Ieri sera, al Palazzo Delle Esposizioni in Via Nazionale a Roma, c’era una rassegna cinematografica. La fanno due volte al mese, un martedì sì ed uno no. La rassegna si chiama: “A qualcuno piace classico”. Uno di quei qualcuno, sono senz’altro io.

L’ingresso è gratuito, ma per entrare, devi prenotare sul sito del Palazzo, il giorno prima, a partire dalle 08:30 del mattino. Io sta cosa la so, ma lunedì mattina me ne ricordo solo alle 11 e spicci. Entro, vado per prenotare e leggo: POSTI ESAURITI.

Non tutto è perduto. So per esperienza che, mediamente, dai 10 ai 20 spettatori poi disdicono o, semplicemente, non si presentano. E così, 5 minuti prima dell’inizio, fanno entrare tutti quelli in fila fuori che non son riusciti a prenotare.

Quindi mi son presentato 40 minuti prima per avere la priorità, ma il tipo mi dice che hanno ricevuto parecchie disdette e quindi posso entrare fin da subito. Meglio, perché così mi scelgo il posto.

Sono curioso, ho aspettative. Un mio amico cinemaro, più competente di me, dice che Bela Tarr è il più grande… Lo dice pure l’utente @Talkin’ Meat l’unico che qua abbia recensito questo regista sul Deb. L’ho taggato ma è sparito da anni, vediamo se gli arriva la notifica…

Perdizione, segna un punto di svolta nella carriera di Tarr, in quanto modifica profondamente il suo stile registico. Passa dal frequente utilizzo della camera a spalla, al piano sequenza.

I piani sequenza di Bela Tarr, sebbene recenti nella storia del cinema (Perdizione è del 1987) rappresentano una novità ed un modello nel campo della settima arte.

Piani sequenza ed inquadrature fisse. Montaggio quasi assente. A volte la MDP è ferma e non segue l’azione. L’attore passeggia nella pioggia (in questo film piove sempre) e si allontana all’orizzonte, la MDP lo “osserva” facendo capoccella da un muretto, nascosta da una grondaia, come se stesse spiando. Oppure, al contrario, Tarr passa dall’inquadratura fissa al piano sequenza, abbandonando la scena d’azione e spostandosi lentamente e linearmente per scrutare il circostante, sebbene “avulso alla manovra”. Ancora, ricorre al piano sequenza circolare, avvolgente, sempre molto lento e con la stessa velocità, quasi a disvelare, indugiando un filo più del giusto. La MDP dunque passeggia placida ed inesorabile, lungo il boulevard della scenografia, poi si ferma. Ho avuto l’impressione di essere su di un filobus silenzioso che lentamente, ti porta spasso per la città, fa le sue fermate, arriva al capolinea. Scendi e ne prendi un altro che parte per un’altra destinazione.

Perdizione. racconta la storia di Karrer, un uomo di mezza età. È un solitario, vive di espedienti perlopiù criminali. È solito bivaccare al Titanik, uno scalcinato night con cantante annessa. Una bella donna, di mezz’età pure lei, consumata dalle sigarette, dall’alcool e dalla sua porca vita. Lei si accompagna con un altro perdigiorno. Il nostro è innamorato di questa femme fatale, che porta alla “perdizione” ogni uomo che incontra sul suo cammino. Karrer lo sa ma non gliene importa. Poi c’è il gestore del night, un uomo corpulento e bonario che arrotonda facendo loschi traffici (c’è da consegnare un pacco).

Come nel film da me precedentemente recensito - Tirate sul pianista - anche stavolta la trama non rappresenta il corpus del film ma è poco più che un pretesto per mostrare e delineare un’umanità allo sbando, più rassegnata che disperata. Immobile nella sua condizione ineluttabile, stanca, si trascina pigra e sottomessa in una routine senza scampo. E come ci dice tutto questo? Facendo parlare gli attori che raccontano le loro miserie? Ma vah… ce lo racconta semplicemente inquadrandoli, passando su di loro con questa lentezza inesorabile, esattamente come fa l’apparecchio che produce le lastre ai raggi X. Scava. E talvolta, gli attori, gli avventori del Titanik, sono immobili, freezzati nella loro condizione. Non sono più figure umane, sono figurine, cartoline, dipinti. Immoti, spacciati. In tal senso, memorabile la sequenza di persone strette in piedi, mute, afflitte, intrappolate con uno sguardo vacuo e vagamente “colpevole” che viene letteralmente passata in rassegna dall’occhio/scanner di Tarr. Oppure la delirante sequenza di un giovane che fuori dal Titanik, sotto la pioggia, balla il tip-tap (citazione “apocrifa” di Ballando sotto la pioggia con Gene Kelly). Laddove Kelly ballava felice ed innamorato, il nostro è fermo sul posto, balla da far schifo, sbatte i piedi con cadenza militare sull’acqua, è uno zombie.

È un cinema minimalista, esistenzialista, nichilista. Oserei dire pessimista, pesante, in un certo qual modo “negativo” e per certi versi “insostenibile”. Ma poi, tirando le somme, mi rendo conto, una volta di più, che quando certi artisti mettono così a nudo e scarnificano la misera condizione umana, non lo fanno con sguardo cinico, impietoso o di denuncia. Al contrario, il loro è un grido di dolore appassionato e disperato, come a dire Ma cosa siamo diventati? Dove stiamo andando? A che serve?

Sono decenni che guardo i carrelli della miniera fare su e giù lungo la funivia.

Li guardo ed ogni volta sento che sto per impazzire ma poi non impazzisco mai.

Ognuno di noi viene al mondo per dire qualcosa ma poi si ritrova nella fossa e non ha detto niente.

Senza amore la vita non ha senso.

Finirà male.

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