Shakespeare, si sa, ha rappresentato un'attrazione irresistibile per tantissimi operisti; Rossini, Ambroise Thomas, Charles Gounod, Riccardo Zandonai, perfino un giovane Wagner e, primo fra tutti, Verdi; ne dimentico sicuramente tantissimi altri ma, almeno tra i compositori "di repertorio" uno solo ha musicato Shakespeare in lingua originale e, soprattutto, con i testi originali. Trattasi ovviamente di Ben Britten che, arrivato a quel punto della sua produzione teatrale, si era già guadagnato altre singolari distinzioni: con The Rape of Lucretia, quindi Albert Herring e The Turn of the Screw aveva riportato in auge il concetto barocco di opera cameristica, adattandolo alle forme novecentesche, Billy Budd con il suo cast vocale interamente maschile, cosa più unica che rara, e ovviamente Peter Grimes, primo grande successo operatico del secondo dopoguerra e prima opera inglese ad entrare in repertorio dai tempi di Dido and Aeneas di Henry Purcell, datata 1689...
A chiusura di questo lungo ciclo, quindici anni di fervida attività teatrale, Britten mette in musica il Midsummer Night's Drea,, riassumendolo opportunamente insieme al fido Peter Pears ma, appunto, lasciando inalterati i versi shakespeariani. Il risultato finale è un'opera strutturalmente piuttosto complessa e direi anche difficile (e costosa) da mettere in scena degnamente, soprattutto perchè prevede un cast vocale di dimensioni abnormi, con quattro voci bianche, tanto per non farsi mancare niente anche un ruolo parlato (Puck) e soprattutto una marea di solisti in ogni possibile registro della voce lirica: due bassi, un basso-baritono, due baritoni, tre tenori, un contralto, un mezzosoprano, due soprani e, dulcis in fundo, un controtenore nientemeno che nel ruolo di Oberon. Questo la dice lunga sugli ambiziosissimi propositi del compositore, di cui questa è l'opera più sontuosa vocalmente, scenicamente e musicalmente; un viaggio tra dimensioni musicali, tutto da scoprire e apprezzare senza fretta, godendosi momento dopo momento le infinite finezze e colpi di teatro di cui era capace Benjamin Britten.
A dirla tutta, quella particolare struttura, con tre "piani di esistenza", a cui corrispondono altrettanti stili musicali che interagiscono tra loro non mi è del tutto nuova: Richard Strauss aveva già sperimentato qualcosa di abbastanza simile con Ariadne auf Naxos, ma nel Midsummer Night's Dream si assiste a un'alternanza molto più fluida e ciclica, con dinamiche molto diverse e confini molto più sfumati tra le tre "dimensioni". Ma facciamo un passo indietro: avevo parlato di controtenore, per farla breve una voce maschile che canta nello stesso registro di un mezzosoprano o addirittura di un soprano, come un tempo i celebri castrati. A chiudere l'epoca dei castrati nell'opera fu con ogni probabilità Giacomo Meyerbeer con il suo Crociato in Egitto, datato 1824; Benjamin Britten, ancora una volta pioniere, è stato tra i primissimi a riproporre in ambito teatrale questo tipo di vocalità, ottenuta stavolta solo con una particolare tecnica canora. E a questo androgino Oberon si abbina Titania, ruolo da soprano di coloratura, altra vocalità "antica", che rimanda a quel periodo barocco che Britten tanto ha ripreso e rimesso a nuovo; sono due parti che, proprio per la loro peculiarità stilistica oltre che difficoltà tecnica, non possono prescindere da interpreti "specializzati" e di primissima qualità per funzionare adeguatamente.
E la musica che li accompagna è minimale, notturna, misteriosa e seducente, quanto di meglio ci possa essere per sottolineare la natura soprnnaturale di questi personaggi; in sonorità di questo tipo Britten si muove con la stessa naturalezza di un'aquila nel cielo, dando vita a pagine di assoluto fascino come "Over hill, over dale", il coro delle fate, dal ritmo curiosamente, vivacemente marziale e "I know a bank where the wild thyme blows", l'ammaliante cantata di Oberon, che sfrutta al massimo il fascino della vocalità controtenorile, e che raggiunge la perfezione se interpretata da Alfred Deller, l'interprete originale questo ruolo; a differenza di altri controtenori, che spesso suonanano fintamente, fastidiosamente "angelici" e "femminei", pieni di smorfie e affettazioni, lui canta con assoluta chiarezza, la sua voce suona eterea in modo assolutamente naturale, non artefatto, e soprattutto il timbro è inequivocabilmente maschile, fascinosamente spinto al limite più alto. Titania invece trova il suo momento di gloria, ironicamente, nella gran scena dell' "innamoramento" con Bottom trasfigurato in asino, che è quasi una mini-opera a sè stante, tanto è dinamico e ben sviluppato questo comico idillio, che Britten riempie di innumerevoli finezze, tra cui appunto le spumeggianti colorature di Titania, soprattutto nella radiosa mini-aria "Be kind and courteous to this gentleman".
I quattro amanti, con le loro passioni e disavventure, comicamente amplificate, si distinguono dagli spiriti notturni non tanto per la musica che li accompagna (dagli accenti sottilmente romantici e sicuramente più vicina all'opera tradizionale) ma per le vocalità, decisamente più "concrete", più terrene di quelle di Oberon e Titania; abbiamo infatti un soprano, un mezzosoprano, un tenore e un baritono che, in balia dei capricci di Oberon e Puck, danno vita ad una bonaria, sagace parodia del melodramma tradizionale. E ancor più parodistica è la caratterizzazione dei rustici, una manciata di pittoreschi e sgraziati bassi e baritoni (più un tenorino da operetta), con i loro buffi motivetti popolareschi. Il carattere prettamente comico di questi personaggi non deve però ingannare, non sono parti "facili" perchè Britten le imposta vocalmente su un vero e proprio "recitar cantando", a metà tra opera e prosa, che richiede ottime doti attorali per poter essere apprezzato pienamente, in tutti i suoi vivaci colori macchiettistici.
E questi improbabili personaggi raggiungono l'apice nella mini-operina finale, "Pyramus and Thisby", una geniale, spasossissima carrellata di clichès di vari compositori, da Donizetti a Wagner a Leoncavallo, passando addirittura per Alban Berg, trionfalmente suggellata da una canzoncina beffardamente, irresistibilmente orecchiabile, dove in teoria ci dovrebbe essere un accorato, tragico lamento. Ed è semplicemente grandioso che Ben Britten, così amaro ed esistenzialista nella sua produzione "seria", riuscisse ad esprimersi con assoluta padronanza anche in un contesto simile, segno di una personalità artistica poliedrica, piena di humor ed ironia (che peraltro si percepiscono anche in alcuni momenti del Peter Grimes, in quel caso trattasi ovviamente di humor nero e discincantato). Dopo questo Midsummer Night's Dream, Britten si allontanerà per un decennio esatto dall'opera, dedicandosi ad altri progetti (due anni più tardi vedrà la luce il suo monumentale War Requiem); e un percorso così ispirato, profondo, musicalmente carico di idee come quello tracciato da Britten dal 1945 al 1960 non poteva avere un finale migliore di questo.
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