Beatrice Antolini è un mistero.

I suoi due dischi hanno fatto la fortuna di ogni critico di nicchia che si rispetti: sbilenchi, ispirati, supportati
da una voce che schiamazza soavemente fra una Kate Bush d'altri tempi e strumentazioni intelligenti e dettagliate.

Il talento di una promessa già maturata, autonoma, 360° di fascino composito ed isterico. Nella Rotonda dell'Italia Wave eravamo in trenta sotto il palco ad assistere (incantati) al siparietto di Dente (per cui spenderei solo parole estasiate e piene di orgoglio, sicchè ora come ora non me ne vengono); segue lei, con le sue due parole ripetute all'infinito ("grazie", "grazie mille") e il palco che muta pelle.
La band di supporto la sovrasta e ingloba, e a piena ragione: cinque strumentisti (e guest star un pezzetto dei Marta Sui Tubi al violoncello elettrico, se non vado errato) che gonfiano e riempiono i brani di una carica mastondontica e sconvolgente.

Uno dopo l'altro, i siparietti dell'Antolini scorrono senza troppe differenze di stile ma con un crescendo d'intensità
che immobilizza lo sguardo e l'apparato uditivo. Lei, nella sua maglietta shokin'green che avrà fatto la gioia di tutti i moscerini della Rotonda, sembra quasi un surplus. I quattro accordi della tastiera son sovrastati dalla tromba e dai percussionisti (ben due); lei si dimena sulle sue zeppe, ma la voce non ha nulla della chiarezza e liquida cristallinità dei tanto adorati (anche dal sottoscritto, sia chiaro) lavori in studio. Sembra più Pj Harvey dopo tre notti di sonno davanti ad una finestra spalancata in pieno inverno, che Kate Bush vagante fra le cime tempestose.
I toni sono rauchi (per dirla con garbo, ma la parola esatta sarebbe "sfiatati"), cupi, quasi avesse fumato una scatola di Toscanelli dopo pranzo (eppure Nada non inizia un concerto senza aver assaporato l'ultimo tiro del suo sigaro di fiducia, indi qualcosa non torna).

Dopo i primi venti minuti è chiaro che il vero intrattenimento è quello che dovrebbe fungere da contorno; "Funky show", per dirne una, non naviga più nel buio come su disco ma si scaraventa, con forza, contro un muro di suoni che non fa una pecca. Il resto scorre ferocemente sulla stessa linea; appagando, certamente, circondando, senza dubbio. Ma Beatrice Antolini resta un mistero.

Tornato a casa, rimetto il suo secondo disco nel lettore, ritrovandomi senza saper bene cosa pensare. Senza saper bene quale Beatrice Antolini sia la vera Beatrice Antolini; dove risieda il vero talento, quanto ci sia davvero di autentico.

La morale della favola, mio malgrado, è che non credo riuscirò più ad ascoltare un disco di Beatrice Antolini con lo stesso desiderio di prima: da sbilenco è diventato storpio, se prima era ispirato ora puzza fin troppo di stantio.
E non è una bella cosa.

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