Una cassa e un cimbalo che battono il tempo con l’entusiasmo di un impiegato postale al venerdì pomeriggio, una chitarra che sembra arrivare da un'altra dimensione, talmente lontana e riverberata da sembrare il suono di un miraggio, e infine una voce che più che cantare sembra impartire una profezia, tra il lamento e la minaccia. Non è musica, è uno scenario. Un incubo in slow motion. Un deserto sonoro in cui i Blackout Beach mettono in scena il loro personale medicine show post-apocalittico, e al centro del palco troviamo lui: il ciarlatano con la voce rotta, Carey Mercer, pronto a venderci la sua pozione miracolosa – probabilmente a base di ruggine, cenere e bourbon scaduto.

La sua voce – che potremmo definire una forma di possessione vocale con tendenze drammatiche – può rapirti come un sermone di mezzanotte in una chiesa abbandonata, oppure respingerti con la stessa violenza di un portone sbattuto in faccia durante una tempesta nel Mojave. Declama, ammonisce, si dispera, e lo fa con una teatralità talmente esasperata che anche Klaus Kinski, da qualche parte, potrebbe alzare un sopracciglio.

"Skin of Evil" non è un disco che ti tiene per mano, non ti accompagna al mare con la capotte abbassata e gli occhiali da sole. No, questo album ti getta in mezzo alla polvere, ti fa inciampare in scheletri di cavalli e rottami arrugginiti.
È un western gotico allucinato, in cui l’eroe è un antieroe che ha letto troppo McCarthy e ascoltato prediche sotto anfetamina.

Certo, tutto questo può anche affascinare. L’America evocata qui è mitologica e malata, tanto distante quanto familiare: un territorio dove convivono la malinconia di Edgar Lee Masters, l’epica disperata di Cormac McCarthy, e un'eco sgangherata del Nick Cave più teatrale, senza però il lusso dell’orchestra.

Non aspettatevi leggerezza, né “vibrazioni positive”. Questo è un disco che si soffre, si digerisce lentamente e forse non si digerisce affatto. Ma se vi lasciate trasportare dalla sua poesia scorticata, dal suo cinismo lirico ma non sterile, potrebbe anche piacervi. Magari non oggi, non domani, ma un giorno d'inverno, quando tutto intorno sarà grigio e l’unico colore possibile sarà il marrone del fango e del tabacco.

E chissà, forse proprio allora vi sembrerà persino una carezza. Una carezza ruvida, con le nocche spaccate e l’alito alcolico.

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Altre recensioni

Di  PaxEst

 Non è musica, è uno scenario. Un incubo in slow motion.

 Questo album ti getta in mezzo alla polvere, ti fa inciampare in scheletri di cavalli e rottami arrugginiti.