La musica, al pari di una sana passeggiata o una corsetta, è una sorta di medicina dell’anima, anti-medicina terapeutica per eccellenza, che assunta nelle dosi giuste fa stare bene e rilassa i vari organi.
A patto di trovare la giusta colonna sonora. I Converge destabilizzano i sistemi solari creando nuovi buchi neri e i Black Flag fomentano solo rabbia sociale e no al momento serve qualcosa che concili il sonno e riempia i tempi della pausa pranzo o di un aperitivo e poi bisogna scacciare l’incubo di Tommy-Lee Paradiso vestito da bagnino che ti rincorre per le spiagge della Romagna lanciandoti addosso i suoi mojito pieni di figa. E loro, i Beach Fossils, si presentano con un nome che ispira fiducia e con quella copertina candida, ma che però un po' vi illude.

I raggi di luce bonus e i tempi dilatati di Giugno richiedono un aggiornamento della playlist con nuove cascate di note fresche per trovare un po’ di refrigerio e sfuggire alla gabbia dell’afa. E per quanto si possa essere tradizionalisti, e mandare a ripetizione in spiaggia Tycho o Washed Out, a volte bisogna pur andare oltre l’orizzonte, che non è mai bello fossilizzarsi troppo, e non ascoltare l’ignoto, nemmeno con i dischi.

“Un disco che suona come ci si aspetterebbe, senza uscire dalla sua comfort-zone…” così qualche tempo fa descrivevo sempre qui “In Mind” ultimo tenerissimo parto dei Real Estate (già per altro con largo anticipo disco-gufo dell’anno insieme a “Saturday” miglior iettatura dell’anno).
La citazione è voluta visto che i Beach Fossils sposano le stesse sonorità fatte di nobili matrici jangle-pop utilizzate per allestire soffici edifici con ampie vetrate da cui entra molta luce.
“Somersault” sembra però voler infischiarsene di concetti di genere e paletti, ed andare oltre ed è qui che sta la maggior differenza con il comunque buon disco della band di Mart Courtney.

Se l’iniziale e contemplativa “This Year” è la giostra già collaudata su cui far salire la vecchia fanbase , “Tangerine Dream” si fa notare anche per l’ospitata eccellente di Rachel Goswell degli Slowdive a dare ulteriore calore alle colonnine di mercurio dei non-ritornelli. La temperatura inizia a salire.
Il cambio d’abito definitivo che vede far posto nel canzoniere di Dustin Payseu ad una nuova attitudine è “Saint Ivy” episodio di pop-barocco tra anni ’80 e ultimi The Last Shadows Puppets, che si arricchisce di rintocchi di piano e da un gradevole assolo di flauto poi, concludendosi in un tripudio di fascinazioni sonore.
La seconda, quanto mai curiosa, ospitata del disco vede il rapper Cities Aviv prendere il microfono nel breve spot di “Rise”, accompagnato da un sax, in un inedito scenario urban-hip-hop.

Adesso prestate attenzione e prendete la penna e segnatevi “1st May”: è la cosa più Byrds annata 1966 che sentirete quest’anno. Ma il canzoniere rimane veramente ricco di spunti tra le digressioni shoegaze (“Be Nothing”), pianoforti e atmosfere che sfiorano con noncuranza l’‘r’n’b’ da canale 67 ( “Social Jetleg”) e soprattutto la languida “Sugar”, che sarebbe la pubblicità alternativa perfetta per il cornetto Algida, nemmeno troppo a caso battezzata come singolo.

“Somersault” con la sua voglia di rischiare potrebbe rappresentare il punto esclamativo dei Beach Fossils, lo scatto repentino che ci consegna con ottimo tempismo il disco pop perfetto da far suonare quest’estate sotto l’ombrellone.



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