“Non sono lunghi i giorni del vino e delle rose. Dalle nebbie di un sogno il nostro cammino appare d’un tratto e poi nel sogno si perde.” Kirsten
Hollywood primi anni 60, Jack Lemmon diretto da Blake Edwards, una bella bionda come coprotagonista e colonna sonora di Henry Mancini: tutto questo sarebbe garanzia di una commedia di alta classe e di sicuro successo, ma “Colazione da Tiffany” è ormai alle spalle e i temi ed i toni di questa pellicola sono ben diversi. La vicenda narra sì una storia d’amore, storia funestata però dallo spettro dell’alcool, che distrugge a poco a poco la vita dei due protagonisti.
Joe si occupa di pubbliche relazioni e tra un party di lavoro e l’altro alza spesso il gomito, tornando a casa ubriaco fradicio ogni volta. Un giorno in ufficio conosce Kirsten (Lee Remick), i due si innamorano e si sposano. Ben presto lui le attacca il vizio di bere e le serate volano tra coctails, alcolici, bottiglie e sbronze colossali, finché Kirsten sceglie di smettere perché incinta. La sobrietà di lei non durerà a lungo e la coppia si avvia inesorabilmente verso il baratro. Nonostante i tentativi da parte di entrambi di uscire dalla schiavitù della bottiglia, essa avrà ogni volta la meglio, causando problemi sempre maggiori in casa, nella vita quotidiana e anche nel lavoro di Joe, il quale, resosi conto della propria condizione, decide infine di rivolgersi agli Alcolisti Anonimi per avere un aiuto più concreto.
Edwards indaga nell’intimità della coppia e descrive realisticamente il percorso che trasforma due persone “normali” in alcolizzati, cercando di cogliere le dinamiche cruciali di un gioco spensierato che diventa un incubo senza via di uscita. I toni da commedia, accennati nella prima mezz’ora del film, lasciano il posto a momenti drammatici e di tensione sempre più pressanti. Il grande pregio de “I Giorni del Vino e delle Rose” risiede nell’affrontare un tema delicato e purtroppo molto attuale, senza scivolare in facile retorica tipica del positivismo made USA, che permea la filmografia hollywoodiana fino alle più alte sfere; per fortuna ci viene risparmiata la lezioncina di morale “chiunque può sbagliare ma con la forza di volontà e olio di gomito tutto si rimette a posto!” (che viene ripetuta a piè sospinto tutt’oggi più che mai!) e l’etilismo viene considerato, giustamente, un nemico subdolo ed invisibile assai difficile da affrontare e da sconfiggere. Il film procede per “tappe”: ogni sequenza rappresenta uno scalino verso gli inferi ed ogni volta lo spettatore è portato a credere “forza, questa è la volta buona, magari qualcosa è cambiato davvero”: ciò ricalca esattamente i buoni propositi di un alcolizzato che si illude soltanto di essere uscito dal tunnel. I due protagonisti perdono progressivamente il controllo sulle proprie vite, e l’alcool diventa il centro del loro universo. Tra le scene più intense e memorabili ricordo soprattutto la sequenza ambientata nella serra e quella nel motel, verso il finale. Molto interessante è la doppia visione della vita (ebbra e sobria) vissuta sulla propria pelle dai protagonisti e dell’inconciliabilità di questi due modi di vivere, ognuno incapace di intendere o giustificare l’altro, ognuno che vorrebbe trascinare a sé e convertire in sé l’altro. L’amarezza di fondo è generata in particolar modo dal senso di impotenza e dall’impossibilità di riparare veramente ai danni fatti, perché l’esperienza del bere non viene mai completamente superata, bene che vada lascia un segno profondo nell’anima.
Sul tema dell’alcool (e delle dipendenze in genere) scopriamo l’acqua calda, è vero, per questo non mi dilungherò oltremodo. Senza troppi discorsi, vale la pena ammirare la bellezza di un film, con una fotografia in bianco e nero straordinaria, che mostra come sia possibile cedere al terribile fascino dell’autodistruzione e come non basti pentirsi per risolvere tutti i guai. Jack Lemmon, bravissimo, trova l’equilibrio giusto per rappresentare una storia assolutamente verosimile e per rendere credibile il personaggio evitando di creare uno stereotipo. A mio parere, uno dei migliori film sull’etilismo insieme, con le dovute distanze, a “Giorni Perduti” (B. Wilder 1945) e “Via da Las Vegas” (M. Figgis 1995).
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