Perché DeBaser non sarà mai un sito chic da shock? Perché in esso troviamo recensite le discografie (quasi intere) di gente fuori dalla grazia di Dio come Sol Invictus e Blood Axis (statevene bbuoni, che a breve vi recensisco anche l'ultimo!), e magari non troviamo album come questo “Sometimes I Wish We Were an Eagle”, ultima fatica solista di Bill Callahan, in arte Smog.

Ora, la cosa diviene ancora più incomprensibile se si pensa che su DeBaser non mancheranno certo i fan dell'autore in questione, ma la cosa impressionante (al di là del suo valore intrinseco) è che suddetto dischetto, a merito o meno, ha saputo un po' ovunque conquistare i cuori e scalare le classifiche di fine anno (2009) della critica pensante, stampata e web, tanto da accaparrarsi lo status di album rivelazione dello scorso anno.

DeBaser ha deciso di ignorarlo, ma probabilmente è nel giusto DeBaser, a cui la storia darà senz'altro ragione: perché se DeBaser fosse esistito negli anni sessanta son convinto avrebbe spregiato Beatles e Rolling Stones (cosa sempre buona e giusta) per rimpiangere Claudio Villa (in cui sarebbero state rinvenute tracce di perfido black metal norvegese) ed incensare alle sue primissime movenze quel giovane talentuoso e promettente che sarebbe divenuto poi il grande Jimi Hendrix (definendolo magari come l'alfiere ante litteram del più intransigente movimento post-drone-doom). E così, si diceva, la storia darà ragione a DeBaser, capace di comprendere al millimetro passato e futuro della storia della musica; ma è anche utile, a volte, non trascurare il presente, tanto per non dimenticarsi dove si sta di casa.

Provo a rimediare io: l'ultima prova di Bill Callahan (anzi la penultima, se si pensa al recentissimo studio-album “Rough Travel for a Rare”) non cambia il mondo, non traccia un profondo solco nella storia della musica, ma ha la qualità di farsi ascoltare e riascoltare (che poi è quel che conta), fin tanto che alla fine ci si convince per davvero di trovarsi innanzi a qualcosa al di fuori del comune.

Sulla falsa riga del precedente “Woke on a Whaleheart” (del 2007) e, più in generale delle ultime prove da studio uscite a nome Smog (“Supper” e “A River Ain't to much to Love”), il novello cantautore ama adagiarsi fra le soffici spire di toni intimi ed introspettivi. Un folk atavico e rurale del tipo “a volte vorrei che fossimo tutti nati a Nashville”? Non direi, dato che lo sforzo cantautoriale del Nostro non mi pare completo ed assolutizzante come potrebbe suggerirci una copertina di tal fattispecie, con tanto di prateria e cavalli pascolanti.

Del resto il percorso del Callhan, in bilico fra fragilità ed ironia, fra lo-fi ed indie rock, è sempre stato particolare, personale e rispondente a caratteristiche ben precise della personalità dell'autore: caratteristiche che nel tempo hanno delineato gli standard peculiari della produzione discografica a firma Smog. Dico non completa, poiché l'evoluzione artistica del Nostro è coerente con il tracciato che ha saputo lasciare dietro di sé negli ultimi vent'anni. E se per molti artisti la svolta solista ha significato epurazione minimalistica da ogni influenza più ampiamente definibile come rock, pura fuga nella tradizione più incontaminata, per Callahan rimane evidente la sua estrazione di autore tipicamente novantiano, la sua intrinseca incapacità di abbandonare molti degli elementi a lui cari: un approccio che per certi aspetti, in una accezione antipaticamente ed esageratamente severa, potrebbe esser letta come il segnale di una debolezza ed immaturità autoriale (cosa che, beninteso, non costituisce necessariamente un punto a sfavore, soprattutto per tutti coloro che hanno amato il glorioso passato del Nostro).

