I. Morte di un Dittatore.

Claus e Lucas sono fratelli e sono gemelli. I loro nomi sono anagramma delle stesse cinque lettere.
La traduzione in una città non meglio identificata dell'Europa dell'Est, l'infanzia sotto lo sguardo aspro di una parente, la guerra. Loro non piangono mai. Loro non giocano mai. Lavorano, studiano. Fanno esercizi di resistenza, esercizi di disciplina. Per abituarsi al dolore, per abituarsi alla privazione. Per assuefarsi. Serve il dolore. Serve desensibilizzarsi. Esercizi di irrobustimento del corpo, esercizi di irrobustimento dello spirito, esercizi di cecità, esercizi di sordità, esercizi di digiuno, di accattonaggio, di crudeltà. Si scaricano addosso insulti atroci e malvagi per prepararsi all'umiliazione. Le mani sopra una fiamma, l'alcol sulle ferite, tagli, schiaffi reciproci. È qualcun altro che ha male, è qualcun altro che si brucia, che si taglia, che soffre. Piangere non serve a niente. Loro non piangono più. A loro non piace dire grazie e loro non dimenticano mai niente. Millantano, umiliano a loro volta, ricattano, accusano e poco importa se le accuse siano vere o false, sanno che l'essenziale è la calunnia. Se ne vanno a passeggio durante gli allarmi, quando la gente si nasconde, le luci della città sono spente, le strade sono deserte ed è proibito accendere le lampade prima di avere oscurato perfettamente le finestre.
Tutto questo non gli piace per niente, ed è per questo, dicono, che devono abituarsi.

Casa fredda, casa sporca, nero di grasso, fuliggine, strati di unto, stracci grigiastri, casa caldaia, casa bollente. Loro agiscono ed esistono contemporaneamente. Loro parlano correttamente, loro fanno lezioni di composizione. Lezioni di ortografia, lettura, calcolo, matematica, fanno esercizi mnemonici, studiano il dizionario per sinonimi, antonimi. Loro scrivono il grande quaderno.
Per stabilirne la qualità scelgono le categorie Bene e Non Bene, il tema deve essere vero. Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti.
Loro non giocano mai. Lavorano, studiano, fanno degli esercizi. Per mesi levigano, verniciano il cranio e le ossa della madre e di un neonato, appendono lo scheletro della donna a una trave della soffitta e attaccano quello del neonato al suo collo. Claus e Lucas hanno un rasoio, di fianco alla Bibbia.

Victor, invece, ha strangolato sua sorella e si è seduto alla scrivania per scrivere. Ha battuto a macchina accanto al cadavere di sua sorella. La presenza silenziosa della sorella nell'altra stanza lo disturbava, lo disturbava sempre, entrava in camera sua con ogni genere di pretesto, la sera lo costringeva ad andare in salotto ad ascoltare le stupide chiacchiere. Quando ha smesso di dibattersi, Victor ha eiaculato. Adesso, lei non è altro che un mucchio di cenere. Al cimitero, un becchino mangia del lardo con delle cipolle. In città non c'è un medico. Molta gente muore così, per mancanza di cure, durante la guerra. Claus e Lucas, loro non dimenticano mai niente. Non conoscono il significato della parola, nessuno lo conosce. Sopra di loro, illuminati dalla luce sopra il lucernario, dondolano, appesi a una trave, gli scheletri della madre e della bambina. I roghi neri che hanno visto dall'alto sono cadaveri carbonizzati. Certi sono stati bruciati bene, non restano che ossa, nella zona di frontiera.
Cosa è successo, Mathias? Mi hai fatto male, lo sai? Anche tu mi hai fatto male, ma tu non lo sai.
Ed È solo un altro incubo. L'inverno, il carnaio. Le zone depresse.


II. Sonata a Kőszeg.

Ágota Kristóf (Csikvánd, 1935 – Neuchâtel, 2011) è stata una scrittrice e drammaturga ungherese vissuta in Svizzera. Autrice poco prolifica, ha dapprima sperimentato la scrittura radiofonica, ha poi prodotto poche cose per il teatro, successivamente ha pubblicato raccolte di poesie e pochi romanzi.
In Svizzera lavora in una fabbrica di orologi ad assemblare versi e strofe. Lavorare in una fabbrica.
Lì poteva concentrarsi sulla scrittura, sui suoi pensieri. Vicino alla macchina che usava c'erano dei fogli su cui scriveva le sue cose, ed era la cadenza meccanica delle macchine a darle il ritmo regolare per scandire la sua poesia, la sua prosa.
«La trilogie des jumeaux» è l'opera completa di tre romanzi medio-lunghi: Le grand cahier (1986), La preuve (1988), Le troisième mensonge (1991), editi in Italia da Einaudi, a Torino, nel 1998. Le immagini d'edizione della casa editrice raccontano e specchiano intuitivamente, in effetti, i due lati che sottraggono a una prima svista i più diversi sviluppi della storia. Un'opera dai tratti facciali veristi, grado futurista, piena di imposture e distorsioni, di simbiosi d'intesa primordiale e successiva estraneità raggelante.
Lo stile selezionato e sezionato di Kristóf è secco, tagliente, in diretta, senza virtuosismi. Austero, sottrattivo. Lo stile è il suo stiletto. Paratassi chiodata fusa con l'odore avio del ferro, elimina aggettivazione, immaginazione. Guerra, borghesia, il dramma della luce del giorno, il moderno.

