verità non è provocazione, perché Armand non fa che rendere funzionale l'onda lunga della perversione umana, su cui fluttuano e rimbalzano le voyeuristiche morbosità di chi attende le crude sorti del freak, del diverso, del marginale. Pensando di arrivare a provare compassione, ma alla fine godendo appagato del massacro e del sacrificio.
Il teatro è il luogo catartico deputato a regalare anche bel un pugno nello stomaco, perché no? Che sembra far male finché il siaprio non si richiude e il dolore scompare. La messa in scena per gli umani è finzione con un potere realistico eccezionale. Per il burattino è realtà vissuta con l'illusione della finzione. Solo rimanendo al di qua del sipario ben chiuso, senza lasciar contaminare il palcoscenico dallo sguardo, dalle voglie, dai vizi di "quelli di carne", un burattino può essere tranquillo e sereno. Viceversa conoscerà la tentazione e diventerà vittima delle logiche del mondo al di là del sipario.
Molto curati costumi e maschere, così come il trucco. Bella la sequenza con i veri burattini. Attori mediamente passabili e in linea col tipo di produzione, con qualche buona prova di spicco tra cui la Fata gravida che nella scena del parto mortifero si capisce che è davvero incinta.
Musiche azzeccatissime di Deca, con il valzer tema principale del film che è autentica droga sonora: ascoltato una volta non te lo levi più dalla testa.

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