Non vorrei apparire eccessivamente analitico, ma la cosa che più mi lascia perplesso è questa incapacità di abbandonare l'epoca sbrilluccicante della gioventù, tanto che a tratti l'ascolto di questo pur bellissimo “Sometimes I Wish We Were an Eagle” suscita l'impressione che dietro a queste composizioni vi sia un giovane che cerca di auto-convincersi di essere vecchio, o, viceversa, un vecchio che vuole dilettarsi a fare il giovane. Nessuna delle due: Callahan è del '66; nel 2009, se la matematica non è un'opinione, il Nostro ha 43 anni, quindi non più così giovane da ergersi a cantore delle nevrosi di un post-adolescente alle prese con i suoi fallimenti, con le sue inadeguatezze innanzi alla società, con i suoi amori finiti male, ma nemmeno così vecchio per guardarsi saggiamente indietro, temere la morte ed avviarsi mestamente verso la propria fine. Di questo paradosso vive “Sometimes I Wish We Were an Eagle”, partorito in un'età ibrida in cui forse il Nostro aveva semplicemente voglia di scrivere buone canzoni alla sua maniera.

Il recitato a denti stretti e le chitarre slide farebbero così presagire ad un invecchiamento precoce, e l'impressione che dà la superba opener “Jim Cain” è proprio quella di una fuga a cavallo nei campi infiniti della memoria e della tradizione americana. Eppure nei suoi quasi 50 minuti l'album si rivelerà incredibilmente vario, pur essendo composto principalmente da ballate dal taglio lirico profondamente autobiografico. È l'insolita ricchezza strumentale a conferire profondità all'impeto innegabilmente intimistico di Callahan, qui in veste più amara e disincantata del solito: in particolare sono gli arrangiamenti degli archi (ma anche dei fiati, del piano, dell'organetto, delle sporadiche chitarre elettriche) che donano varietà all'impostazione essenzialmente acustica delle 9 tracce presenti sull'album. Una varietà che è figlia diretta di un artista spontaneo e decisamente poco rigoroso, che non sa dir di no alla più lieve delle sue pulsioni. Per esempio, gli arrangiamenti da mille ed una notte che caratterizzano l'ipnotica e suadente “The Wave and the Dove” ci stanno come il cavolo a merenda, dato il contesto, eppure il brano funziona, candidandosi fra i migliori del lotto, ed è forse proprio questa l'arma vincente dell'album (e dell'artista): il non voler (o non saper) diluire le idee in vista di velleità più nobili di quanto ci si possa permettere, andando piuttosto ad assecondare tutto quello che viene percepito come idoneo ad esser rappresentato e messo in scena.

Il doppiettone “My Friend” e “All Thoughts are Prey to some Beast”, in effetti, spezzano il languore imperante ripescando fraseggi elettrici (mai invadenti) e tempi più incalzanti, facendo riemergere il lato più giovanile e divertito dell'autore, ma anche quello più teso e drammatico, merito anche di una batteria dal colpo secco e deciso che stona un po' con il mood essenzialmente acustico dell'album, ma che ci ricorda la provenienza novantiana del Callahan (mai, del resto, quanto la vispa ed orchestrata “Eid Ma Clack Shaw”, l'episodio più vicino alla produzione del passato).

I passaggi più introspettivi sono invece testimoniati da dolci ballate dal passo blando e paesaggistico, di cui “Rococo Zephyr” (con tanto di soave controcanto femminile) e “Too Many Birds” sono le migliori rappresentanti.

Posto d'onore, in coda posizionata, per “Faith/Void”, struggente ballatone di quasi dieci minuti, infarcito da avvolgenti carezze d'archi (sempre ottimo il contributo in sede di arrangiamento di Brian Beattie, a cui dobbiamo molto ai fini della buona riuscita del prodotto) e dal sempre affascinante canto vellutato di Callahan, che a questo giro ci sembra mimare il pahos baritonale di un Barry White colto da paresi facciale.

Quella che può quindi sembrare una stroncatura dai troppi “ma” e “però”, è in verità una promozione a (quasi) pieni voti del lavoro di un autore che vince la sfida con se stesso ed è in grado di tagliare il nastro del (quasi) ventennale anniversario della propria carriera con uno degli album più riusciti del 2009. E se questa recensione vi fa cagare, consolatevi con il fatto che state leggendo DeBaser, che se anche prova a cimentarsi con gli album più fighi del momento, non rinuncia alla propria vocazione di voce indipendente, irriverente ed irrimediabilmente colma d'idiozia del chiacchierato gran mondo della musica.

Elenco tracce e video

01   Jim Cain (04:39)

02   Eid Ma Clack Shaw (04:19)

03   The Wind and the Dove (04:34)

04   Rococo Zephyr (05:42)

05   Too Many Birds (05:27)

06   My Friend (05:12)

07   All Thoughts Are Prey to Some Beast (05:52)

08   Invocation of Ratiocination (02:41)

09   Faith/Void (09:44)

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