Tutto comincia con la lampadina al centro del soffitto rosso. Sopra un mondo muto e inconsapevole.

Chitarre jingle-jangling, riff simil hard-rock, melodie pop e feconde, allettanti armonie vocali, ma anche inflessioni intimiste, un suono sempre chitarristico ritratto in maniera cristallina, con un effetto presenza stordente. I Big Star sono un archetipo nella storia del rock. Il loro sound ha una forza espressiva primigenia. Naturalmente hanno avuto uno status di culto. I loro tre dischi, nei ‘70, non vendettero nulla.

Quando ascolti i Big Star l’anima soffre. Si ammala, ma si ammala di bellezza. Una bellezza che scava fossati e li riempie. Che ci sia lo spleen poi, proprio infondo al power-pop, non lo prevedresti affatto.

I Big Star sono Alex Chilton e Chris Bell. Due magnifici talenti compositivi. Chilton (28/12/1950, Memphis, TN) aveva esordito coi Box Tops, una sorta di boy band ante litteram d’orientamento blue-eyed soul. Sempre a Memphis incontra Chris Bell e i suoi Big Star dediti a un pop rock sguaiato. Il nome viene da una catena di supermercati, prima era stato Icewater e Rock City. È il 1971. Chris (12/01/1951, Memphis – 27/12/1978 Memphis) è altrettanto un eletto. Se Chilton reca in dote al gruppo la passione per il soul, Bell apporta Beatles, Who, Kinks e Byrds. Dalla loro sinergia nasce subito un capolavoro: "#1 Record" (Ardent, 1972). In "#1 Record" svettano melodie power pop e taglienti simmetrie chitarristiche, mescolando Mersey-beat, garage rock e jingle-jangle californiano, mettendo subito a fuoco un linguaggio poetico proprio (splendide "The Ballad Of El Goodo", "In The Streets", "Thirteen").

Bell però, data una già impossibile convivenza, lascia il progetto nelle mani di Chilton, che replica nel 1974 con "Radio City". Accanto a lui sono rimasti gli altri due Big Star, Jody Stephens alla batteria e Andy Hummell al basso.

"Radio City" (Ardent, 1974) ha un suono più ruvido del predecessore, in parte scuro; è un album coeso di guitar pop, con fluenti scrosci di accordi. Il canto di Chilton è discretamente abrasivo. Hummel copartecipa alla scrittura della metà dei brani, un paio –non accreditati- erano stati iniziati da Bell, ma il songwriting è ad appannaggio di Chilton, che attesta in esso tanto il suo ribellismo, quanto il suo turbato disincanto. Bell era più sottile e raffinato nella composizione, più versato e capace di trovare nelle armonie una dolcezza nascosta. Ma Chilton sa essere straordinariamente efficace e non gli è da meno. C’è da rammaricarsi per la loro irrimediabile frizione.

Il power-pop è sovrano nelle dodici canzoni: si va dai saliscendi ritmici di "O My Soul", dalla melodia dilatata e poi rappresa di "What’s Goin Ahn", alle struggenti e velenose "You Get What You Deserve" e "Daisy Glaze", fino ai riff assillanti degli anthem "Back of a Car" e, naturalmente, "September Gurls", perfezione per antonomasia del pop chitarristico.

«I loved you, well, nevermind
I've been crying all the time
».
["September Gurls"]

Si susseguono stati d’animo e sentimenti intricati nelle trame sgorganti e fitte del disco. Ci troviamo dentro nostalgia e malinconia, felicità e amarezza, un po’ di ironia e sprezzo. Tutto l’album esprime al meglio la fine di una adolescenza bella e maledetta. Non il nichilismo, ma l’inerzia. L’indolenza a fronte di grandi slanci. Un po’, infondo, quanto Tonio Kröger, il personaggio di Mann, avvertiva intimamente:

«A chi gli chiedeva che cosa intendesse fare nel mondo, dava risposte contraddittorie, perché, come soleva dire, egli portava dentro in sé possibilità per mille modi di esistenza, insieme alla segreta consapevolezza che, in fondo, si trattava di altrettante impossibilità».

Poi venne "Third" (PVC), registrato nel 1974, ma distribuito soltanto quattro anni più tardi; anche Hummel lascia, Chilton compone in solitaria con sensibilità –in parte- mutata e cupa, conseguendo vertici di lirismo insperati ("Holocaust", "Kangaroo"). È il terzo must di un trittico, dove Chilton unisce al soul i Velvet Underground più lievi. L’album, vittima di reiterati problemi di distribuzione, avrà giustizia solo con la ripubblicazione del 1992, prevedendo materiale aggiuntivo e il titolo "Sister Lovers", ad opera della Rykodisc.

Anche Lesa Aldredge, compagna di Chilton e membro dei Klitz, curiosa band femminile proto-punk di Memphis, lo abbandona contestualmente ad un rapporto burrascoso (a lei era stata dedicata "I’m in Love with a Girl"). Intanto Chris Bell muore in un incedente stradale, dopo aver appena fatto in tempo a pubblicare un singolo a dir poco sublime "I Am the Cosmos / You and Your Sister". Chilton, trasferitosi a New York, avvia una carriera solista discontinua, tra musica, alcol e soffitti meno rossi. Produce anche i due primi 45 giri dei Cramps, in "Cubist Blues" (Thirsty Ear, 1996) con Alan Vega e Ben Vaughn consegue forse il suo apice post Big Star, si ritrova a fare il tassista e il lavapiatti per sopravvivere. Per alcuni uomini non esiste una strada giusta. Nonostante una grande stella ne abbia illuminato la strada.

«Baby, I'm too afraid
I just don't know if it's okay
Trying to get away
From everything
».
["Back Of A Car"]

I Big Star, redivivi nel nuovo millennio grazie anche all’interessamento di molti colleghi musicisti, sono stati una delle band più influenti del rock & roll.

Cheap Trick, R.E.M., Db’s, Feelies, This Mortal Coil, Teenage Fanclub, Replacements (che renderanno un sentito omaggio ad Alex Chilton in “Tim”), Pixies, Wilco, Yo La Tengo gli sono debitori. Perfino le Bangles. E molti altri ancora.

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