Una nota può dire tanto: apre la porta di un universo; un accordo può dire tanto: delinea lo spazio, la dimensione entro cui vogliamo scomparire per sempre, per quel sempre che è la durata del nostro amato CD.

E allora ecco “Constellations”. Ecco una stanza buia, un pavimento impolverato, un soffitto ombroso. Un divano al centro: trasandato, blu scuro, bellissimo. Non mancano le finestre: quasi del tutto abbassate, coperte da qualche grigio tendaggio pieno di tanti piccoli buchi: l’aria che filtra, la pochissima luce che passa.

Tutto si fa rallentato, i nostri sensi si dilatano. Assaporiamo quel buio, lo annusiamo, lo viviamo con gli occhi e con la mente. Diventiamo noi stessi una semplice tonalità di scuro: più scuro: più noir: più intimi: pece nella pece.

Diamo il via alla notte.

I Balmorhea ripartono da qui, dall’oscurità, dal modern-classical. Mettete da parte i vagheggiamenti da ballata folk, sinfonie bucoliche a cielo aperto… dimenticate il verde, la natura. Il distacco da “All is Wild, all is Silent” si sente. Innanzitutto gli strumenti: il piano su tutti. Chitarra, archi e banjo in caldo accompagnamento prima, si mostrano poi nella seconda traccia e verso la fine dell’opera (d’arte).

La prima traccia, “To the Order of the Night”, è un’ondata di oscurità: il sound è accarezzato, dimesso. Il solo di pianoforte è l’apologia del Romanticismo: essenziale, notturno. Pochi tocchi, poche note. E’ perfetto come inizio; d’altronde si sa: gli occhi devono abituarsi al buio gradualmente.

Bowsprit”: prendono corpo e anima chitarra, banjo, percussioni, violino, viola e violoncello. Eccole là, le stelle che dipingono la notte. Tuttavia è una notte selvaggia, del tutto simile alle sonorità di “AIWAIS”: unico, piccolo, “ponte” con il passato. Ma passiamo avanti. Quello che conta, ora, è il loro dialogo: non articolato, non cervellotico, ma fitto e intrecciato. Prima la chitarra, essenziale e timida nei suoi accordi; segue a breve il violino, poi il banjo (più sicuro e deciso), il crescendo delle percussioni e infine il violoncello e il contrabbasso. Un climax senza alcuna esplosione post-rockiana. Bene cosi.

E’ la volta di “Winter Circle”, tiepida e breve ripresa del primo brano, sempre sulle note del pianoforte. Come fosse tacita alternanza, ecco che “Herons” ripercorre la scia melodica della chitarra, qui in un malinconico monologo. Ancora una volta, la ritmica ci ammalia per la sua morbida lentezza dilatante. Siamo cosi giunti alla quinta traccia, l’omonima “Constellations”, anche questa volutamente non incisiva. Ciò che emerge è il carattere fortemente neoclassico della melodia, per la verità tratto distintivo dell’intera opera (d’arte), forse con qualche eccezione. Risulta chiarissimo e di facile lettura, dunque, l’accostamento ai connazionali Rachel’s.

Verrebbe ora da pensare: dov’è la perla? Dov’è la stella più luminosa in questo mare costellato? “Steerage and the Lamp” risponde a queste e a molte altre domande: avvolgente e calda come il corpo nudo di una donna, ci tenta come un’anacronistica Eva del XXI secolo verso l’Eden della nostra perdizione. Bella. Dannata. Struggente. E cosi, vinti da mille emozioni, cadiamo in un sonno eterno che ci consacra definitivamente al buio della stanza in cui eravamo, distesi su quel divano blu scuro. Eccolo qua, il nostro personalissimo inno alla notte.

On the Weight of Night” è il post-rock al servizio dello slow-core. Risuonano nella nostra mente addormentata gli echi dell’organo e della batteria che scandiscono i gradi dei come e dei per quanto della nostra intima commozione. I Low ne andrebbero fieri…

Palestrina” è il primo chiarore dei raggi del sole, l’alba che ci salva dal rimanere per sempre aggrappati al buio, al nero, ai braccioli di quel divano; i riverberi alienanti del violoncello sono l’ultima mela del serpente, l’ultima tentazione per restare isolati nell’oscurità più profonda. Ma è tutto inutile: il silenzio che sopraggiunge alla fine di “Constellations” è più eloquente di qualsiasi parola o nota.

A questo punto riapriamo gli occhi. Ci sentiamo stanchi, riposati, spossati, rinvigoriti, distrutti, rinati. Cosa più importante però, ricordiamo alcuni attimi del nostro sogno, pochi minuscoli fotogrammi del nostro inconscio: siamo sdraiati su un prato, di lato… sentiamo il freddo del vento tra le dita… percepiamo i versi di un gufo lontano… odoriamo il profumo dell’erba sotto di noi… gustiamo il sapore intenso del nero della notte… poi, girando la testa, guardando in alto, finalmente ce ne accorgiamo: un dipinto stellato di rara bellezza.

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