Un disco, ma anche un libro, non ha mai un significato univoco; si apre a più significati: è dunque sempre necessaria un'operazione di empatia, che è altamente personale e soggettiva, per estrapolare dalla musica dei sentimenti, delle immagini. È per questo che il disco in questione potrebbe, alle orecchie di un altro ascoltatore, suscitare sensazioni diverse dalle mie.

"Gulag Orkestar" inizia con una specie di marcia funebre, che sembra suonata da una banda di paese (balcanico). Nel primo pezzo-title track infatti, The Gulag Orkestar, si insinua, di tanto in tanto, un lamento (gitano? slavo?); una flebile voce, che purtroppo al giorno d'oggi ricorda, senza retorica, i tanti morti innocenti delle guerre.
Il secondo pezzo, "Prenzlauerberg", è una ballata atipica, fatta di fisarmoniche che, più che leggerne la recensione su un blog o ascoltarne i samples su debaser, ci aspetteremmo di sentire seduti al tavolo di un ristorante praghese, suonata da un musicista ambulante, mentre qualche sfortunato ragazzo cerca di venderci un fiore per non morire di fame. Ancora malinconia gitana.
Ma gli zingari non sono solo questo; e si aprono le porte di "Brandenburg" al suono dei tamburelli e dei banjo, mentre seduti intorno ad un falò, un gruppo di zingari intonano un canto che sa di nostalgia, appoggiati ai loro carrozzoni, seduti sui cofani dei loro vecchi Mercedes, mentre ragazze giovani, che sono già madri, danzano agitando un tamburello.
I toni diventano più distesi e rilassati (poteva essere altrimenti?) nella romantica "Postcards From Italy", in cui le trombe prendono il sopravvento. Ma si tratta pur sempre di un bozzetto, di un'immagine nella mia mente: quella di un emigrante, che finalmente raggiunge il paese tanto desiderato; e scrive ai suoi cari assieme la sua contentezza e la sua nostalgia e solitudine.
Nella successiva "Mount Wroclai" le coordinate fornite fin qui vengono rimescolate nel concetto filosofico del così-va-il-mondo e non-ci-resta-che-ballare. La canzone ha un ritmo che la fa assomigliare ad una dei tanti inni degli indiani d'america, che si ascoltano in vecchi stereo a batteria, nelle bancarelle dei mercatini della domenica. E, mentre "Rhineland" è una ballata folk, in stile Micah P. Hinson (non esente però da contaminazioni est-europee), in "Scenic World" - udite!udite! - fanno la loro comparsa le tastiere! Ne risulta, insieme alla trombe e ad un ritmo quasi latino, il pezzo più "giocoso" dell'album, che rimanda alle melodie di Jens Lekman. L'ultimo pezzo dell'album, "After the Curtain", richiama invece alla mente i lamenti di Antony and the Johnsons, nello splendido e recente "I Am a Bird".

Per finire, a riprova di quanto ho scritto all'inizio, ribadisco che la musica è altamente soggettiva: infatti, Zach Condon, diciannovenne polistrumentista che si nasconde dietro lo pseudonimo di Beirut (oltre all'ex Neutral Milk Hotel [NMH] Jeremy Barnes e a Heather Toast dei A Hawk and a Hacksaw) è di Albuquerque, una zona semi-desertica degli Stati Uniti; e probabilmente ha solo letto dei posti che ho menzionato; e ha solo ascoltato la musica dell'est indirettamente, oppure in qualche viaggio; come ognuno di noi, del resto. Ciò non toglie che abbia realizzato un lavoro discreto, come disco d'esordio; riconducibile soprattutto all'indie-pop di "In The Aeroplane Over the Sea" dei NMH, senza tuttavia eguagliarne le vette. Un buon album (si meriterebbe 3 stelle e mezzo... ), considerando la giovane età di Zach, la quale probabilmente sta dietro al "o tutto-o-niente-del-disco": chi ama la drammaticità/giocosità della Klezmer music, chi ama i Gogol Bordello, amerà anche questo disco; gli altri, corrono il rischio di fare qualche sbadiglio, proprio come quando, in mezzo a tante cianfrusaglie nei mercatini, non troviamo niente che ci interessa.

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