Nella girandola di supplenti di matematica che caratterizzò la mia seconda superiore, ne ricordo una in particolare, che ogni lunedì ci ripeteva come il totocalcio avrebbe dovuto premiare, oltre ai tredici, anche gli zero. Non so quanto quell’affermazione fosse corretta dal punto di vista delle scienze statistiche, considerando che la stessa supplente sosteneva anche che la radice ventiquattresima di ventiquattro fosse uguale precisamente a uno… Tuttavia, il succo del discorso era abbastanza chiaro: è decisamente difficile sbagliare tutto, ma proprio tutto!
E’ questo il motivo per cui, in quest’inverno che ha visto ritorno al cinema, e nell’immaginario collettivo, della figura di Nosferatu, non posso evitare di dedicare un pensiero anche affettuoso a quel completo disastro tutto nostrano che porta il titolo di “Nosferatu a Venezia”. A suo tempo rischiai di andarlo a vedere al cinema, pressato da un’amica tanto innamorata della città lagunare da acquistare l’album di tale “Anonimo Veneziano” scambiandolo per un titolo dei Rondò Veneziano. Fortunatamente, il film non uscì mai nelle sale della mia città, ma ormai la mia curiosità era stata solleticata, e nel tempo ho trovato il modo di vedere questo capitolo piuttosto imbarazzante della cinematografia italiana (gratuitamente, si intende).
Sia ben chiaro: tutti gli sbagli sono da imputare alla realizzazione al limite del dilettantismo più colpevole di un progetto che, almeno sulla carta, avrebbe potuto funzionare. La storia narrata, di per sé, potrebbe essere interessante: ossessionata da una serie di leggende che gravano sulla sua casa e dalla presenza di un sarcofago sigillato negli scantinati della stessa, la contessa Helietta (Barbara De Rossi) invita il professor Catalano (Christopher Plummer), esperto di vampirismo, che, per vederci chiaro, propone una seduta spiritica; l’unico effetto ottenuto è quello di risvegliare e richiamare a Venezia Nosferatu, al quale nel frattempo è cresciuta una fluente chioma e che seminerà morte fra i membri della famiglia. L’ambientazione si sarebbe potuta rivelare una carta vincente: non solo il potenziale gotico di Venezia era già stato ampiamente illustrato da un capolavoro come “Don’t Look Now” (qui da noi, “A Venezia un Dicembre Rosso Shocking”) e da un episodio immensamente minore come “Nero Veneziano” (ovvero, come a Renato Cestiè neanche da adolescente ne vada bene una), ma l’intera laguna e le sue barene avrebbero potuto assumere un ruolo attivo nella costruzione dell’orrore, come dimostrato da Pupi Avati e il suo horror padano.
Nelle mani di Augusto Caminito, invece, il tutto finisce per sgonfiarsi come un soufflé malcotto. Caminito, produttore, si era dovuto improvvisare regista a causa dell’incontenibile carattere dell’attore protagonista, Klaus Kinski, insofferente nei confronti di ben due registi a cui il progetto era stato inizialmente affidato (Maurizio Lucidi e Pasquale Squitieri). Ed è esattamente qui che comincia il dramma: scene terribilmente statiche, attori visibilmente abbandonati a se stessi, maschere del carnevale di Venezia che si voltano improvvise verso la cinepresa come in un video dell’Azienda di Promozione Turistica, ultra-dettagli sugli incisivi del vampiro mentre penetrano nel collo delle vittime (senza che si veda il resto del volto), scelte ridicole in fase di sceneggiatura (il professor Catalano che, uscito dalla casa infestata, decide improvvisamente di uccidersi gettandosi in un “rio” – la cui profondità, si sa, al massimo gli avrebbe potuto provocare una slogatura alla caviglia). Se poi si aggiunge una colonna sonora che si vorrebbe in stile Vangelis, ma sembra realizzata con un tastierino Bontempi…
E’ un contesto in cui, naturalmente, anche le idee migliori finiscono per essere sprecate: Venezia, la laguna, le calli sono ben fotografate da Antonio Nardi (una sequenza su tutte: Nosferatu arriva a palazzo lungo i canali in piedi su una gondola; la scena è ricostruita in studio davanti ad un fondale proiettato, ma l’effetto finale, plumbeo e sinistro, quasi sorprende). Tuttavia, l’unico uso che si fa di tanto ben di dio è di farci camminare o correre i vari personaggi. Il personaggio della decrepita nonna della contessa (un’inquietantissima Maria Clementina Quasimodo) avrebbe potuto rappresentare un elemento chiave della pellicola; invece, non si capisce bene perché sia lì (così come non si capisce perché il prete che l’accompagna, interpretato da uno sprecatissimo Donald Pleasance, sia vestito con una tonaca del Settecento). Anche la scena dell’apertura del sarcofago, con il tema del doppio e l’idea della reincarnazione che comporta, avrebbe potuto avere un impatto molto più devastante, mentre trascorre innocua e ridicola.
Klaus Kinski, a sua volta, ci mette del suo, portando sul set il suo appetito sessuale maniacale (Barbara De Rossi si sentì tanto violata da abbandonare una scena in lacrime) e imponendo meri capricci, fra i quali la scelta inspiegabile di reclutare la sua preferita di turno, una giovane e alquanto insipida Anne Knecht, nell’inutile ruolo della sorella della protagonista, personaggio assolutamente ridondante e su cui viene costruito lo sgangherato finale.
Perché allora parlare di questo film? Se ne raccomanderebbe la visione? Alla fine, mi viene da dire di sì, un po’ perché Venezia è sempre Venezia, e alcune delle sequenze riescono a farcela vedere sotto una luce talmente invernale da renderla quasi insolita. Il volto di Klaus Kinski, inoltre, rimane patrimonio dell’umanità, riuscendo a condensare un’infinità di sfumature con una consapevolezza e una padronanza della mimica davvero uniche. C’è poi una scena che mi ha sempre profondamente affascinato: Maria Canins (l’Anne Knecht di cui sopra), scollacciata vergine sacrificale, si getta dal campanile di San Marco, sicura che Nosferatu risponderà al suo gesto; il vampiro arriva in un baleno, rapendo l’oggetto del desiderio e trasportandolo in volo sulla laguna in una sequenza onirica e affascinante, che mostra nel modo più drammatico quello che avrebbe potuto essere il reale potenziale della pellicola.
E, in fondo in fondo, è proprio per quest’idea di occasione mancata che ci si può affezionare a “Nosferatu a Venezia”, e che ci si può sentire attratti anche dal più becero dei fallimenti. Non fosse altro anche solo per provare un pizzico di nostalgia per il nostro cinema di genere e per un’epoca in cui i sensi unici pedonali e le tariffe di ingresso a Venezia non avevano ancora sfiorato i nostri incubi.
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