"Twilight Of The Innocents" sarà, stando alle dichiarazioni del leader Tim Wheeler, l'ultimo full lenght dei suoi amati Ash. Questo perché l'ottima band nord-irlandese ha optato per una scelta singolare; pubblicare, d'ora in poi, solo ed esclusivamente singoli. Indipendentemente da questa presa di posizione francamente discutibile, l'amaro in bocca resta eccome, perché il nuovo lavoro è, a conti fatti, la cosa migliore che i nostri hanno partorito dal capolavoro "1977".

A partire dall'apertura dichiaratamente foofightersiana "I Started A Fire" (il titolo del pezzo durante la lavorazione era però "Girl Who Can't Be Owned"), il disco è un viaggio in dodici tracce tra il passato, il presente ed un ipotetico futuro del trio irlandese.

La prima domanda è; Charlotte Hatherley aveva portato un buon contributo a livello tecnico e visivo (gran bella ragazza), ma la fan-base degli Ash le puntava il dito contro accusandola di aver "annacquato" di pop le composizioni di "Wheeler". Cosa è successo alla musica dei tre col suo abbandono? Beh, le composizioni pop-oriented continuano ad affiorare qua e là nei solchi dell'lp (vedi "Shadows" o "Dark And Stormy"), ma sono controbilanciate dal guitar pop-rock folgorante di numeri come il singolo "You Can't Have It All" o "Palace Of Excess", quest'ultima dotata di un velocissimo assolo che mette in mostra l'insospettabile bravura tecnica di Tim alla sei corde.

Ovviamente presenti le solite spaccaclassifiche, basti pensare al nuovo singolo "Polaris", notevole commistione tra un giro di piano alla Chris Martin, una bellissima e spessa patina di archi e una batteria perennemente in controtempo (salta subito alla mente, anche se in maniera molto vaga, la corganiana "Tonight, Tonight"). Incisiva, anche se piuttosto scontata, "End Of The World", ballata tipicamente british pop già schedulata come terzo singolo. Si arriva quindi, tra flirts col pop-punk da classifica ("Blacklisted") e retaggi del periodo very-alternative di "Nu-Clear Sounds" (la ruvida "Shattered Glass"), alla conclusione capolavoro della titletrack, tripudio di sintetizzatori, archi, chitarre ed improvvise rullate di batteria dominate da una prova vocale notevole di Tim Wheeler.

Alla fine della fiera, si è combattuti fra il rimpianto per quello che potrebbe essere in futuro e probabilmente non sarà e la gioia per l'ottima chiusura di una carriera più che positiva fino a questo momento. Aspettando il singoletto a cadenza bimestrale, come una bustina di zucchero da dare al cavallo per tenerlo buono.

Infinita tristezza, ma che grande disco.

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