Scelta assai infelice sotto tutti i punti di vista fu quella di presentare Gloriana al Covent Garden nel 1953, nell'ambito delle celebrazioni per l'incoronazione di Elisabetta II; con un presupposto simile si fà presto a pensare alla marchetta, cosa che quest'opera non è assolutamente e che, proprio per questo suo non essere una marchetta, fu accolta molto freddamente dalla mandria di "baroni Ochs Von Lerchenau" che assistette alla prima aspettandosi un qualche tipo di svenevole celebrazione dei fasti della monarchia; da Ben Britten poi, certo, come no. "Boriana", così la soprannominarono, Bless their hearts. Comunque, una volta passata la sbornia delle regali festività, Gloriana è stata generalmente rivalutata in positivo dalla critica e si è ritagliata in repertorio uno spazio direi adeguato per un'opera di questo valore e interesse storico. Purtroppo, la definizione più calzante per quest'opera è senza dubbio quella di capolavoro mancato; adoro Benjamin Britten, la sua sensibilità, il suo eclettismo, quelle intuizioni musicali e drammatiche tutte sue, e anche qui ne fà un'ampio sfoggio, in un contesto per lui inusuale, con un'orchestralità particolarmente florida. Eppure, pur con tutta la sua raffinatezza, ci sono zone d'ombra, rami morti, c'è qualcosa che non funziona come dovrebbe.

Innanzitutto, cosa c'entra Elisabetta I Tudor, figlia di Enrico VIII, questa figura storica così imponente, con Peter Grimes, con il capitano Vere, con Aschenbach, perfino con l'ambiguo fantasma Peter Quint? Con gli altri protagonisti britteniani ha in comune quella solitudine degli individui fuori dal comune che porta all'impossibilità di esprimere completamente la propria natura, di soddisfare le proprie intime aspirazioni. Ci sono tutti i presupposti per una nuova, vibrante tragedia made in Britten, ma togliamoci subito questo peso partendo dal perchè Gloriana non riesce ad esprimere completamente un potenziale sulla carta altissimo. Fondamentalmente, la radice di tutti i mali è un libretto che lascia parecchio a desiderare; anzichè un unico, vibrante, coeso arco narrativo sullo stile di Peter Grimes e Billy Budd quest'opera si presenta come un susseguirsi piuttosto spezzettato e frammentario di scene, la trama che le unisce risulta piuttosto debole, piena di salti temporali, e tolta Elisabetta, tutti gli altri personaggi sono poco più che "figurine", compreso lo stesso co-protagonista, Robert Devereux, Conte di Essex. E questo và benissimo per rappresentare il piccolo mondo cortigiano in cui si svolge la vicenda, pieno di invidie, bisticci, doppiezze e, appunto, personaggi di scarso spessore ma, da un punto di vista più strettamente drammaturgico e operatico, rappresenta un limite piuttosto gravoso. L'opera tuttavia, è prima di tutto musica e canto; il libretto, per quanto importantissimo, non può mai essere il parametro più importante e decisivo nella valutazione; se così fosse, tanto per dirne una, il Flauto Magico di Mozart sarebbe sprofondato nell'oblio da tempo immemore.

Gloriana contiene alcuni tra i momenti più evocativi di tutta la produzione britteniana, in cui occupa un posto di rilievo anche per l'ambientazione storica cinquecentesca, che mal si sposa con quella musicalità inquieta, a volte scarna, nervosa, quasi disadorna di opere come la già citate Peter Grimes e Billy Budd. Britten qui compie un lavoro quasi filologico in alcuni momenti, riproducendo fedelmente le sonorità e le atmosfere dell'epoca; è il caso del breve, incisivo preludio, una marcia di grande impatto scenico sostenuta da un'imponente sezione ritmica e delle due "lute songs" intonate da Essex nel primo atto, quadretti cameristici di gusto squisitamente britteniano, che un po' richiamano anche le cantate dei menestrelli nel Tannhauser di Wagner, specialmente la seconda; sensualissima e malinconica, melodia crepuscolare arricchita da vocalizzi che anticipano il canto "spettrale" di Peter Quint in The Turn of the Screw (che vedrà la luce da lì a due anni). Ma soprattutto la gran scena delle danze di corte, che mostra una Elisabetta che esercita i suoi poteri di regina con spirito e astuzia, accendendo passioni contrastanti nei suoi cortigiani, e nel mentre dirige una vivace successione di balli dell'epoca: Pavana, Galliard, Lavolta, Morris dance, Coranto, fascinosi intermezzi che nascono da un profondo, minuzioso lavoro di studio e ricerca storica. Sono melodie semplici, evocative, orchestrate con gusto e sobrietà, alternate in una "sfilata" perfettamente riuscita sia dal punto di vista musicale che da quello drammatico, sicuramente il momento più originale e più caratterizzante di Gloriana, che mette in evidenza il particolare gusto britteniano nell'unire antico e moderno, che si risconta soprattutto nel suo Midsummer's Night Dream e, ovviamente, nelle opere cameristiche.

Ma Gloriana ha anche un lato più drammatico e più intimo, che si mostra soprattutto quando Elisabetta è da sola in scena, come nel caso di "On rivalries 'tis safe for kings / O God, my king, sole ruler of the world", un intenso crescendo, molto cinematografico, in cui si è cimentata con esiti eccellenti anche la grandissima Leontyne Price, ma anche il duetto con Essex dell'ultimo atto, in cui la regina appare svestita, invecchiata, senza parrucca; è una tempesta emotiva di rabbia, dolore, tristezza, rimorso, rimpianto, in cui riemerge quell'orchestrazione secca, costruita principalmente su rapidi, incisivi passaggi degli archi, ampiamente utilizzata in Billy Budd; in un'ironica e geniale intuizione drammatica, segue un breve corale cameristico dagli intenti consolatori, che risulta però smorzato, volutamente inefficace, e viene ben presto riassorbito in un'atmosfera ormai esacerbata. E questo ci porta al gran finale, ancora con Elisabetta sola sul suo trono, che scivola via dalla realtà, simbolicamente scivola via dalla vita stessa, accompagnata dale voci del suo passato, e canta il suo personale, solenne requiem. Scelte, decisioni, conseguenze, passa tutto davanti ai suoi occhi ormai stanchi: questo è Britten al massimo della sua ispirazione, che in questa scena rimanda direttamente a quella frase simbolo di Peter Grimes, "I hear those voices that will not be drowned", frase che è incisa sulla scultura eretta in suo onore sulla spiaggia di Aldeburgh, cittadina costiera dove ha trascorso buona parte della sua vita, la sua personale Bayreuth, frase che rappresenta perfettamente il significato più profondo di tutta la sua produzione operistica drammatica e, in generale, la sua personalità artistica, il suo lascito ai posteri.

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