Trilogia della città di K. è una messa in abisso continua, più livelli e dimensioni di verità modulari in sezioni di sequenze discontinue, un effetto Droste di cambi e confusione di prospettiva e un effetto Rashomon autoriale, ne fanno un tipo di romanzo suite di dissociazione, duplicazione, destrutturazione. La fonte narrante è alternata, veloce: un noi, un lui, un doppio io. Tema della malvagità che accade come un elemento necessario all'esistenza, il dolore ordinario nel tempo di guerra e pace, un grande rimosso nel suo cuore che come tutti i rimossi sopravvive e si fa vivo sotterraneamente, doppi immaginari, incesto, menomazione, suicidio.
L'individuo, l'indivisibile del XX Secolo che si disunisce in solitudine e isolamento. Non tutto va compreso chiaramente. Quello che conta non è la trama, ma quello che non-contiene.
Niente è vero, tutto è permesso. Un enigma meta-letterario. Petrolio.
La trilogia è pure considerazione sulla scrittura e la sua riscrittura, sull'esilio interiore dello scrivere di per sé come spazio di auto-costruzione, e sullo scrivere in un'altra lingua. La questione della lingua francese come una sfida, una sfida elementare di un'analfabeta. Qualcuno si uccise col gas, qualcun altro sparandosi un colpo in testa, decenni dopo il 1956. Non c'è nessuna guerra, non c'è nessun dopoguerra, non c'è nessuna pace, non ci sarà mai pace, come in un romanzo dell'assurdo, come in un romanzo della crudeltà. Così si edificano gli anni, così si edifica la morte.


III. Trenodia di Kvándstaat.

«Caro figlio, cerca di non guarire. Senza di te stiamo benissimo. Tu non ci manchi affatto. Speriamo che tu rimanga dove sei, perché non abbiamo nessuna voglia di tenerci un handicappato in casa. Comunque un bacio te lo mandiamo, e tu cerca di fare il bravo perché quelli che si occupano di te sono da ammirare. Noi non faremmo la stessa cosa. Siamo fortunati che ci sia qualcun altro a fare per te quello che dovremmo fare noi, perché nella nostra famiglia dove sono tutti in buona salute non abbiamo più posto per te. I tuoi genitori, le tue sorelle, i tuoi fratelli».
P.S.E.: «Puoi piangere quanto vuoi, non servirà a farti tornare in mano la mela, imbranato».

Non si può amare la vita. I morti sono ovunque e in nessun luogo, e fino a sera aspettano la morte.
La gente ha paura di esser vista andare in chiesa e la grande chiesa è fredda, quasi vuota. Sopra le case e la vita, nebbia grigia e lieve. L'inverno è molto freddo quest'anno. È l'ultimo giorno dell'anno. Un grande freddo venuto dal nord si è impadronito della terra, una nebbia gelida ristagna sulla città deserta. Davanti alla grande fabbrica tessile illuminata al neon una società fondata sul denaro. Non c'è spazio per le domande che riguardano la vita. Trent'anni in una solitudine mortale. Il sole, il vento, la notte, la luna, le stelle, le nuvole, la pioggia, la neve, tutto era meraviglia. Camminavano sui tetti, non avevano mai paura di cadere. Erano giovani, non soffrivano di vertigini. Ride: Non avere paura, non cadrò, so volare.
Tutte le notti plano sulla città.
Prima che il sole, la luce, la luna e le stelle si oscurino e tornino le nubi.
Il tempo sfugge il tempo moderno. Adesso vie, vicoli e passaggi sono illuminati, non c'è più guerra, non c'è più oscuramento né coprifuoco. Non c'è più gioventù in questa città vuota. Ci si ritrova invecchiati nel riflesso di una finestra a disegnare le vite calme, tranquille degli altri, a guardare le notti scendere sulla città. Solitudine, insonnia, stanchezza fisica, nervosa. Buio, silenzio nella notte.
- Sono gravemente malato. Oggi è un anno che lo so.
- Non faccia il sentimentale. Tutto muore.

Claus dice: Ho la testa un po' disturbata per via dei bombardamenti.
Mi è successo quand'ero bambino. Ero ancora un bambino. Ma non ho dimenticato niente.

Lucas dice: Non avrò mai pace.
Claus non si fa vedere mai in pubblico e non si sa niente della sua vita privata. Quando scrive ha fretta di vederla andare a letto. In effetti, dice che quando scrive deve essere assolutamente solo. Ha bisogno di silenzio e solitudine. Claus dice che di giorno ci sono troppe cose che lo disturbano. Deve fare la spesa, preparare da mangiare, e soprattutto ci sono i rumori della strada. Lui non sopporta né la musica né le grida e le risate di quelli che si divertono. Le persone sono così felici che nemmeno amano.
Prima di scrivere si mette in vestaglia, dopo deve andare solo in camera sua.
Il verbale che contiene tre menzogne: Selezione Europa - Settore Est.
Sophie. Clara. La sartoria. La biblioteca. Peter guarda il giardino che sprofonda nella notte.
Lucas si ripeteva che non serve a niente essere intelligenti. Sarebbe meglio essere biondi e belli. Diceva che il luogo ideale per dormire era la tomba di una persona amata. Lucas diceva che la pazzia è una malattia come le altre. Nullificazione, nessuna consolazione. La vita è di un'inutilità totale, è nonsenso, aberrazione, sofferenza infinita. Claus e Lucas tornano al cimitero tutti i giorni.
Presto la morte cancellerà tutto. Il treno è una buona idea. Trilogia della città di K.

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